Rafforzarci nella crisi!
“Editoriale” da Antitesi n.10 – pag.2
La crisi istituzionale e l’instaurazione del governo Draghi è stata un percorso obbligato per trovare uno sbocco alla crisi economica, conclamata da tempo, che si è approfondita con la crisi sanitaria e si è travasata in crisi sociale, con all’orizzonte lo spettro, per la borghesia imperialista, della sua possibile detonazione.
Pil al collasso, sblocco dei licenziamenti, disoccupazione in particolare di giovani e donne in continua ascesa, aumento delle aziende a rischio, situazione grave di settori di piccola borghesia con la chiusura di molte attività, sono i principali crucci della classe dominante, ai quali devono far fronte cercando di mantenere la tenuta sociale.
L’avvitarsi della crisi, oltre ad acuire le contraddizioni e peggiorare le condizioni di vita della classe operaia e delle masse popolari, ha fatto deflagrare le contraddizioni tra le diverse componenti della borghesia imperialista e del ceto politico che ne rappresenta gli interessi, indipendentemente dalla miseria politica e morale di quest’ultimo.
I compositi interessi della borghesia imperialista, principali quello della produzione e del profitto e della tenuta del consenso e dell’egemonia dello Stato, coniugati tra loro e tendenzialmente in armonia in tempi di vacche grasse, attraverso il collaudato meccanismo delle “porte girevoli” tra monopoli e istituzioni politiche, ora, in tempi avversi, mostrano le loro divergenze, soprattutto nella contingenza della spartizione dei fondi europei.
La scesa in campo diretta dell’oligarchia finanziaria con Draghi è stata un passaggio obbligato ed estremo per tentare di ricomporre questi interessi, costruire un compromesso, difendere l’interesse generale del capitalismo, con al comando la sua frazione dominante, quella finanziaria. Il “rappresentante perfetto” delle banche e della finanza si assumerà il compito di tentare di dissipare i contrasti e tenere a bada i contendenti nel campo del grande capitale, ma con un occhio ben attento e vigile nel campo della tenuta sociale, per una nuova riaffermazione dell’egemonia borghese. Sarà una strada in salita e piena di incognite visto che è l’ennesimo tentativo di riconciliare tutte le fazioni borghesi in una situazione nella quale le contraddizioni possono precipitare.
L’instabilità palesatasi non è, infatti, caratteristica peculiare italiana (Usa docet) e si colloca nel solco scavato dalla crisi generale del capitalismo nella sua fase imperialista, che ha alimentato le tendenze all’autoritarismo. Se la globalizzazione aveva messo in crisi la “democrazia”, l’avvitamento della crisi con la pandemia ha sferrato un colpo ad entrambe. La strada per Draghi si preannuncia in salita per il variegato assembramento che si è determinato attorno a lui, lasciando all’opposizione solo la destra di Fratelli d’Italia. Una formale ricomposizione delle varie fazioni della borghesia imperialista che è potuto avvenire visto il blocco temporaneo, attuato per la pandemia, del Patto di stabilità con la sospensione dei vincoli di bilancio decretato dalla Ue nella primavera scorsa e soprattutto per la spartizione del recovery fund tra diversi e contrastanti gruppi borghesi. Nella figura di Draghi al ruolo di dirigente del capitale finanziario si aggiunge quello di direzione della sfera politica e istituzionale, per disciplinare e accentrare la spartizione e la gestione della crisi economica in generale.
In Italia la crisi politico/istituzionale si colloca nel frangente di un’egemonia borghese caratterizzata da numerose crepe, verificatesi soprattutto nel corso dell’ultimo anno segnato dalle ondate di Covid19. Il numero di decessi ha evidenziato il totale fallimento delle politiche dello Stato borghese, che ha perseverato nella linea della trasformazione della questione sanitaria in questione di “legge e ordine”, per un disciplinamento delle masse, fino all’imposizione di una sorta di “domiciliari di massa”. Linea utile a contenere il malcontento per le politiche del governo a favore dei grandi padroni e a sperimentare un modello di controllo basato su un uso fascista della comunicazione, sulla limitazione del diritto a manifestare e a scioperare, su misure tipiche della guerra, come il coprifuoco, e sulla volontà di scaricare sulle masse e i loro comportamenti le responsabilità dell’epidemia. E questo è un bagaglio di cui Draghi farà tesoro.
Tra un’ondata e l’altra di Covid19, il governo Conte bis non ha fatto nulla in campo sanitario, nessun impegno nella prevenzione soprattutto territoriale, mentre si è impegnato a propagandare le gesta “salvifiche”della big farm promuovendo la campagna per il vaccino della statunitense Pfizer senza far trapelare la storia criminale di questa multinazionale. E, a fronte della grave condizione economica di molti lavoratori, donne e giovani delle masse popolari, ha dispensato ridicoli bonus. Invece, in linea con gli interessi dell’imperialismo italiano, ha premuto l’acceleratore sulle spese militari, chiudendo il 2020 con il vergognoso acquisto di una flotta di aerei da spionaggio da Usa e Israele, costo totale stimato di 5 miliardi. Uno Stato di guerra che, se sul fronte interno ha accelerato l’autoritarismo nel quadro della “democrazia governante”, sul fronte esterno è impegnato in ben 36 missioni militari. E, in piena pandemia ha incentivato il legame tra ricerca-guerra-forze armate-case farmaceutiche spingendo sul coinvolgimento dell’università. Questo mentre gli studenti erano sottoposti alla didattica a distanza ed è stato mantenuto il numero chiuso a medicina.
Una linea che procederà con il nuovo governo vista la nomina di Roberto Cingolani passato direttamente da manager di Leonardo a ministro della cosiddetta transizione ecologica (sic!).
Il ruolo dello Stato, quello di rappresentare e imporre gli interessi dei grossi padroni, della big farm, della grande distribuzione, delle banche e delle fabbriche di morte, ora è più visibile agli occhi delle masse e, nella seconda ondata, numerosi sono stati i segnali di insofferenza e protesta alle nuove misure adottate, che hanno messo in discussione le istituzioni e il loro ruolo.
In particolare, a novembre 2020, soprattutto nelle grandi città, si sono avute esplosioni di rabbia popolare animate da settori di piccola borghesia, proletariato urbano e sottoproletariato e, ultimo in ordine temporale, ma non per incisività, ha preso protagonismo il malcontento giovanile specialmente nel mondo della scuola. Ma sono scesi in campo anche i lavoratori della sanità, i precari, i riders e le donne che hanno subito più di tutti i licenziamenti e patito drasticamente nel lockdown l’oppressione patriarcale con l’omicidio di una di esse ogni tre giorni
Il proletariato giovanile, ha battuto il suo colpo, a Torino, Milano, Napoli; piccoli flash, ma che illuminano possibili scenari futuri, forse anticipazione di una nuova composizione di classe antagonista nella metropoli.
Tra le masse popolari è serpeggiata la comprensione che nei “piani alti” non vengano assolutamente presi in considerazione i loro interessi.
Una situazione di crisi generale che come comunisti ci porta a riflettere su ciò che Lenin aveva teorizzato sulla situazione rivoluzionaria: un momento in cui le classi al potere non riescono più a conservarlo senza modificarne la forma, aprendo crepe nelle quali si può incuneare il malcontento delle classi oppresse che, spinte dall’aggravamento della miseria, tendono a mobilitarsi. Lenin affermava però che non basta però che le “classi superiori” non possano più proseguire come prima e “gli strati inferiori” non vogliano più sopportare: è necessaria una trasformazione soggettiva perché si inneschi un processo rivoluzionario per farla finita con i padroni e il loro Stato.
Che fare?
Pensiamo che un compito fondamentale di oggi sia capire come dialetizzarsi alla classe operaia che nella primavera scorsa era scesa in campo con forza, mostrando la sua centralità e il suo peso, irrompendo anche nella comunicazione mediatica, ma è stata prontamente messa a tacere e poi oscurata.
La proroga del divieto di licenziamento, anche se limitata ai posti fissi e agli operai che hanno usufruito della cassaintegrazione, e il prolungamento di quest’ultima, se da un lato ha mostrato la capacità dei padroni e dei loro servi, i sindacati confederali, di spostare in avanti il problema, dall’altro ha evidenziato la forza dei lavoratori vista la grande paura della loro scesa in campo. E hanno mostrato questa forza pur orfani di una rappresentanza politica.
La classe operaia, in determinati settori e nelle sue componenti d’avanguardia, come nella logistica, non ha mai smobilitato la lotta, come pure su alcune grandi battaglie contro i licenziamenti alla Whirpool, all’Ilva o contro i trasporti militari nel porto di Genova… E a livello di singole aziende, non è mai stata zitta, visto che si sono date agitazioni a macchia di leopardo.
In campo sindacale i vertici confederali, presi tra incudine e martello, cioè voler contare nella contrattazione pur restando filogovernativi, hanno seguito la linea di aprire avaramente il rubinetto della mobilitazione solo in funzione dei tavoli di trattativa, 6 misere ore ad ottobre per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. La firma del nuovo contratto, capestro per tutti gli altri e il primo dell’era Draghi, va nella direzione di tentare di comprare con poche briciole la pace sociale nelle fabbriche. Un contratto che da un lato recepisce l’esigenza degli industriali della riscrittura dei livelli e dall’altro mette all’angolo la linea Bonomi, contraria agli aumenti e foriera di potenziali rotture della pace sociale.
Come comunisti dobbiamo recuperare il ritardo accumulato, ritardo politico soggettivo che ci vede non all’altezza della fase oggettiva attuale. La situazione ce lo impone, pena l’essere emarginati totalmente e lasciare libero il campo alla destra e alla reazione.
Dobbiamo porci l’obiettivo di costruire internità alle lotte contribuendo a promuovere e organizzare la resistenza. Dobbiamo farlo applicando la linea di massa con parole d’ordine appropriate e concrete. Parole d’ordine che non isolino la classe, che non si riducano alla “lista della spesa” di tutte le cose giuste da ottenere, ma che servano a sviluppare l’organizzazione della resistenza all’attacco senza precedenti di questa fase e porre il problema dell’organizzazione politica come necessaria per vincere.
E dobbiamo andare alle lotte per alimentarci da esse, raccogliere uomini e donne per costruire la forza comunista organizzata che sappia mettere in discussione il potere della borghesia imperialista. Recuperare il ritardo significa porci incessantemente il problema di conquistare nuovi compagni e compagne, formarli nell’appropriazione della concezione di classe del mondo, cemento indispensabile per l’unità nella prospettiva della pratica politica rivoluzionaria. Oltre all’organizzazione immediata di massa e di movimento, i compagni debbono impegnarsi qui ed ora al nucleo del problema, la questione dell’organizzazione comunista, di ambiti organizzati di dibattito, di formazione politica e pratica militante.