Antitesi n.10Imperialismo e guerra

La tigre lacerata

La crisi interna dell’imperialismo Usa

Imperialismo e guerra da Antitesi n.10 – pag.38


Il 6 gennaio, mentre il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti d’America attende il voto che certifica la sua elezione, una folla di migliaia di manifestanti si concentra a Washington dando vita alla Save America March. Durante la mattinata ad arringare la folla si avvicendano il presidente ancora in carica Donald Trump, i suoi figli, l’ex sindaco di New York, nonché avvocato dello stesso Trump, Rudy Giuliani e diversi deputati. Trump afferma apertamente di non riconoscere la vittoria del suo sfidante Biden e tutti i relatori, nel rivendicare la vittoria repubblicana, denunciano brogli elettorali invitando i manifestanti a marciare verso Capitol Hill e a “combattere come dannati”.

Ciò che avviene in seguito, immortalato in mondovisione, è la rappresentazione plastica della crisi della principale potenza imperialista del pianeta. I manifestanti, che “violano” il tempio della democrazia a stelle e strisce durante il sacro rito che formalizza la transizione di potere, costringono anche i più entusiasti apologeti filoyankee ad ammettere che negli Usa c’è un problema.

Tuttavia, mentre quest’ultimi identificano il problema nella persona di Donald Trump e tirano un sospiro di sollievo nella sua sconfitta elettorale, per noi la questione è ben più ampia e profonda.

Si tratta della crisi dell’imperialismo Usa, della sua egemonia sul fronte esterno e della tenuta politico-sociale sul fronte interno. I fatti di Capitol Hill s’inseriscono in quel clima di “guerra civile strisciante” che attraversa da tempo la società statunitense e che si manifesta nei riots contro la polizia come risposta alle violenze degli agenti, nella formazione di centinaia di milizie armate organizzate dai suprematisti da un lato e da forze antifasciste e progressiste dall’altro, quest’ultime nate con l’obiettivo principale dell’autodifesa, una dinamica in cui viene messa da parte l’illusione pacifista della non violenza.

La crisi sul fronte interno e quella sul fronte esterno sono legate da un’intima dialettica, in base alla quale l’incapacità di compattare le masse all’interno dei propri confini, attraversate da un forte protagonismo e da un combattivo desiderio di cambiamento, indebolisce e lacera la tigre yankee nel suo obiettivo di costruire un’egemonia mondiale. Così come le difficoltà e le contraddizioni degli Usa nello scontro strategico con la Cina, la Russia e i popoli oppressi, si riflettono all’interno del paese, aggravando la portata della crisi economica e delle sue contraddizioni sul piano sociale e politico.

Queste ultime elezioni hanno fotografato essenzialmente questo. Il trumpismo si è costruito attorno alla difesa del forgotten man, l’uomo dimenticato. Questo simbolo, che idealmente rappresenta l’uomo bianco, etero, di classe medio-bassa, escluso dalle scelte del governo, unisce tutti quelli che si sentono traditi dall’establishment, impoveriti dalla globalizzazione e ha permesso ai repubblicani di vincere le elezioni del 2016 rubando terreno ai democratici. Se nel suo mandato Trump con le sue politiche ha tradito il mito del forgotten man, d’altra parte ha stretto attorno a sé i settori di destra reazionaria acuendo lo scontro ideologico destra – sinistra e mobilitando a suo sostegno questi settori, come si è visto il 6 gennaio.

L’offensiva di Trump contro l’esito elettorale ha messo a nudo la tanto decantata “democrazia” statunitense. Quest’ultima tornata elettorale, la più partecipata del secolo, ha visto un’affluenza di appena il 66% degli elettori. Il meccanismo di voto statunitense è studiato per rendere la transizione di potere da un candidato all’altro il meno traumatica possibile, all’insegna della continuità degli interessi generali della sezione dominante della borghesia imperialista. Il sistema politico-istituzionale statunitense non è costruito per una società polarizzata e divisa anche all’interno della classe dominante e dei suoi rappresentanti politici; è un sistema dove si presume che le burocrazie statali, la presidenza e le altre istituzioni siano tendenzialmente in armonia e che il ricambio presidenziale avvenga senza traumi. L’attacco di Trump all’esito elettorale ha rotto questa armonia, mettendo in discussione la legittimità stessa della “democrazia” Usa.

Trump e il trumpismo hanno compattato ideologicamente settori politici e sociali pronti a mobilitarsi in sua difesa, anche con l’uso della forza: questa è una novità per la politica yankee. Questo blocco storico, che lo ha portato alla vittoria nel 2016, comprendeva: settori di classe operaia, ampi segmenti della classe medio-alta, (ricordiamo che i sondaggi hanno identificato in 72 mila dollari il reddito medio di un partecipante alla campagna elettorale di Trump), uniti a quelle fasce più conservatrici economicamente di area repubblicana. Con l’elezione di Trump si era così evidenziata una rottura tra esito elettorale e classe dominante.

Buona parte della grande borghesia ha sempre osteggiato Donald in tutta la fase di scalata delle primarie e anche durante la sfida elettorale con Hillary Clinton. La grande borghesia statunitense, quella legata alla transizione “green”, all’apertura dei mercati e alla globalizzazione, come ad esempio i settori hi-tech, lo ha sempre osteggiato. La linea di “rigenerazione” dell’imperialismo Usa, sia sul fronte interno che su quello esterno, portata avanti dal miliardario repubblicano, si basava infatti sulla difesa dei settori industriali tradizionali, una nuova deregolamentazione finanziaria dopo i limiti posti da Obama, nonché il protezionismo rispetto ai concorrenti esterni, riducendo il deficit e riportando sul suolo statunitense capitali e produzione diretta di valore. Ciò ha reso Trump il rappresentante di sezioni particolari di borghesia imperialista statunitense, quelle legata al carbone, la finanza speculativa, gli industriali dell’acciaio, dell’alluminio e dell’agricoltura, che hanno visto nelle politiche protezionistiche e nella revisione dell’accordo Nafta un tornaconto. A tale divisione, va aggiunto l’allora dichiarata volontà di Trump di allentare lo scontro con la Russia, per concentrarsi sul nemico commerciale e finanziario, cioè la Cina.

Le contraddizioni interne alla classe dominante, sul piano degli interessi materiali e delle linee strategiche si sono così accentuate, e le altre sezioni di borghesia imperialista, tramite lo “Stato profondo”1 e i vari organismi di garanzia, gli hanno dato battaglia e filo da torcere dal giorno della sua elezione nel 2016.

Successivamente ai fatti di Capitol Hill, la direzione dei repubblicani, buona parte del suo entourage e il suo vice Mike Pence hanno voltato le spalle a Trump, isolandolo e dissociandosi da quanto avvenuto il 6 gennaio. Le sezioni dominanti della borghesia imperialista statunitense hanno tirato fuori le unghie, decise a far fuori il tycoon e tutti i suoi sostenitori; ne sono segnali evidenti la chiusura dei suoi account social, la censura sui principali media nazionali e il secondo tentativo di impeachment votato anche da diversi deputati repubblicani, fino all’estromissione dei suoi sostenitori più in vista dalle forze di polizia e dell’esercito.

Le immagini della Guardia Nazionale accampata dentro al Campidoglio, il coprifuoco a Washington e il giuramento del nuovo presidente senza la rituale folla di spettatori, rimpiazzati da altrettante bandierine a stelle e strisce, ci restituiscono la fotografia di una democrazia blindata, di un’egemonia interna ed esterna in frantumi con la quale il neopresidente eletto dovrà fare necessariamente i conti.

Biden dal canto suo, durante la campagna elettorale, ha puntato sia a capitalizzare le mobilitazioni di massa dell’ultimo periodo e dall’altra parte a proporsi come il difensore della “democrazia” Usa, come espressione di stabilità e responsabilità istituzionale contro la presunta irrazionalità di Trump. Compito di Biden sarà tentare di costruire un’egemonia attorno a sé che vada oltre il momento elettorale, con il sostegno di ampi settori della borghesia imperialista e dello “Stato profondo”.

È a partire dalle risposte che verranno date al quadro generale di crisi economica e politica sul fronte interno e di egemonia sul fronte esterno che si valuterà il rapporto tra continuità e discontinuità tra questa e la scorsa amministrazione. Il post Trump non sarà un ritorno al pre-Trump, ma dovrà necessariamente confrontarsi con le contraddizioni interne ed esterne dell’imperialismo yankee e da quanto fatto dall’ex presidente nel corso del suo mandato.

L’America profonda e la politica economica interna

La Rust Belt è quella regione compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi. La cintura della ruggine è, o meglio era, il cuore industriale degli Usa. Il suo nome attuale sostituisce quello storico, Factory Belt, a rimarcare come il passato di acciaierie, aziende automobilistiche e manifatture abbia lasciato il posto all’abbandono e alla ruggine appunto. In questa zona sono presenti i principali swing state, ovvero le zone i cui voti sono costantemente in bilico e che, dato il loro peso nel quadro dell’architettura elettorale, diventano decisivi nell’esito finale.

Proprio qui, Donald Trump, nel 2016 riesce a strappare l’Ohio per una manciata di voti a Hillary Clinton, aggiudicandosi così la presidenza alla Casa Bianca. Ampi settori di classe operaia dell’industria manifatturiera e del comparto siderurgico, dopo aver sostenuto Obama otto anni prima, hanno preferito appoggiare la visione protezionista di Trump per poi, visti i risultati, ritornare al voto democratico durante l’ultima tornata.

A partire dalla metà degli anni Settanta le tradizionali aree manifatturiere vengono investite da una crisi sociale senza precedenti per effetto della delocalizzazione degli impianti produttivi e dell’introduzione dell’automazione di ultima generazione, come risposta padronale alla crisi da sovrapproduzione che esplode in quegli anni e all’interno della quale siamo tuttora. Fino ad allora i grandi monopoli, come General Motors (Gm) nell’auto e Us Steel nell’acciaio, avevano goduto di una posizione di rendita, garantita da un certo protezionismo e da politiche espansive di stampo keynesiano da parte del Congresso, tali da renderli dei giganti del settore, tra i più grandi e redditizi del mondo. Il declino del manifatturiero ha fatto registrare una perdita di addetti dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del 34%, andando poi a stabilizzarsi a metà dello stesso decennio, ma ad una quota molto inferiore. Prima degli anni Ottanta le quote di mercato di auto, acciaio e gomma-plastica detenute dalle aziende della Rust Belt era pari al 90% del mercato interno; con l’apertura dei mercati e la pressione della concorrenza straniera il declino della zona è incontrovertibile. Inoltre, se da un lato le aziende si rivolgono al mercato straniero per acquistare prodotti a prezzi inferiori, per lo stesso principio spostano le proprie aziende all’estero, alla ricerca di un costo del lavoro più basso. Dal 1997 al 2018 sono stati persi quasi 5 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero e più di 91 mila stabilimenti sono stati chiusi.

L’ultima tornata della crisi prima del Covid19, quella successiva allo scoppio della bolla dei debiti subprime, non ha fatto altro che approfondire queste contraddizioni portando le principali aziende automobilistiche, Gm e Chrysler, a dichiarare fallimento nel 2009 e richiedere il chapter 11, ovvero l’amministrazione controllata. A salvare il gigante dell’auto sarà Barack Obama con un conto finale negativo di oltre 10 miliardi di dollari. Tuttavia il salvataggio del settore automobilistico non pesa solo nelle tasche dei contribuenti, ma anche dei lavoratori dell’auto costretti ad una pesante ristrutturazione, tagli dei salari e dei diritti. La crisi che investe questo settore è ben fotografata dal fallimento di Detroit nel 2011, la capitale automobilistica degli Stati Uniti, con un passivo di 18 miliardi di dollari derivanti in parte dai mancanti introiti derivanti dalle tasse. Dal 2000 al 2012 la città simbolo dell’industria yankee ha visto perdere un quarto della propria popolazione: dagli anni Cinquanta ad oggi è passata da due milioni di abitanti a 650 mila. Il tasso di disoccupazione è triplicato con la crisi del 2009 ed è il doppio rispetto alla media nazionale2.

Il lavoro operaio, che garantiva sistema sanitario, pensionistico e una certa capacità di consumo, viene sostituito dal settore terziario: logistica, call center, trasporto di passeggeri con mezzi propri (Uber) e altri lavori della gig economy, l’economia degli espedienti, senza garanzie e con bassi salari. A fare la differenza non è solo la quantità del lavoro, ma anche la sua qualità. Un esempio da manuale in questo senso è Janesville, nel Wisconsin: nel 2008 la Gm chiude uno stabilimento che dava lavoro alla città da 85 anni, eppure, nel 2019 il tasso di disoccupazione è solo del 3,7%. Dietro al dato statistico si cela la cruda realtà che ha visto la popolazione di una città passare da un lavoro fisso, con garanzie sanitarie e pensionistiche, pagato 28 dollari l’ora, all’economia degli espedienti dove, per poter mantenere lo stesso tenore di vita, sei costretto a fare almeno due lavori e, per far studiare i figli, devi rivolgerti alle banche e ai prestiti universitari con tassi d’interesse dell’11%3.

E se questa è la condizione del proletariato, va detto anche che gli ultimi vent’anni hanno visto la disgregazione della classe media e l’impoverimento del suo cuore: bianco, anglosassone e protestante (wasp). Nell’aggravarsi della crisi sono peggiorate le condizioni di vita delle minoranze e delle donne maggiormente esposte al rischio di in-work poverty, ovvero di lavorare e allo stesso tempo vivere con un reddito al di sotto della soglia di povertà.

La crisi della Rust Belt è in qualche modo la fotografia più nitida della crisi interna del capitalismo Usa, alla quale Donald Trump ha cercato di rispondere con il suo Make American Great Again. Nel 2016 gli elettori dei primi 25 stati classificati in base all’occupazione nel settore manifatturiero hanno dato quasi l’80% dei loro voti ai repubblicani, attratti dalla propaganda di politiche volte al reshoring delle imprese manifatturiere, all’imposizione di dazi per rallentare il deficit commerciale e a rilanciare la produzione interna.

Il dato interessante risiede nel fatto che le politiche di Trump non hanno invertito la tendenza e hanno modificato solo in minima parte il quadro economico. Uno studio dell’Economist del 2019 ha dimostrato come alla diminuzione dello scambio commerciale, sotto il peso dei dazi incrociati tra Usa e Cina, non sia seguito alcun aumento compensativo della produzione manifatturiera interna lorda4. Gli annunci roboanti di Trump, come l’apertura nel Wisconsin di una sede della Foxconn con un investimento di 10 miliardi di dollari e il sostegno pubblico con un sussidio di altri 3 miliardi, che doveva ipoteticamente dare lavoro a 13 mila persone, sono stati ad uso e consumo delle telecamere. Ad oggi, in molti casi, il reshoring risulta essere ancora argomento di dibattito televisivo anziché concreta strategia aziendale, specie per le produzioni con bassa composizione organica. Le delocalizzazioni della manifattura sotto Trump sono continuate mediamente come durante la precedente amministrazione, ovvero in flessione rispetto agli anni di fuoco della grande recessione (2009-2010) ma in tendenziale aumento5. Lo stesso vale per i posti di lavoro nell’industria che, all’interno di un quadro generale storico in caduta libera dagli anni Cinquanta, recuperano in media 166 mila posti ogni anno. Un “recupero” che ha dovuto fare i conti con l’aggravamento della crisi causato dal Covid che, solo nel 2020, ha spazzato via altri 740 mila posti di lavoro.

Le politiche protezionistiche, cavallo di battaglia di Trump, si sono infrante davanti al fatto che le aziende che si rifornivano dalla Cina hanno continuato ad acquistare le merci pagando un prezzo più alto, o in alternativa hanno semplicemente optato per diversificare la catena di approvvigionamento verso altri paesi in via di sviluppo non gravati dai dazi. Il dato fondamentale è che le catene del valore continuano a muoversi fuori dai confini Usa. Esempio emblematico è stato il riflesso dell’accordo Usmca in sostituzione del vecchio Nafta. Il deficit commerciale tra Usa e Messico è aumentato di oltre il 29% nel solo 2019 e, rimanendo nel campo automobilistico e ricambi auto, la Gm ha chiuso diversi stabilimenti in Ohio, Michigan e Maryland, aumentando le sue dipendenze dalle importazioni dal Messico. Attualmente le delocalizzazioni colpiscono anche i settori a più alto valore aggiunto, come l’industria aerospaziale, con un aumento delle delocalizzazioni del 10% nel 20196.

Il Nafta era un accordo che non godeva di grande apprezzamento da parte di nessuno schieramento; non a caso nella sua modifica Trump ha trovato un sostegno trasversale. Gli aspetti più innovativi del trattato Usmca sono relativi al comparto automobilistico: l’accordo fissa al 75% le parti di un veicolo realizzato in uno dei tre paesi, Usa, Messico o Canada, in aumento rispetto alla quota del 62,5%; richiede inoltre che il 40% delle auto e il 45% dei furgoni (all’interno dei quali rientrano anche i Suv e i Pick-up) debbano essere prodotti da lavoratori che guadagnano almeno 16 dollari l’ora, in caso contrario gli Usa applicheranno un dazio di 2,5% a mezzo esportato. A questo si affianca l’azzeramento dei dazi nel comparto agroalimentare e in diverse voci riguardanti proprietà intellettuale, ambiente ed e-commerce. L’amministrazione Trump aveva previsto che il nuovo Usmca avrebbe creato circa 76 mila nuovi posti di lavoro e circa 34 miliardi di dollari di nuovi investimenti nel solo settore auto. Ma come ha sottolineato l’International Trade Commission (Its), l’impatto è nettamente inferiore per due motivi: in primis l’Usmca differisce su alcuni punti dal Nafta, ma sono maggiori le similitudini delle divergenze, inoltre, il dazio nel caso di irregolarità è così basso che le aziende automobilistiche potrebbero decidere di pagarlo senza modificare i loro piani aziendali. L’Its ha rimodulato le stime parlando di 28 mila posti di lavoro nel settore automobilistico spalmati nell’arco di sei anni. L’obiettivo dell’amministrazione statunitense era quello di calmierare il dumping salariale tra Messico e Usa o quantomeno renderlo più oneroso per le case costruttrici; inoltre con il nuovo Usmca ha stabilito che ogni possibile accordo con paesi con economie “non di mercato”, principalmente la Cina, da parte di Messico e Canada dovrà essere sottoposto alla visione completa degli altri partner, i quali potranno recidere gli accordi di libero scambio in soli sei mesi. Più che modificare il rapporto commerciale tra i tre paesi, l’Usmca pone un veto alla possibilità di Canada e Messico di relazionarsi con il nemico strategico degli Usa.

In generale possiamo dire che, dal punto di vista dell’economia interna, la campagna protezionista ha fatto registrare un miglioramento principalmente nel settore dell’acciaio e dell’alluminio, andando ad incidere verso le esportazioni degli altri grandi produttori internazionali e aumentando in minima parte la produzione interna (circa il 2%). Ma è altrettanto vero che i settori siderurgici hanno avuto un guadagno nel brevissimo termine grazie all’aumento dei prezzi, come riflesso della contrazione dell’offerta straniera, ma nel medio e lungo periodo i dazi su acciaio e alluminio hanno portato ad un crollo (secondo semestre 2018 e inizio 2019) per effetto dello smaltimento delle scorte e dell’aumento dei costi del processo produttivo. La Federal Reserve ha ampiamente dimostrato come il guadagno derivante da una maggior protezione del mercato interno sia inferiore rispetto ai costi del processo produttivo e all’andamento della domanda aggregata, tale che l’inserimento dei dazi in ultima analisi viene pagato principalmente dal consumatore statunitense, il quale si è visto aumentare i prezzi mediamente del 0,5%7. In altre parole, il protezionismo ha aumentato i costi delle merci in ingresso (materie prime, semi lavorati, ecc.) soggette ai dazi, senza determinare un aumento generale di domanda di beni e servizi che, nella visione di Trump, avrebbe dovuto rilanciare complessivamente l’economia Usa. Tutto ciò accade prima dell’aggravarsi della crisi a causa della pandemia del Covid 19.

Negli altri settori la politica commerciale di Trump ha principalmente ridotto la domanda globale di manufatti negli Stati Uniti, piuttosto che aumentare la produzione statunitense. Trump, con l’America First, ha tentato di regolare l’interesse specifico delle multinazionali nella contraddizione con l’interesse complessivo dell’imperialismo Usa, contraddizione che è alla base della crisi della formazione imperialista statunitense.

Più in generale i quattro anni di politica economica di Trump sono stati caratterizzati da tagli alle tasse, alta spesa pubblica e deregolamentazione. L’amministrazione del tycoon ha tagliato le tasse ai grandi capitali principalmente con la corporate tax che ha portato all’abbassamento dell’aliquota massima dal 35% al 21%, nell’ottica di rendere maggiormente competitivi i colossi statunitensi nel mercato mondiale. Non solo, la riforma fiscale ha previsto sgravi per circa l’80% della classe media e la riduzione del 20% delle tasse per le società a responsabilità limitata. Il costo complessivo della riforma è stato di 1460 miliardi di dollari in dieci anni, portando il disavanzo federale complessivo alla soglia di circa 3 mila miliardi di dollari. I risultati di questa mastodontica manovra finanziaria sono stati però ben al di sotto delle aspettative.

Dopo aver registrato un’impennata nei trimestri immediatamente successivi alla riforma l’andamento del Pil Usa si è stabilizzato ai valori precedenti, perché i capitali derivanti dall’alleviamento della pressione fiscale sono rimasti all’interno del mercato finanziario, senza tradursi in nuovi investimenti nell’economia reale. Non a caso infatti, durante i quattro anni, gli indici Dow Jones e Nasdaq hanno continuato a registrare massimi record come mai prima, anche durante lo scoppio della pandemia. Mentre le borse nel resto del mondo risentivano della crisi del commercio e della produzione, la borsa statunitense ha continuato a salire. Un esempio lampante è quello del Ceo di AT&T Randall Stephenson che aveva promesso di creare 7 mila posti di lavoro se fossero stati approvati i tagli alle tasse. AT&T ha ottenuto un guadagno fiscale di 21 miliardi di dollari e ha eliminato 23.328 posti di lavoro dall’approvazione della legge, riducendo gli investimenti di capitale di 1,2 miliardi di dollari. Le aziende hanno sfruttato i guadagni fiscali per riacquistare un migliaio di miliardi di dollari delle proprie azioni.

Nell’ambito della crisi da sovraccumulazione, i capitali in cerca di valorizzazione tendono ad essere investiti nell’ambito finanziario e nelle dinamiche speculative rispetto agli ambiti produttivi. Questo non avviene per qualche “malfunzionamento” del capitalismo, ma perché l’incremento della speculazione finanziaria risponde ad una funzione necessaria, ovvero rendere disponibile ai capitali sovraccumulati uno sbocco “redditizio”. Risponde quindi alle necessità di riproduzione del capitale e manifesta la profondità della crisi del settore produttivo proprio nell’impossibilità dell’investimento in questo ambito perché poco redditizio di plusvalore. La crescita della dinamica della speculazione finanziaria porta con sé il fardello di alimentare la “bolla” pronta ad esplodere, come avvenuto per i debiti subprime.

Le politiche economiche di Trump non sono di certo andate nella direzione del forgotten man, quanto piuttosto di sezioni particolari della grande borghesia. Nello specifico l’abbassamento delle tasse da un lato, la revisione del Dodd Frank Act8 e in generale la deregolamentazione della finanza hanno “liberato” capitali che si sono riversati su Wall Street alimentando i profitti dei fondi speculativi e ovviamente gonfiando la bolla della finanza statunitense.

Lo scontro tra “interessi particolari” e “interessi generali” della classe dominante è ben fotografato dal rapporto convulso tra Trump e la Chambers of Commerce9. Possiamo dire che questo riflette lo scontro interno alla borghesia, la quale è sempre in lotta con se stessa, soprattutto nelle fasi di crisi. Gli “interessi generali” come quello della green economy, reputato globalmente il nuovo volano per un salto di composizione organica del capitale e terreno di conquista contro i competitori internazionali, si scontrano frontalmente con gli interessi di quei settori di borghesia che hanno nel petrolio, nel gas e nel carbone la propria fonte di profitto. Altrettanto vale per lo scontro tra linea “protezionista” e linea “globalista”, o per quello sulle politiche trumpiane legate all’immigrazione clandestina, contrastata a più riprese dall’asse padronale interessato a non diminuire della manodopera a bassissimo costo in ingresso10.

Trump si è posto come rappresentante di alcune fazioni di borghesia imperialista e ha prospettato, fallendo, una linea per l’intera classe dominante degli Usa sia sul fronte esterno (protezionismo, tendenziale isolazionismo e recupero dei deficit commerciali) sia sul fronte interno (legge ed ordine, divisione dei lavoratori su base etnico-razziale, promozione della cultura nazionalista), sviluppando una linea di massa soprattutto tra media e piccola borghesia. Una linea di massa che si è concretizzata poi essenzialmente nella riforma fiscale, finendo per rappresentare più gli interessi del grande capitale che del ceto medio. L’abbandono da parte di pressoché tutta la classe dominante statunitense è avvenuta già nel corso del suo mandato, visto che le sue politiche non avevano centrato buona parte degli obiettivi. Quindi i fatti di Capitol Hill sono la manifestazione estrema della contraddizione a cui è arrivato il sistema imperialista statunitense, con una presidenza che non accetta la destituzione da parte della classe dominante e finisce, consapevolmente o inconsapevolmente che sia, a trasformare questa sua ribellione politica in una rivolta contro i palazzi del potere.

L’attacco ai lavoratori e le mobilitazioni di massa

A dispetto dei suoi proclami in difesa della working class, le politiche di Trump hanno portato ad un avanzamento senza precedenti degli attacchi ai diritti e al salario dei lavoratori dipendenti, con i quali il miliardario repubblicano intendeva dimostrare la sua piena fedeltà agli interessi della classe dominante statunitense. Sulla carta, il taglio delle tasse ha prodotto un piccolo miglioramento delle condizioni salariali e l’espansione del settore terziario, con i suoi lavoretti saltuari e precari, ha di fatto falsato il mercato del lavoro, portando i livelli di disoccupazione ai minimi storici dagli anni Cinquanta. D’altra parte Trump ha trasformato la National Labour Relations Board11 in una succursale repubblicana filo-padronale per la prima volta dal 1935. L’agenzia ha perseguito diligentemente la lista di desideri aziendali pubblicata dalla Chambers of Commerce nel 2017, un elenco che ha compreso il ritardo delle elezioni sindacali come pure la limitazione della possibilità dei lavoratori di discutere dei problemi di lavoro fuori dall’orario di servizio. Inoltre, attraverso una serie di decisioni volte a modificare il National Labour Relations Act12, ha colpito la possibilità di formare sindacati e promuovere la contrattazione collettiva, apportando modifiche per dare ai padroni maggiore mano libera per cambiare unilateralmente i contratti, confezionando così un attacco diretto alle capacità organizzative e di mobilitazione della classe lavoratrice13.

Con la gestione del Covid19, l’attacco ai diritti dei lavoratori si è approfondito. La questione sanitaria ha investito, come in Italia, il problema della salute nei luoghi di lavoro. Questo settore specifico era già stato messo sotto attacco prima della pandemia quando Trump, per far risparmiare circa 11 milioni di dollari l’anno ai padroni, ha annullato l’obbligo di formazione per i lavoratori edili e dei cantieri navali sull’esposizione al berillio, un noto cancerogeno. Ha inoltre rimosso la regola che impone alle aziende di tenere un registro sugli infortuni di anno in anno.

Oltre al parziale smantellamento dell’Obamacare, ha reso maggiormente discrezionale la copertura dell’assicurazione sanitaria ai lavoratori dipendenti obbligatoria per i padroni. La situazione è peggiorata con il rifiuto di emettere delle misure standard di sicurezza obbligatorie per evitare il contagio da Covid19 nei posti di lavoro. Questo si somma a degli ordini esecutivi che intimavano i dipartimenti sanitari locali di non chiudere gli stabilimenti nei quali erano presenti focolai significativi, come nel caso degli stabilimenti di produzione delle carni. Il risultato è stato il contagio di decine di migliaia di operai del settore e centinaia di morti.

Le reazioni dei lavoratori statunitensi non si sono fatte attendere. In tutta la repubblica federale si sono registrati scioperi molto forti nel settore delle carni, ai quali Trump ha risposto con il Defense Production Act, costringendo i lavoratori a non abbandonare il lavoro, mentre i padroni hanno reagito con i licenziamenti politici. Anche in altri settori della classe operaia, tra cui il comparto pubblico, la vendita al dettaglio, la produzione, l’assistenza sanitaria, l’edilizia, il trasporto di massa, gli autotrasporti e l’istruzione si sono registrati scioperi: alcuni esempi sono il blocco in cinquanta sedi della Florida di McDonald’s e Starbucks e gli oltre 200 scioperi spontanei in tutto il paese tra marzo e maggio 2020.

I lavoratori statunitensi, nei quattro anni di amministrazione Trump, sono scesi in piazza diverse volte. Degno di nota è il più grande sciopero del decennio nel settore auto, iniziato nel settembre del 2019, con una mobilitazione che ha coinvolto quasi 50 mila operai della Gm per il rinnovo del contratto aziendale. Lo sciopero ad oltranza è durato un mese, fino a quando la direzione aziendale ha deciso di sedersi ad un tavolo per contrattare gli aumenti richiesti dai lavoratori.

Le specifiche condizioni della situazione negli Usa, caratterizzata da una forte frammentazione della classe lavoratrice sia geograficamente che sul piano salariale14, affiancata da un attacco di lunga durata alla possibilità di organizzazione dei lavoratori nelle aziende, rendono ogni piccola lotta, anche sul piano meramente legale, uno scontro titanico contro una borghesia imperialista compatta nel negare ogni possibilità di dialogo.

Per questo motivo la classe lavoratrice tende a legarsi e a trovare sponda nei movimenti che nascono fuori dai luoghi di lavoro come Black Lives Matter, sorti in risposta alle violenze delle forze dell’ordine. Questi movimenti sono dei centri di mobilitazione di massa che riescono a mobilitare i lavoratori a livello federale, organizzando scioperi con valenza generale (l’ultimo indetto dai sindacati risale al 1946) coinvolgendo ampi settori di classe lavoratrice, come quello del 20 luglio 2020, lo Strike for Black Lives, che si è tenuto in oltre 160 città. Questo sciopero ha coinvolto decine di migliaia di partecipanti di oltre 60 sindacati ed era animato dai lavoratori dei settori considerati “essenziali”: custodi, lavoratori di fast food, personale delle case di cura, ospedali e conducenti di Uber e Lyft.

Black Lives Matter è uno dei più grandi movimenti di protesta della storia degli Stati Uniti: il 6 giugno 2020 è riuscito a portare in piazza circa mezzo milione di persone in 550 località, all’interno di una mobilitazione permanente che ha attraversato tutte le principali città, ma anche le zone più periferiche, a dimostrazione della capillarità e dell’ampiezza assunta dal movimento. Inoltre, il livello di scontro raggiunto ha costretto la polizia in città come Minneapolis, dove è avvenuto l’omicidio di George Floyd, a ritirarsi e ad abbandonare il proprio distretto, poi incenerito dai manifestanti.

Per gli Usa questo è un fatto innovativo: le mobilitazioni spesso mitizzate del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta, hanno portato in piazza meno della metà delle persone attualmente coinvolte dalle proteste e lo scontro assunto all’epoca non aveva raggiunto mai un livello di conflittualità di massa come quello attuale. Negli ultimi anni il pacifismo e la non violenza avevano depotenziato l’apertura di spazi di ribellione e di riflesso lo sviluppo di un dibattito concretamente rivoluzionario all’interno dei movimenti politici. Il proletariato statunitense, gli abitanti dei ghetti, come quelli delle aree suburbane non hanno mai disdegnato la violenza, ma solo una presa di coscienza forte e un salto organizzativo hanno portato l’ultimo ciclo di mobilitazioni a superare questa discriminante ponendosi il problema di combattere le forze di polizia e reagire alle organizzazioni paramilitari dell’estrema destra. Nel concreto sono nati gruppi di autodifesa militante, che in diverse occasioni sono entrati in azione a tutela delle manifestazioni, come a Portland nel 2017, dove un neonazista è stato ucciso a colpi di arma da fuoco da un compagno del servizio d’ordine, o la nascita di vari gruppi antifascisti e anticapitalisti che fanno proprio il diritto al possesso di un’arma, organizzando momenti di addestramento all’uso e le esibiscono a vista nei cortei e nelle iniziative pubbliche.

Ovviamente all’interno di questo movimento convivono una destra, una sinistra ed un centro. La prima è sicuramente quella che ha cercato di capitalizzare il movimento a favore delle elezioni presidenziali, cercando di incanalare la lotta in funzione esclusivamente anti Trump. Il centro è rappresentato dai sostenitori dello slogan “defund the Police” che chiede il taglio delle spese della polizia statale, generalmente connotato dal riformismo o comunque dalla lotta per le riforme di tipo socialdemocratico e di depotenziamento degli assetti repressivi e autoritari del sistema Usa. Mentre la sinistra è rappresentata da coloro che indicano nella contraddizione razziale una questione strutturale del capitalismo a stelle e strisce; sono coloro che rispondono con la violenza popolare alla violenza reazionaria. Quindi non si tratta solo di una sinistra connotata ideologicamente dall’unità della lotta al razzismo e al capitalismo, ma anche da pratiche di avanguardia e di massa. Le manifestazioni di Portland, successivamente all’elezione di Biden, con lo slogan “il voto è finito. La lotta continua” hanno dimostrato la consapevolezza che la soluzione delle contraddizioni razziali negli Usa non sarà data da un cambio di colore nelle stanze del governo.

Il razzismo strutturale negli Usa

La questione razziale deriva dal carattere di colonialismo di insediamento che è alla base della nascita dello Stato, dove il suprematismo bianco ne rappresenta il fondamento ideologico. Il colonialismo di insediamento, come quello portato avanti dall’entità sionista in Palestina o quello britannico in Sud Africa o Australia, si differenzia da quello classico perché mentre in quest’ultimo la potenza coloniale trasferisce nella colonia solamente il personale amministrativo, militare e gli uomini d’affari nell’ottica di sfruttarne le risorse, la manodopera o i mercati, nell’altro caso la potenza coloniale conquista il territorio nell’ottica di trasferirvi coloni che si sostituiscano alla popolazione indigena. Se nel colonialismo classico la popolazione indigena va sottomessa e sfruttata, nel colonialismo d’insediamento essa è da ostacolo alla spartizione della terra da parte dei coloni e per questo deve sparire.

Il razzismo attuale, che permea la società Usa, deriva dalle guerre di rapina perpetrate dagli invasori britannici prima e dai coloni angloamericani poi, contro i nativi, e dalla deportazione e dallo sfruttamento degli schiavi che dovevano svolgere il ruolo di manodopera da sfruttare in sostituzione di quella indigena.

Gli Stati Uniti contemporanei si sono fondati con la lotta tra una classe di coloni industriali del Nord e una classe di grandi latifondisti del Sud, una guerra (quella di Secessione) tra due formazioni a diverso grado di sviluppo, una che godeva dei profitti del lavoro salariato e una di quello schiavistico. La guerra civile statunitense portò al potere la classe coloniale del Nord è abolì formalmente i rapporti di produzione schiavistici, ma ne mantenne la sostanza, dato che la proprietà dei mezzi di produzione (la terra) non venne intaccata, i vecchi schiavi divennero in gran parte i nuovi mezzadri costretti a pagare l’affitto della terra che prima lavoravano gratis.

Il razzismo è l’ideologia sulla quale si fonda e sviluppa il capitalismo yankee e rispecchia la storia dello sviluppo dei rapporti di produzione negli Usa. Inoltre il razzismo ha assunto, come in tutti i paesi capitalisti, una funzione di divisione interna della classe lavoratrice e di mobilitazione reazionaria che oppone masse contro masse. In quest’ottica il trumpismo ha sicuramente aggravato questa contraddizione, mobilitando gli strati più reazionari delle masse yankee, integrando e assimilando anche settori non marginali di alcune minoranze etniche, come i latinos. Ne sono esempio i voti raccolti da Trump tra le comunità messicane proprio negli Stati a ridosso del confine. Parallelamente ha spinto la componente più cosciente e determinata del movimento Black Lives Matter ad organizzarsi militarmente per autodifendersi dalle milizie suprematiste come dalle forze di polizia. Un salto di livello che in piazza ha visto compagni organizzati in armi pronti ad intervenire. Il razzismo per la sinistra del movimento non è visto quindi come un problema di diritti civili, ma di lotta contro un potere che non può essere riformato.

La situazione della minoranza nera è ben fotografata da alcuni dati che ne evidenziano la condizione nell’attuale fase di crisi e ne mostrando l’indissolubile legame con la questione di classe. Il reddito medio dei neri si aggira attorno ai 41 mila dollari annui contro i 70 mila dollari delle famiglie bianche; il 27% di loro vive sotto la soglia di povertà e la tendenza è quella che vede un gap sempre maggiore tra i redditi delle famiglie nere e quelle bianche, in un contesto dove la “mobilità” verso l’alto diminuisce. La disoccupazione tra la popolazione nera è il doppio rispetto al resto dei cittadini e ancora peggiori sono i dati della presenza nelle carceri. Secondo una stima effettuata da The Guardian, nelle prigioni statali, per ogni bianco ci sono 5,1 neri e in alcuni Stati il rapporto sale a 10; dati che vanno rapportati al fatto che la popolazione nera rappresenta solo il 13% della popolazione complessiva statunitense. Anche dal punto di vista dell’istruzione, la disparità è enorme, ad esempio nell’anno accademico 2014-15 (dati governativi) hanno ottenuto un Bachelor (laurea triennale) 1.210.523 studenti bianchi, 192.715 neri e 217.718 latini. Anche per quanto riguarda la diffusione della pandemia e l’assistenza sanitaria, le differenze sono evidenti. Il Covid 19 ha ucciso molte più persone tra la popolazione nera: nella sola Chicago dove i neri rappresentano il 30% degli abitanti, i morti per coronavirus afroamericani sono il 72%. Un effetto diretto della privatizzazione della sanità e di conseguenza della presenza di malattie pregresse non curate, ma anche dall’occupazione in lavori che li costringono all’utilizzo di mezzi pubblici affollati e ad entrare in contatto con più persone, quando invece i professionisti e i lavoratori bianchi sono spesso impiegati in lavori per i quali possono operare da remoto.

Guerra sul fronte esterno ed interno

I quattro anni di governo Trump hanno fatto sì che le politiche protezionistiche e isolazioniste dimostrassero il loro fallimento. La classe operaia della Rust Belt, che aveva sperato nel 2016 che le proprie zone industriali si ripopolassero di fabbriche portate a casa dal reshoring, sono rimaste deluse, facendo pendere l’ago della bilancia verso l’opzione democratica. È evidente che la classe operaia industriale degli Usa per quanto sempre più piccola, frammentata e disorganizzata, continui ad avere un peso politico forte, tale da far contare il proprio voto alle presidenziali.

Il fallimento della strategia economica, i danni provocati da queste politiche a quelle sezioni di borghesia imperialista proiettate nel mercato globalizzato come l’hi-tech (un quarto delle donazioni per Biden proveniva dalla California, sede di GoogleFacebookApple) e l’aver radicalizzato lo scontro interno esemplificato in ultimo dagli scontri di Capitol Hill, hanno portato la sezione dominante della borghesia imperialista e tutti i suoi addentellati nello “Stato profondo” a liberarsi di Donald Trump.

Compito di Biden sarà quello di riallontanare le masse statunitensi dal dibattito politico, costruire una pace sociale o quantomeno una sua distensione sui cocci rotti della crisi economica. La scelta di candidare e dare visibilità a candidati di “sinistra”, ha avuto l’esito di rastrellare maggiori consensi, approntando successivamente una squadra di governo figlia degli interessi dell’alta finanza e dell’establishment statunitense ai suoi più alti livelli. Mentre, ipocritamente, Biden fa opera di pinkblack e lgbt washing, inserendo a livello istituzionale figure che provengono dalle minoranze etniche, di genere femminile e di orientamento sessuale minoritario, in realtà la lista di nomi del governo democratico è parte di quella politica delle “porte girevoli” che vede schierati elementi dell’industria militare come l’ex generale Austin, elementi dell’alta finanza come Brian Deese, elementi di spicco della Cia e del Pentagono come Avril Haines. Biden è l’espressione della continuità e della difesa degli interessi della sezione dominante della borghesia imperialista Usa. Per quanto il suo gabinetto sia bilanciato per colore della pelle e genere rimane l’espressione delle oligarchie dominanti di Washington e dei paradisi fiscali del Delaware.

Biden deve affrontare la sfida principale sul fronte interno di riportare le contraddizioni di classe e razziali strutturali del capitalismo Usa ad una pacificazione, o quantomeno ad una loro relativa calma. Nel farlo dovrà muoversi nel contesto economico lasciato da Trump, dove le politiche di tagli fiscali stanno mettendo a dura prova i budget federali e statali: i primi continuano ad aumentare la propria esposizione debitoria mentre i secondi, prosciugati dai mancati gettiti fiscali, evidenziano tagli nelle amministrazioni pubbliche e privatizzazioni in settori fondamentali come gli uffici per l’impiego, al fine di evitare il default. I margini di manovra in tema di politica economica sono molto risicati e una possibile opzione per ricostruire un’egemonia interna è quella di scaricare la crisi fuori dai confini, tramite una ripresa dell’impegno sul fronte esterno.

Su questo fronte Biden cercherà di ridare fiato alle pretese egemoniche statunitensi confrontandosi, oltre che con le conseguenze della linea isolazionista di Trump, anche con il dato generale che vede gli Stati Uniti all’angolo, sotto la pressione della resistenza dei popoli alle loro invasioni da un lato e della crescita della Cina dall’altro. Né in Iraq e né in Afghanistan gli Usa sono riusciti a imporre il proprio definitivo controllo. In Afghanistan, Trump ha ammesso la sconfitta statunitense, aprendo la trattativa con i Talebani e auspicando un ritiro delle truppe, fatto questo che si pone in contraddizione con le strategie statunitensi di utilizzare il paese asiatico per incunearsi in un’area prossima sia alla Russia che alla Cina.

Inoltre, nello scontro tra grandi potenze, gli Stati Uniti devono confrontarsi con il gigante cinese come nemico strategico, il quale anche nella tempesta della pandemia è riuscito a macinare profitti, e con le altre potenze emergenti che cercano di ritagliarsi i propri spazi. A differenza di Trump, come già annunciato, Biden punterà sul multilateralismo per costruire un fronte globale anti-cinese, cercando di ricostruire un assetto di alleanze strategiche con la Germania e il Giappone. I tradizionali alleati con cui le politiche di Trump erano entrate in contrapposizione.

Che a capo della Casa Bianca ci sia Biden o Trump, il dato principale è la tendenza alla guerra come risposta alla crisi del capitalismo. Una tendenza che sul fronte esterno spinge allo scontro inter-imperialista e alla lotta per la spartizione del mondo e che, sul fronte interno, si riflette sotto forma di guerra civile strisciante.

L’aggravamento della crisi nella fase attuale porta la borghesia imperialista a lottare per la propria sopravvivenza, con l’obiettivo di scaricare i costi della crisi nelle altre formazioni statuali, cercando di aprire nuovi mercati, rapinare materie prime, etc; allo stesso modo questa stessa crisi spinge le masse popolari impoverite a lottare contro i propri sfruttatori. Il fallimento della strategia esterna toglie spazi per calmierare il fronte interno e quest’ultimo, teso all’ebollizione politico-sociale, diventa un freno per rilanci di aggressione imperialista sul fronte esterno.

La crisi del capitalismo e le contraddizioni che la proiezione imperialista degli Usa a livello globale sta attraversando, specie sul piano della guerra, determinano condizioni oggettive e soggettive sul fronte interno di polarizzazione dello scontro. In particolare questo accade tra la tendenza alla mobilitazione delle masse in chiave di ribellione alla miseria e all’oppressione, anche con elementi di scontro rivoluzionario, e la contrapposta tendenza alla mobilitazione reazionaria, che Trump ha incarnato in maniera attiva come non mai fece nessun altro presidente. Si conferma così l’insegnamento del movimento comunista per cui la guerra imperialista, di cui gli Usa sono i massimi fautori a livello internazionale, tende a tramutarsi in guerra civile e, in ultima analisi, in guerra rivoluzionaria.


1 Vedi Glossario p. 74

2 Il Post, Detroit è fallita, ilpost.it, 19 luglio 2013

3 Per approfondire: Amy Goldstein, Janesville, Una storia americana, LUISS University Press, Roma 2019

4 The Economist, Chancing places, Economist.com, 10/10/2020

5 R. Scott, We can reshore manufacturing jobs, but Trump hasn’t done it, epi.org, 10 agosto 2020

6 Ibidem

7 A. Flaaen – J. Pierce, Disentangling the Effects of the 2018-2019 Tariffs on a Globally Connected U.S. Manufacturing Sector, federalreserve.gov, 2019

8 Introdotta dal governo Obama successivamente alla grande recessione, la Dodd Frank regolava l’esposizione bancaria soprattutto degli istituti di piccoli e medie dimensioni e dava potere al governo di vigilare e intervenire in caso di irregolarità

9 La U.S. Chamber of Commerce è l’associazione privata che raccoglie le principali aziende statunitensi: dalla General Motors a Facebook, dalla Coca Cola alla ExxonMobil

10 U.S. Chamber, Statement on Immigration Executive Order, uschamber.com , 2/2/2021

11 La National Labour Relations Board è l’agenzia federale che si occupa delle relazioni sindacali, è lo strumento legale al quale i lavoratori si rivolgono per la risoluzione delle controversie sul posto di lavoro

12 ll National Labour Relations Act è l’insieme di norme federali che regolano le relazioni sindacali e i diritti dei lavoratori

13 C. McNicholas, M. Poydock, L. Rhinehart, Unprecedented, epi.org, 16/10/2019

14 Va tenuto conto che le legislazioni sul lavoro, sui salari, etc variano da Stato a Stato e talvolta da contea a contea. Infatti dagli anni Ottanta si è assistito a fenomeni di offshoring interno, ad esempio dal Midwest agli Stati del Sud meno sindacalizzati e con differenze sui salariali minimi notevoli. Si va dai 4 dollari l’ora del Montana (per le aziende che fatturano meno di 110 mila dollari l’anno) ai 12,50 dollari del Distretto di Colombia. La cifra varia anche da città a città come nel caso di San Francisco e Seattle dove il salario minimo è pari a 15 dollari


Sviluppi del complesso militar-industriale italiano

La cricca del governo Conte bis ha portato avanti progetti stratosferici per il rinnovo del complesso bellico italiano, ponendosi anche all’avanguardia nella creazione di nuovi ritrovati del militarismo imperialista. È il caso dell’adesione alla realizzazione del Tempest, ovvero il nuovo tipo di caccia promosso dall’industria degli armamenti del Regno Unito, in collaborazione con le italiane Leonardo, Avio Areo e Mbda Italia, ma anche con le svedesi Saab e Gkn Aerospace Sweden. Anche nel caso dei Tempest, come fu prima con gli Eurofighter e con gli F35, ai profitti per i monopoli capitalistici di Stato del settore militare, deve essere aggiunta le finalità strategiche politico-militari della partecipazione a questo progetto. A tutto ciò, si unisce l’applicazione sul campo, che nel caso dell’Italia ha significato ad esempio schierare gli F35 nei cieli di Islanda per tutelare lo spazio aereo della Nato dalla “minaccia russa”. E infine le questioni della “diplomazia delle armi”. Se gli Eurofighter sono stati un progetto nell’ambito della costruzione dell’autonomia militare della Ue, se gli F35 legavano l’industria bellica italiana agli Usa, i Tempest rappresentano una sorta di progetto alternativo ai Futur Combat Air System, ovvero ai nuovi modelli di caccia che le industrie belliche di Francia, Germania e Spagna stanno preparando sempre al fine di armare l’Unione Europea.
In un gioco delle parti alla ricerca del primato economico-politico-militare, il governo Conte bis aveva scelto di puntare sull’indipendenza dall’asse franco-tedesco, consolidando il rapporto con quella Gran Bretagna, alla quale la diplomazia italiana, dopo la brexit, punta a sostituirsi come interlocutore privilegiato degli Usa all’interno dell’Ue. È probabile che questa linea proseguirà con il governo Draghi, vista la permanenza al ministero della difesa di Lorenzo Guerini e le continue dichiarazioni di fedeltà atlantista da parte dell’attuale primo ministro. D’altra parte sono evidenti le difficoltà di integrazione sul piano industriale tra Italia e Francia, come dimostra la contraddizione interimperialista che ha fermato la vendita dei cantieri navali francesi Chantiers de l’Atlantique all’italiana Fincantieri.
Oltre al progetto Tempest, il precedente governo intendeva investire su nuovi modelli di elicotteri militari, aerei spia, droni, unità navali, tecnologie sottomarine e per il pilotaggio remoto. A tal fine, voleva avvalersi non solo delle risorse del recovery fund, ma anche dei 35 miliardi già stanziati per il periodo 2017-2034 dal ministero dello sviluppo economico, nonché dei 26 annuali prestabiliti dal ministero della difesa e dai capitali già messi a disposizione dall’Ue con l’european defence fund e altri strumenti finanziari. Si raggiunge così l’impressionante cifra di 70 milioni di euro al giorno, che peraltro l’Italia si è impegnata ad aumentare a 100 su richiesta della Nato. Non a caso si è consolidato ulteriormente anche il rapporto con il regime israeliano, con il quale il governo Conte bis ha firmato due nuovi accordi di collaborazione, uno in campo militare a settembre e uno in campo scientifico a ottobre, con tanto di visita del ministro degli esteri Di Maio a Tel Aviv.
Anche per quanto riguarda il settore della ricerca, anch’esso beneficiario del recovery fund, l’ambito militare è centrale. Guerini, ai tempi del governo Conte bis, ha infatti affermato candidamente che “Spesso il mondo della Difesa anticipa sulla ricerca ciò che poi transita nel mondo civile” (S. Pioppi, La Difesa nel Recovery Fund. Il punto di Guerini per la svolta digitale, 9/10/2020, formiche.net), confermando come oggi più che mai, vista anche la crescita di settori come il digitale, la cibernetica, la robotica, l’intelligenza artificiale e tutte le applicazioni dual use, le necessità del complesso militar-industriale vengano poste al centro della ricerca scientifica e tecnologica.

A Sigonella il cancro cresce!

La capacità della base militare Usa di Sigonella, nei pressi di Catania, di portare morte e distruzione in tutti i paesi del mondo viene ulteriormente potenziata, stando alle recenti dichiarazioni dei vertici militari delle forze armate statunitensi.
Due sono le novità sostanziali:
1) nella primavera 2024 entrerà in funzione, all’interno della grande base aeronavale siciliana, una nuova stazione di telecomunicazioni satellitari. Questa sarà in grado, come affermano i responsabili, di rendere più sicure e affidabili le comunicazioni alle unità militari di tutti i tipi, dalle aeree alle sottomarine, impegnate nei teatri di guerra. Il sistema di telecomunicazioni affiancherà il tristemente noto Muos (Mobile User Objective System) e il sistema Nrtf (Naval Radio Transmitter Facility), entrambi allocati all’interno della base della marina Usa a Niscemi. In questo modo la Sicilia diventerà, a detta dei vertici della marina Usa, “un centro superiore di guida e controllo in una regione mondiale vitale” acquisendo la capacità di supporto alle comunicazioni delle forze armate Usa e alleate che operano sotto le direzioni di Africom (il Comando Africa del Pentagono degli Stati Uniti), Centcom (Comando centrale) ed Eucom (Comando europeo, responsabile degli scenari di guerra nel Mediterraneo e Medio Oriente). Inoltre il nuovo sistema fornirà un vantaggio alle truppe Usa nel campo elettromagnetico e nel cyberspazio.
2) Sigonella è stata scelta anche per ospitare i nuovi droni Nato, i Phoenix, velivoli senza pilota in grado di essere comandati a lunga distanza, in modo da coprire traiettorie dal Mar Baltico al Sud Africa, dall’Oceano Atlantico al Medio Oriente. I nuovi droni sono il fiore all’occhiello del nuovo sistema di sorveglianza terrestre Ags (Alliance Ground Surveillance) descritto, come si legge nel sito di Leonardo-Finmeccanica, come quello “in grado di garantire la protezione delle truppe di terra […] il controllo delle frontiere, la gestione della crisi e degli aiuti umanitari”. Traducendo le parole di un partner fondamentale per l’esercito Usa, si può dire che il sistema coprirà le incursioni degli squadroni della morte yankee, darà una mano a blindare la fortezza europea dagli arrivi di milioni di uomini e donne spinti a emigrare per la fame e per le guerre imperialiste e a controllare il territorio, affinché le multinazionali possano agire indisturbate nelle loro opere di depredazione di risorse e sfruttamento.

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