Antitesi n.10Ideologia borghese e teoria del proletariato

Autorganizzazione o Organizzazione?

Non è una questione di lana caprina…

Ideologia borghese e teoria del proletariato da Antitesi n.10 – pag.63


Colmare il ritardo

In questi tempi di aggravamento della crisi generale del capitalismo, c’è un dato che salta agli occhi di qualsiasi osservatore minimamente interessato ad una analisi di classe delle formazioni imperialiste: quello dell’assoluta mancanza, o della grave inadeguatezza, di rappresentanze organizzate della nostra classe. Questo dato diventa sempre più negativamente rilevante nel contesto dell’inasprimento della crisi del capitalismo nella fase imperialista e della conseguente acutizzazione delle principali contraddizioni che caratterizzano la nostra epoca: da quelle tra le classi, a quelle tra imperialismo e popoli oppressi, a quelle interimperialiste.

La classe operaia-proletariato si trova in una condizione di disarmo ideologico, politico e organizzativo, a cui l’hanno costretta la deriva revisionista dei vecchi partiti comunisti (che si è consumata nel trentennio di espansione economica che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale) e gli errori che hanno portato alla sconfitta dei diversi tentativi rivoluzionari, verificatisi nella prima fase della lunga crisi, ancora in corso, iniziata nella prima metà degli anni ‘70.

Questa debolezza si registra proprio in una fase in cui la crisi generale di sovraccumulazione si travasa in crisi dell’egemonia della borghesia imperialista principalmente nelle formazioni avanzate, con le relative complicanze che vanno dalle perturbazioni che destabilizzano la globalizzazione (guerre commerciali-valutarie, sanzioni, blocchi, rottura delle catene del valore) fino alle crisi politico-istituzionali che interessano diverse formazioni imperialiste e in particolare la nostra.

A questa crisi di egemonia la borghesia imperialista cerca di rispondere rafforzando il quadro della ‘democrazia governante’1 puntellando i suoi apparati egemonici e potenziando quelli di dominio nel solco dell’autoritarismo imperialista, come mostrano anche i reiterati tentativi di controriforma istituzionale.

In questo processo si colloca anche la pandemia e la sua gestione. Se da una parte la pandemia costituisce un potente fattore di aggravamento della crisi e rende fosco l’orizzonte delle possibilità di uscirne, dall’altra offre l’occasione, presa al balzo dalla borghesia imperialista, per rilanciare piani di disciplinarizzazione di massa e di contenimento forzoso del conflitto sociale2. Corollario essenziale di tutto ciò è il ridimensionamento continuo e progressivo del rapporto di forza della classe, l’azzeramento del suo peso sociale e la negazione di una sua reale rappresentanza politica.

Una conseguenza fondamentale di questo sviluppo sovrastrutturale, che si determina in dialettica con la crisi che interessa la struttura, è la conferma del fatto che il regime di sfruttamento capitalistico non crolla da solo, cioè non crolla in conseguenza immediata della crisi economica. “Si può escludere che, di per sé stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali, solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale”3. Questo per mettere una pietra sopra a tutte le interpretazioni di tipo crollista del marxismo e sgomberare il campo dall’attesismo che è il loro riflesso opportunista in campo politico-organizzativo (esempi tipici sono Lotta Comunista e le diverse posizioni di tipo bordighista).

Tuttavia un portato delle crisi è la crescita della spinta spontanea che stimola la classe operaia e le masse popolari a cercare una soluzione all’aggravarsi della propria condizione e quindi a cercare una chiave ideologica utile a comprendere la situazione per farvi fronte a partire dei propri interessi. Tanto più grave diventa la situazione tanto più aumenta l’intensità di questa spinta, cioé cresce il “bisogno” di coscienza politica e la ricettività in proposito. E questo può favorire il lavoro dei rivoluzionari.

Però il passaggio effettivo della presa di coscienza dei propri compiti rivoluzionari da parte dei comunisti, in quanto reparto avanzato della classe, può determinarsi solo a partire dallo sviluppo di un’attività ideologico-politico-organizzativa coerente con l’obiettivo rivoluzionario. Uno sviluppo che faccia tesoro degli avanzamenti teorici e pratici realizzati dal movimento comunista internazionale nella sua storia per renderli concreti nell’attualità.

È proprio a questo scopo che diventa sempre più necessario e impellente colmare il ritardo della soggettività comunista, affrontando il piano della lotta ideologica, in particolare per quanto riguarda la questione dell’organizzazione.

Classe in sé e classe per sé

Partiamo da Marx: “Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta (…) questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica4.

Marx considera la classe in queste due accezioni di “classe in sé” e di “classe per sé”. La prima indica l’insieme delle persone che si trovano nella stessa collocazione rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione. Nel caso del capitalismo i capitalisti ne sono proprietari (come classe hanno il monopolio dei mezzi di produzione), mentre i proletari ne sono espropriati e i rapporti di produzione assumono la forma del lavoro salariato, il cui sfruttamento è finalizzato alla produzione di plusvalore. Quindi la “classe in sé” è la classe per come risulta dalle relazioni essenziali che si danno nel campo della struttura produttiva.

La “classe per sé” si determina quando le persone, che si trovano nella stessa posizione rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione, prendono coscienza di avere interessi comuni e su questa base realizzano di appartenere alla stessa classe.

La “classe in sé” risulta materialmente dal rapporto di sfruttamento capitalistico, mentre la “classe per sé” risulta dalla coscienza di essere classe in una società divisa in classi con interessi diversi e anche contrapposti. La prima accezione rimanda alla lotta economica per cercare di migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita, mentre la seconda rimanda alla lotta politica tra le classi per cercare di imporre i propri interessi generali fino a renderli dominanti nell’ambito della società divisa in classi. La lotta economica ha chiaramente la sua radice nelle contraddizioni che interessano la struttura economica, le condizioni della produzione e della distribuzione della ricchezza del modo capitalistico di produrre, mentre quella politica si sviluppa essenzialmente nell’ambito della sovrastruttura ideologica, politica e istituzionale che sta sopra la struttura nella società divisa in classi.

Ancora da Marx: “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale”5. Ne deriva che, mentre la vita degli uomini è determinata dai rapporti di produzione che si instaurano nell’ambito della struttura economica, essi definiscono la coscienza dei loro compiti nell’ambito delle ideologie, che si concretizzano storicamente in determinate sovrastrutture politiche, culturali, giuridiche, istituzionali che si danno sopra la struttura e da essa derivano. Ed “è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo6.

Il rapporto tra struttura e sovrastruttura è un rapporto dialettico. Il fattore determinante nel corso del processo di sviluppo storico è la lotta per la produzione e riproduzione della vita reale, ma questo non vuol dire che l’aspetto economico sia l’unico caratterizzante. Anche se la situazione economica (modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione) è quella che sta alla base del processo storico, i diversi movimenti e contrasti che interessano la sovrastruttura, le concezioni ideologiche (anche religiose), le forme politiche (partiti) e quelle giuridiche, gli assetti istituzionali (Stato) influiscono sul processo storico fino a poterne condizionare il corso e la forma (vedi i casi della riforma protestante, della rivoluzione francese e della rivoluzione sovietica). Questo oggi in particolare vale per la rivoluzione proletaria: il proletariato, per cambiare la struttura, deve ergersi nell’ambito della sovrastruttura, deve costruire la sua sovrastruttura ideologico-politico-organizzativa per sviluppare la sua egemonia e conquistare il potere.

La lotta che caratterizza la sovrastruttura è essenzialmente lotta politica, che ha come posta il potere nella società divisa in classi, la conservazione o la conquista del potere da parte delle classi antagoniste, che se lo contendono per rimanere o diventare classi dominanti. È una lotta in cui si definisce il campo delle forze della conservazione e il campo di quelle della trasformazione dell’assetto di potere e sociale.

La classe dominante, che conduce la lotta per conservare il potere, lo fa tramite lo Stato, sia esercitando la funzione dominante repressiva verso la classe antagonista, sia esercitando la funzione dirigente verso le classi intermedie. La classe antagonista, che sviluppa la lotta politica per diventare classe dominante, deve perseguire il suo obiettivo tramite la conquista dell’autonomia politica e a partire da essa promuovere un suo campo di alleanze. Questo passaggio può avvenire solo se si determina un’avanguardia organizzata, una forma partito capace di interpretarne gli interessi generali, condurre la lotta politico-ideologica e definire una strategia per la conquista del potere.

Lotta economica, lotta politica e lotta ideologica

Nella prospettiva rivoluzionaria, quindi, la questione della coscienza e dell’organizzazione della classe è un dato fondamentale. Come è fondamentale cogliere la distinzione tra lotta economica e lotta politica e il loro rimandare a forme distinte di organizzazione, a forme sindacali e a forme politiche.

Per lotta economica è da intendersi quella che Engels ha definito “resistenza ai capitalisti7 e che in genere è conosciuta come lotta sindacale. I comunisti devono promuovere, organizzare o comunque contribuire alle lotte economiche non solo per ottenere migliori condizioni di vendita della forza lavoro, ma anche per abbattere il regime sociale che costringe i proletari a vendersi ai capitalisti.

Passando a Lenin: la tesi fondamentale del “Che fare?” è che l’elemento spontaneo della lotta, che trova espressione negli scioperi operai, è solo la forma embrionale della coscienza e preso in sé questo elemento spontaneo può condurre solo ad una lotta “tradunionista”, cioè sindacale. La veridicità di questa fondamentale acquisizione teorica la troviamo empiricamente confermata in particolare anche nella storia del secondo dopoguerra, quando il grande sviluppo delle lotte economiche si convertì in rafforzamento della deviazione revisionista in campo comunista e fu utilizzato dal riformismo del capitale per ingabbiare la classe operaia nel modello di accumulazione keynesiano (welfare, produzione su grande scala di beni di consumo, massa salariale come volano del ciclo economico, consumismo) con il supplemento dell’idea marcusiana, e della scuola di Francoforte, dell’integrazione definitiva della classe operaia. L’incontro tra il riformismo del capitale e quello della classe, fu certificato dalla cooptazione-corporativizzazione dei sindacati che, da forme di organizzazione della classe contro i padroni, si convertirono in veicolo della trasmissione degli interessi della borghesia e del suo Stato dentro la classe, in sindacati di Stato.

Al livello della aggregazione spontanea “gli operai non potevano ancora possedere una coscienza socialdemocratica (leggi comunista, ndr). Essa poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno. La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia con le sue forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc. La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali. Per la lo loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels erano degli intellettuali borghesi8.

È una tesi forte che apre la riflessione sull’economicismo come tendenza che assolutizza la lotta economica per “giustificare teoricamente la propria sottomissione servile alla spontaneità9, una tendenza storicamente presente nel movimento operaio e che esercita ancora la sua influenza negativa tra i compagni. Una buona sintesi di questa concezione sbagliata è l’affermazione che “la politica segue sempre docilmente l’economia”. In questa concezione non dialettica la coscienza viene soffocata dalla spontaneità, lo sviluppo della lotta politica per il socialismo viene sottomesso allo sviluppo della lotta economica. Ma “ogni sottomissione del movimento operaio alla spontaneità, ogni menomazione della funzione ‘dell’elemento cosciente’, della funzione della socialdemocrazia (leggi dei comunisti, ndr) significa di per sé – non importa lo si voglia o no – un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai10.

La spontaneità della classe rimane sotto l’ala dell’influenza dell’ideologia borghese perché “per le sue origini, l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione11.

Nella nostra società divisa in classi è presente o l’ideologia borghese o, in contrapposizione ad essa, l’ideologia proletaria. “Perciò il nostro compito, il compito della socialdemocrazia, consiste nel combattere la spontaneità, nell’allontanare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradunionismo a rifugiarsi sotto l’ala della borghesia; il nostro compito consiste nell’attirare il movimento operaio sotto l’ala della socialdemocrazia rivoluzionaria12.

La relazione positiva, dal punto di vista rivoluzionario, tra la classe operaia e la teoria socialista ha il suo fondamento non nello sviluppo spontaneo del movimento operaio, ma nel fatto “che più profondamente e più esattamente di tutte le altre la teoria socialista determina le cause dei mali della classe operaia. Perciò gli operai la assimilano così facilmente, purché questa dottrina non ceda davanti alla spontaneità, purché essa sottoponga quest’ultima a se stessa13.

Chi, pur considerandosi comunista, si sottomette alla spontaneità delle lotte economiche non comprende che più si sviluppa questa spontaneità più si rende impellente il bisogno di attività teorica, politica e organizzativa dei comunisti. L’aspetto decisivo è che questa attività deve essere all’altezza dei compiti che lo sviluppo della spontaneità esige dai comunisti. Essi devono organizzarsi per rappresentare la classe non nei suoi rapporti con i singoli padroni, ma in quelli con tutte le classi in cui è divisa la società e con lo Stato che assicura il dominio della borghesia.

Nell’alveolo dell’economicismo si colloca anche l’idea di dare alla lotta economica un carattere politico, stendendo programmi generali, liste lunghe quanto inconcludenti di obiettivi economici e normativi “giusti”. Ne sono chiara testimonianza, anche nell’attualità, tutti i patetici tentativi di stesura di ‘liste della spesa’, sterili sommatorie di obiettivi economici specifici, che mostrano ogni volta tutta la sterilità e l’utopia del cercare di unire su un piano generale la ‘classe in sé’ che caratterizza la deriva delle proposizioni economiciste.

Questa idea può avere come unico sviluppo quello di cercare di soddisfare le rivendicazioni economiche della classe tramite misure legislative o amministrative che devono essere adottate dalla Stato: “Dare alla stessa lotta economica un carattere politico non contiene null’altro che la lotta per le riforme economiche14. Dietro a questa idea quindi si nasconde da sempre, anche nella nostra attualità, la tendenza ad abbassare la politica rivoluzionaria a livello di politica riformista. Per Lenin naturalmente non si tratta di essere contro la lotta per le riforme (libertà di sciopero, di organizzazione sindacale, diritto alla casa, all’istruzione, alla salute, ecc.), ma di “subordinare la lotta per le riforme alla lotta rivoluzionaria per la libertà e il socialismo, come una parte è subordinata al tutto15. Il problema non è la lotta per le riforme in sé, ma il riformismo come concezione che si fa forte dell’idea di politicizzare le lotte economiche: “La lotta economica contro il governo è precisamente la politica tradunionista, la quale è ancora molto, ma molto lontana dalla politica socialdemocratica (leggi comunista ndr)”16.

L’obiettivo dello sviluppo della coscienza politica della classe operaia, la “classe per sé”, non può infatti essere perseguito “se gli operai non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dell’arbitrio e dell’oppressione, della violenza e della sopraffazione, qualunque sia la classe che ne è colpita17. La lotta politica da sviluppare si basa sulla comprensione dell’insieme dei rapporti che intercorrono tra tutte le classi della società imperialista, del ruolo dello Stato, e del sistema istituzionale della democrazia borghese, nella tutela degli interessi del capitale, in particolare della sezione dominante del capitale finanziario e della grande borghesia che lo detiene, del suo sistema egemonico e di dominio, sia sul fronte interno che nella sua proiezione imperialista a danno dei popoli oppressi: “Le denunce (leggi azioni, ndr) politiche relative a tutte le questioni della vita sociale sono la condizione necessaria e fondamentale per educare le masse all’attività rivoluzionaria18.

Organizzazione dei proletari e organizzazione dei comunisti

Come consideravamo sopra, i due tipi di lotta rimandano a due tipi di organizzazione. All’inizio di un processo le due forme sono unite. Lenin in proposito parla di primitivismo organizzativo, noi oggi possiamo utilizzare la categoria più “moderna” di autorganizzazione (vedi manchette a pag. 67) come prima forma di organizzazione della spontaneità. Ci si organizza e si va allo scontro senza un legame organico con le esperienze passate, con percorsi di lotta analoghi in altre situazioni, quartieri, settori, città, senza sviluppo e coordinamento delle varie parti che compongono il lavoro rivoluzionario, senza pianificazione. Questo sta nella natura delle cose. Il carattere primitivo dell’organizzazione non è solo inevitabile all’inizio di un processo organizzativo, ma anche necessario per la raccolta del maggior numero di compagni disponibili all’azione di lotta. Ma nel lavoro dei comunisti la forma primitiva deve al più presto essere superata. Per procedere nel lavoro rivoluzionario ed essere adeguati ai compiti che esso comporta. L’uno deve dividersi in due: dalla forma primitiva deve svilupparsi la dialettica tra l’organizzazione complessiva dei comunisti e gli organismi specifici dei proletari. Aspetto non secondario è che solo così ci si può rendere credibili nei confronti della classe, superarne le diffidenze, influenzare e attrarre un numero maggiore di operai nel sostenere il piano di lavoro dei comunisti.

Un problema sorge quando questo primitivismo organizzativo viene ideologizzato, quando viene giustificato e fatto teoria, quando ci si sottomette alla spontaneità anche in campo organizzativo. Ed è proprio quello che normalmente fanno le tendenze economiciste. “Se per un socialdemocratico il concetto di ‘lotta politica’ coincide con quello di ‘lotta economica contro i padroni e il governo’, è naturale che per lui l’’organizzazione dei rivoluzionari’ coincida più o meno con l’’organizzazione degli operai19.

Il problema è che la lotta politica dei comunisti è molto più vasta e complessa della lotta economica degli operai contro i padroni e contro il governo. E per questo l’organizzazione dei comunisti deve necessariamente essere distinta da quella degli operai dei proletari per la lotta economica. La prima comprende militanti la cui professione è l’azione rivoluzionaria che si uniscono, senza nessuna distinzione tra operai, intellettuali o appartenenti ad altre classi, sulla base del progetto rivoluzionario della presa del potere da parte della classe operaia e della strategia necessaria per metterlo all’opera. Essa necessariamente rimanda alla complessità del processo rivoluzionario e deve assumere un orizzonte quantomeno nazionale e centralizzato. Mentre le organizzazioni operaie e proletarie per la lotta economica sono e devono essere organizzazioni di tipo sindacale. Non devono comprendere solo i compagni, ma qualunque operaio o proletario che è disponibile a unirsi per lottare contro i padroni e il governo per perseguire specifici obiettivi economici e sono necessariamente legate a questa specificità. Questa distinzione sta nelle cose, “la struttura di ogni organismo è necessariamente e inevitabilmente determinata dal contenuto della sua attività20.

A fronte di questa distinzione il problema dell’unità della classe si pone in termini dialettici: “prima di unirsi, e per unirsi, è necessario innanzitutto definirsi risolutamente e nettamente21.

Chi si pone l’obiettivo di unire le lotte economiche sulla loro base senza operare questa distinzione, come fanno tutti quelli che perseguono l’unità politica come risultato dell’unità-sommatoria di tutte le lotte economiche, azzera di fatto la dialettica, scivola nella deriva riformista, sottomette il progetto rivoluzionario alla spontaneità, e finisce col rendere impossibile la stessa unità della classe che può darsi effettivamente solo nella prospettiva rivoluzionaria della “classe per sé”.

In definitiva questo primitivismo ed economicismo, che oggi si esprime nella ideologizzazione dell’autorganizzazione, riflette la visione di un agire rivoluzionario confinato nell’azione di incentivazione della lotta economica, magari con l’idea di politicizzarla con lo sviluppo “dal basso” di una ‘tattica-processo’ in assenza di strategia. Un’azione che è caratterizzata dalla logica del “movimento per il movimento”. Qui il movimento è tutto, ma come insegna Lenin “non c’è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria”, e senza di essa il movimento non può fare un reale salto qualitativo.

La deviazione della politicizzazione delle lotte economiche porta poi in campo organizzativo solo al loro e al nostro indebolimento. “Non è nel nostro interesse esigere che solo i socialdemocratici possano appartenere alle associazioni ‘corporative’ (leggi sindacali, ndr) perché ciò restringerebbe la nostra influenza sulla massa. Lasciamo partecipare all’associazione corporativa qualunque operaio il quale comprenda la necessità di unirsi per lottare contro i padroni e il governo! Le associazioni corporative non raggiungerebbero il loro scopo se non raggruppassero tutti coloro che comprendono almeno tale necessità elementare, se non fossero molto larghe. E quanto più saranno larghe, tanto più la nostra influenza su di esse si estenderà non solo grazie allo sviluppo ‘spontaneo’ della lotta economica, ma anche grazie all’azione cosciente e diretta degli aderenti socialisti sui loro compagni22. In definitiva la deviazione della politicizzazione delle lotte economiche limita la partecipazione stessa all’organizzazione di massa per la lotta economica, all’aggregazione della “classe in sé” sugli obiettivi specifici della sua “resistenza ai padroni”, e con ciò anche la possibilità di sviluppare il nostro lavoro politico tre le masse.

In conclusione la mancata distinzione tra l’organizzazione complessiva dei comunisti e le organizzazioni specifiche dei proletari contraddice lo sviluppo positivo del rapporto dialettico tra “classe per sé” e “classe in sé”. Inoltre, sottomettendo l’agire dei comunisti alla spontaneità, la mancata distinzione mina l’unità della classe sull’unico piano possibile che è quello della lotta rivoluzionaria per il potere. Bisogna agire la distinzione per poter realizzare l’unità attorno all’aspetto principale.

Ideologizzando invece l’organizzazione di base nella concezione “dell’autorganizzazione” si contraddice lo sviluppo di un suo rapporto dialettico con l’organizzazione per la lotta rivoluzionaria che è il necessario elemento politico-strategico che dovrà divenire principale nella prospettiva della rottura rivoluzionaria. In definitiva, negando il rapporto dialettico di avanguardia politica tra soggettività comunista e classe, da un lato non si consente ai comunisti di svolgere il loro ruolo rivoluzionario, dall’altro non si consente ai proletari nelle loro componenti più coscienti di avanzare politicamente e di unirsi a progetto rivoluzionario.

Ripartire dalla situazione rivoluzionaria

Tutto ciò assume una rilevanza sempre più stringente nella situazione attuale di avvitamento della crisi di sovraccumulazione che caratterizza le formazioni imperialiste avanzate con la relativa acutizzazione delle contraddizioni principali. Le crisi generali del capitalismo non hanno come sbocco necessario e automatico la rivoluzione proletaria, ma in esse possono maturare le condizioni di una “situazione rivoluzionaria” per cui, come l’ha dettagliata Lenin, “gli strati inferiori non vogliano più continuare a vivere come prima e gli strati superiori non possano più vivere come per il passato23. Una situazione in cui si rende concreto lo scontro e l’alternativa tra la mobilitazione rivoluzionaria e la mobilitazione reazionaria.

È proprio nell’ottica della promozione della mobilitazione rivoluzionaria che oggi diventa in un certo qual modo impellente promuovere la raccolta, l’organizzazione e la formazione dei comunisti, contestualmente allo sviluppo del loro radicamento tra le masse. Diventa fondamentale applicare la direttiva di “agire da partito per costruire il partito”, impostando correttamente il rapporto dialettico tra aspetto oggettivo della lotta di classe e aspetto soggettivo della lotta rivoluzionaria e a questo scopo lavorando in particolare alla costruzione di esempi concreti. I fatti concreti spiegano la realtà di questa dialettica molto meglio delle parole. A questo fine nel lavoro di radicamento si tratta di imparare ad utilizzare il metodo dell’inchiesta e della linea di massa, assumendo e attualizzando gli insegnamenti di Mao Tse Tung e del Partito Comunista Cinese: “In tutto il lavoro pratico del nostro partito, una direzione giusta deve fondarsi sul seguente principio: dalle masse alle masse. Questo significa che bisogna raccogliere le idee delle masse (frammentarie, non sistematiche), sintetizzarle (attraverso lo studio trasformarle in idee generalizzate e sistematiche), quindi portarle di nuovo alle masse, diffondere e spiegare questi idee finché le masse non le assimilano, vi aderiscono fermamente e le traducono in azione e verificare in tale azione la giustezza di queste idee24.

Nel campo della concezione dell’organizzazione si tratta in particolare di sconfiggere l’idea sbagliata, che coltivano movimentisti e spontaneisti, che l’organizzazione di base sia contrapposta in essenza a quella di avanguardia politica rivoluzionaria. Questa considerazione concettualmente è figlia della logica formale e dell’incomprensione della logica dialettica. E non si tratta quindi di politicizzare le lotte economiche, ma sviluppare la lotta ideologica e la lotta politica utilizzando anche le lotte economiche per formare compagni capaci di dirigere le masse e raccogliere nuove risorse per il progetto rivoluzionario, per costruire l’organizzazione rivoluzionaria della classe: un’organizzazione che assuma il compito di organizzare la “classe per sé” nello scontro con la classe dominante, sviluppando la sua egemonia e il suo sistema di alleanze, di fronte, in funzione della lotta per il potere.


1 Vedi Antitesi n. 3, La democrazia governante, pp. 60-70

2 Vedi Antitesi n. 9, Covid e deriva autoritaria, pp.56-64

3 Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, ediz. Einaudi, Torino 1975, p. 1587

4 K. Marx, Miseria della filosofia, Opere Complete, Editori Riuniti Roma 1973, vol. VI p. 224

5 K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, p. 5, Editori Riuniti, 1971

6 Ibidem

7 F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, 1850, reperibile sul sito resistenze.org

8 Lenin, Che fare?, Opere Complete, Editori Riuniti 1958, vol. 5, pp. 345-346

9 Ivi, p. 348

10 Ivi, p. 352

11 Ivi, p.355

12 Ivi, p. 354

13 Ivi, p. 355-356, in nota

14 Ivi, p. 374

15 Ivi, p. 375

16 Ivi, p. 377

17 Ivi, p. 381

18 Ivi, p. 382

19 Ivi, p. 418

20 Ivi, p. 407

21 Ivi p.338

22 Ivi, p. 420

23 Vedi Antitesi n. 9, p. 53

24 Comitato Centrale del PCC, Alcune questioni riguardanti i metodi di direzione (1 giugno 1943), Opere di Mao Tze Tung, vol. 8, p.13, Edizioni Rapporti Sociali


Autorganizzazione: genesi di una categoria

Un approfondimento specifico merita la categoria dell’autorganizzazione per come è andata a definirsi in Italia a partire dalla fine degli anni ‘60. All’inizio è stata la forma con cui è stata interpretata la tensione del nuovo protagonismo operaio e proletario contro la svolta neocorporativa promossa dal revisionismo. I comitati di base, le assemblee autonome, gli autoconvocati sono state via via le forme che ha percorso la determinazione della classe per liberasi dalla tutela dei sindacati venduti all’interesse del capitalismo.
Questa spinta positiva verso la riconquista di un’autonomia della classe ha caratterizzato il grande sviluppo del ciclo di lotte operaie e studentesche degli anni Sessanta e Settanta. Il “vogliamo tutto!” come sintesi politica di massa alludeva chiaramente alla necessità di rovesciare il sistema ponendo al centro la lotta per il potere della classe operaia. Questa grande spontaneità, che coincideva con l’inizio di una nuova crisi generale di sovraccumulazione del capitalismo, se da una parte indicava ai comunisti la necessità di uno sviluppo politico-ideologico-organizzativo di partito all’altezza dei compiti rivoluzionari che si ponevano, dall’altra fu interpretata dalle diverse concezioni operaiste e movimentiste, come possibilità di una crescita dal basso dell’autodeterminazione della classe in un quadro ideologico simile alle concezioni economiciste criticate nel “Che fare?” di Lenin.
Posizioni queste che nelle loro componenti più coerentemente antagoniste svilupparono la concezione del “contropotere” come crescita dal basso di un potere proletario nella fabbrica e nella società. Il fatto però che il potere sia indivisibile, se non temporaneamente e limitatamente ad alcune situazioni, rende palese l’inconsistenza strategica di queste concezioni che sono legate alla prospettiva della radicalizzazione della lotta economica e che nel loro insieme irrimediabilmente sfociano e rimangono confinate nel campo del riformismo più o meno radicale. Ugualmente vanno considerate le ipotesi del “comunismo qui e ora”, cioè del movimentismo politico di stampo “comunitario”, che postula la possibilità di costruire fin da subito relazioni sociali antagoniste ed alternative al sistema capitalista, senza porsi prima la questione dell’abbattimento di tale sistema e quindi della conquista del potere da parte del proletariato.

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