Derubati del futuro e del presente
La questione giovanile nell’aggravarsi della crisi
“Controrivoluzione ed egemonia di classe” da Antitesi n.10 – pag.53
Nei mesi scorsi in molte città, da Milano a Torino, da Firenze a Napoli fino a Cosenza, si è palesata una realtà di migliaia di giovani scesi in piazza, mossi dalla rabbia connessa alla propria condizione di estrema precarietà, aggravatasi nella pandemia. Messaggi di esasperazione, ma anche di necessità di riscatto da parte di lavoratori dello spettacolo, riders, disoccupati, baristi e camerieri, rimasti per lo più senza tutele e senza alcun sussidio adeguato.
Per quanto la composizione delle piazze citate sia stata eterogenea, non si può non notare il protagonismo di giovani presenti nelle strade, non in quanto studenti, non in quanto giovani, bensì in quanto soggetti maggiormente colpiti dalla precarietà, come condizione esistenziale a 360 gradi che aggredisce la sfera economica e abitativa e conseguentemente quella personale, minando alla base le possibilità di progetti a medio e lungo termine.
In questo articolo cercheremo di analizzare la condizione dei giovani proletari, per quanto concerne il lavoro e lo studio, in un contesto di ricatto maggiore rispetto alle generazioni precedenti. I giovani dell’ultima generazione hanno dovuto far fronte a numerose e inedite forme di sfruttamento: dall’alternanza scuola-lavoro ai tirocini infiniti, dai voucher fino ai contratti a chiamata, mentre accumulavano titoli di studio nella falsa promessa di un orizzonte di maggiori e migliori opportunità lavorative. Esemplificativo è il caso di applicazione del Jobs Act, targato Renzi, applicato ai nuovi assunti, che ha peggiorato il contratto subordinato a tempo indeterminato, liberalizzato i contratti a termine e favorito i padroni nel licenziamento senza giusta causa e nel demansionamento. Questo strumento legislativo è stato figlio della ristrutturazione selvaggia del mercato del lavoro nel contesto dell’aggravarsi della crisi del capitalismo e della caduta dei profitti.
La contrazione dei salari, la frammentazione delle forme contrattuali e, conseguentemente, la divisione dei lavoratori, unita alla loro ricattabilità, sono conseguenze che investono in pieno i giovani lavoratori, creando una frattura generazionale con quelli assunti prima della controriforma del lavoro che, agli occhi della grande maggioranza dei primi, appaiono più tutelati a loro discapito. La borghesia italiana, complici i vertici dei sindacati di regime, ha compiuto un gran lavoro di divisione nella nostra classe, a partire dalla contraddizione principale, quella capitale-lavoro, mettendosi così nella posizione ideale per ostacolare il nascere di lotte ed esercitare meglio il controllo.
Una generazione giovane di lavoratori senza tutele, diritti e memoria storica di lotta è una generazione che viene così disarmata sia politicamente che praticamente e, conseguentemente, è più facile da tenere a bada. Per questo motivo collochiamo questo contributo sulla questione giovanile nella sezione controrivoluzione ed egemonia di classe, consapevoli della potenzialità di noi giovani di incarnare il cambiamento possibile e necessario.
Si scrive precarietà, si legge ricatto
Oggi gran parte dei giovani lavoratori potrebbero essere collocati nella categoria dei working poors, lavoratori impegnati per una grande quantità di ore, ma con retribuzioni molto scarse e assenza di tutele. Pensiamo al caso dei riders, la cui condizione sale alla ribalta solo in occasione di gravi incidenti che restituiscono uno scenario di ipersfruttamento ben distante dalla retorica dell’autoimprenditorialità. Ovvero, mentre le grandi aziende del delivery millantano i benefici di un lavoro autonomo, da gestire nei tempi di ciascuno, i riders sfrecciano sulle strade, con i propri mezzi, per effettuare maggiori consegne nel minor tempo possibile, perché soggetti ai ricatti del cottimo e del rating dell’algoritmo della piattaforma. Infatti chi non ha un “buon” punteggio rischia di non accedere all’apertura delle slots, cioè le fasce orarie in cui le consegne sono maggiori, in particolare quelle della cena e dei fine settimana. Un’altra ricorrente favola sui riders è quella del “lavoretto”, favola che cerca di nascondere una realtà di lavoratrici e lavoratori che si mantengono con quell’occupazione e talvolta mantengono anche le proprie famiglie, pur senza tutele collettive, come i diritti alla malattia, alle ferie, ai permessi etc.
Un altro contesto lavorativo che oggi molti giovani vivono è quello della logistica, in particolare in Amazon e nell’intricata rete di cooperative e Srl. impegnate nelle consegne per il colosso statunitense che, in questi ultimi anni, si sta enormemente espandendo. Per comprendere l’ascesa della multinazionale di Jeff Bezos possiamo risalire al predominio ottenuto come rivenditore online e alla conseguente espansione del settore logistico. Infatti, da circa quindici anni Amazon ha sviluppato “Fulfillment by Amazon” (Fba), un suo servizio di stoccaggio, inventario, imballaggio e spedizione. Oggi il 73% dei venditori sulla piattaforma è abbonato a Fba. Non hanno avuto scelta: solo i venditori che usano Fba possono vendere con Prime e avere la possibilità di essere selezionati dal misterioso algoritmo della Buy Box, la prima casella nella pagina di ricerca online, quella cliccata dai consumatori nell’80% dei casi. Amazon ha sfruttato il proprio dominio nel commercio online per avvantaggiare un ambito di impresa diverso, collegando in un rapporto di dipendenza reciproca Prime e marketplace attraverso Fba”1. Ciò ci restituisce il quadro di un gruppo monopolista della grande distribuzione che obbliga la piccola borghesia a farvi riferimento, mettendo all’angolo il piccolo capitale concorrenziale.
Ciò che accomuna le lavoratrici e i lavoratori nei magazzini Amazon e i drivers, che ne effettuano le consegne, sono i ritmi frenetici di lavoro e la pressione costante dettata dal controllo totale su tempi e movimenti di ciascuno. Nel primo caso “la regola ferrea, una volta superati i tornelli con il green badge del lavoratore precario o con quello blu di chi è assunto a tempo indeterminato, è di rispettare i tempi e la quantità previsti, in una catena di montaggio 2.0 nella quale l’errore è sempre tracciabile e imputabile (…) e in cui (…) i tempi sono contingentati al punto che pure andare in bagno più di una volta può significare il fallimento dell’obiettivo di consegna giornaliera”2.
Nel secondo caso, quello delle consegne tramite furgone, il lavoratore deve necessariamente seguire il percorso stradale e i ritmi stabiliti dall’algoritmo di Amazon, per effettuare più consegne possibili nel più breve tempo possibile.
Dalla logistica alle consegne, il forte aumento delle figure professionali ipersfruttate può essere facilmente collocato nella ristrutturazione del mercato del lavoro attuata per far fronte alla crisi. Questo si è tradotto in una forte crescita della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, alla quale molti giovani rispondono con il tentativo di trovare un’occupazione in altri paesi.
Guardiamo alcuni dati riportati nel Grafico 1.
I dati parlano chiaro: sono moltissimi i giovani italiani che, ogni anno sempre in numero maggiore, lasciano l’Italia per paesi in cui c’è probabilità di avere uno stipendio migliore. Sono, infatti, giovani laureati, molti ad altissima specializzazione i protagonisti della cosiddetta fuga di cervelli.
Secondo il rapporto annuale del 2019 sugli italiani nel mondo, curato dalla fondazione Migrantes, in dieci anni il numero di espatri è triplicato, passando da 39 mila nel 2008 a 117 mila nel 2018. Nell’ultimo anno le partenze hanno riguardato soprattutto i giovani: nel 40,6% dei casi si è trattato di ragazzi tra 18 e 24 anni. Una recente ricerca di due studenti italiani di Harvard mette in guardia sul fatto che questi dati potrebbero essere delle sottostime di quelli reali, rivelando un’ulteriore possibile estensione del fenomeno.
Il rapporto Svimez (Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno) segnala inoltre una crescente tendenza di abbandono del Sud che si rivela essere la vera emergenza. Gli emigrati dal Sud tra il 2002 e il 2017 sono stati oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017. Di questi, il 50,4% sono giovani, di cui il 33% laureati.
L’aspetto paradossale consiste nell’insufficienza di un lavoro per poter vivere autonomamente: un terzo dei giovani tra i 18 ed i 34 anni che vive ancora con i genitori risulta, infatti, essere occupato. In Trentino Alto-Adige sono oltre la metà. In Friuli Venezia Giulia il 49,9%, in Veneto e nelle Marche il 45%. “Bamboccioni” secondo la propaganda reazionaria. O probabilmente lavoratori il cui stipendio non è tale da permettere loro di prendere un appartamento in affitto, né di accedere ad un mutuo. Una percentuale in calo negli ultimi anni, cui fa però da contraltare un incremento di quella di chi vive con i genitori e sta cercando un lavoro.
Questi dati (vedi Grafico 3), dietro a cifre e rappresentazioni grafiche, ci rimandano ad uno scenario caratterizzato da minori garanzie e prospettive rispetto alla generazione precedente: noi giovani siamo proiettati a “tempi migliori” che non arrivano, a maggior ragione in una fase di crisi che la borghesia ci fa pagare, a suon di precarietà e tagli allo stato sociale.
Lo studio tra attacco e perdita di valore
Dal mondo del lavoro a quello dell’istruzione noi giovani oggi paghiamo in prima persona i costi della crisi strutturale del sistema che ci vengono scaricati addosso, a suon di salari più bassi, maggior sfruttamento e minore qualità e accessibilità dell’istruzione pubblica. Proviamo ora ad approfondire l’ulteriore attacco al diritto allo studio condotto sfruttando l’emergenza sanitaria.
Dagli studi dell’Istituto Superiore di Sanità italiano (Iss) emerge che, nel periodo tra il 31 agosto e il 27 dicembre 2020, i focolai nelle scuole hanno rappresentato solo il 2% dei casi nazionali registrati. Un dato significativo che contraddice la scelta del governo Conte bis di chiudere gli istituti, soprattutto se si considera che nulla è stato fatto per rendere sicure le reti di trasporto pubblico. Infatti, gli studenti, spesso unitamente agli autisti e agli insegnanti, hanno ripetutamente denunciato il sovraffollamento a bordo degli autobus. Se, in primis, il Governo ha chiuso in fretta e furia le scuole, i privati che detengono il controllo della maggior parte del trasporto pubblico del paese ne hanno approfittato per tagliare ulteriormente le corse, a fronte del minor traffico di persone.
Le contraddizioni materiali preesistenti alla pandemia si sono ulteriormente palesate. Il Decreto Rilancio, in un contesto emergenziale, ha certamente previsto un miliardo e seicento milioni per il comparto istruzione, di cui 300 milioni alle scuole private, ma dal 2007 la scuola pubblica è soggetta a tagli e assenza di risorse a disposizione. I dati Eurostat ci dicono che L’Italia è passata, per l’istruzione, dal 4,6% del Pil nel 2007 al 3,8% nel 2017 e questo, materialmente, si è tradotto nell’innalzamento del rapporto alunni/classi, nell’aumento dei lavoratori precari, nel mancato investimento nella formazione, negli accorpamenti di istituti.
Le cosiddette classi pollaio, frutto della controriforma Gelmini, l’inadeguatezza degli spazi, la carenza e la precarietà del corpo docente e il sottorganico del personale Ata sono, infatti, le principali criticità messe all’indice nelle mobilitazioni che si sono susseguite nei mesi e che, giustamente, hanno rivendicato “Mai più Dad”, l’opposizione alla Didattica a distanza. Rispetto a quest’ultima, siamo passati alla stabilizzazione della Didattica digitale integrata che rende permanenti taluni aspetti della Dad e, in caso di nuova chiusura della scuola, torna ad essere la “classica” Dad. Questo ci mostra come l’emergenza sanitaria sia stata usata per accelerare un processo di ristrutturazione, nonostante le evidenti criticità della Dad.
La Dad ha creato enormi disagi e frustrazioni sia tra gli studenti sia tra i docenti più appassionati al loro lavoro, spesso giovani precari. In quest’ultimo caso moltissimi insegnanti hanno dovuto spiegare davanti allo schermo senza capire se i loro studenti li stessero seguendo, mentre questi ultimi potevano assistere a lezioni frontali, una dietro l’altra, collegandosi soprattutto da smartphone e registrando numerose difficoltà d’accesso e connessione. Una situazione che, nell’intreccio tra nuove povertà e disuguaglianze educative, porterà ad un aumento della dispersione scolastica. Quest’ultima, dopo un calo progressivo nei primi dieci anni del Duemila, aveva ricominciato a crescere già prima della pandemia: nel 2016 si era registrato un 13,8% di studenti che avevano abbandonato la scuola, 14% nel 2017, 14,5% nel 2018. Non è difficile prevedere un ulteriore incremento dopo il lockdown, soprattutto se pensiamo che “nel periodo 2018-2019, il 33,8% delle famiglie non ha computer o tablet a casa, una quota che scende al 14,3% tra le famiglie con almeno un minore” un dato che al centro-sud cresce fino al 41,6%3.
In questo scenario la Dad aumenta il divario di classe, tra coloro che a casa beneficiano di supporti familiari e tecnologici e coloro che ne sono privi. Una forbice già approfondita dagli studi in Olanda, Francia e Usa dove, nel primo caso, dopo il lockdown “(…) sono stati condotti test massivi sulla scuola primaria. Confrontando i risultati con quelli di test analoghi condotti in anni precedenti, i ricercatori hanno evidenziato che la differenza negli esiti indicava che il periodo della didattica a distanza corrispondeva a una vera e propria mancanza: in altri termini, durante quel periodo, gli studenti avevano imparato poco o nulla; e, come era lecito aspettarsi, le carenze maggiori si sono registrate in studenti dal background familiare più svantaggiato”4.
Nel contesto universitario, invece, si è registrato un notevole aumento delle iscrizioni, ma ciò non è un punto a favore della Dad, anzi, è la dimostrazione di come l’università sia diventata sempre più classista. Il fatto che molti più studenti possano frequentarla esclusivamente da casa, risparmiando così su trasporti e affitto, è preoccupante, perché se avessimo realmente un’istruzione gratuita, con finanziamenti alle borse di studio e posti adeguati negli studentati, nessuno dovrebbe rinunciare ad una formazione di qualità in presenza.
Università e scuole non sono altro che lo specchio della società, specie se pensiamo alle logiche di selezione (tramite le prove Invalsi nel caso delle seconde), ai processi di aziendalizzazione che le investono con l’entrata di “sponsor” privati che finanziano borse di studio e addirittura entrano direttamente con accordi nella ricerca. Ricordiamo anche i tirocini e il lavoro gratuito mascherato da “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” e arrivando allo sfruttamento della ricerca universitaria per finalizzarla sempre più al profitto, in particolare, nel campo militare.
Nelle sedi scolastiche e universitarie abbiamo registrato, la sospensione di qualsiasi assemblea o iniziativa di partecipazione, in un continuum propagandistico che ha di fatto etichettato il comparto dell’istruzione pubblica come un settore sacrificabile. Infatti, la pandemia ha palesato la fragilità del sistema dell’istruzione, per il fatto di essere piegato agli interessi e alle necessità del capitale, così come del sistema sanitario nazionale e del trasporto pubblico, che hanno retto solo grazie all’impegno delle lavoratrici e dei lavoratori.
La scuola e l’università, forse più palesemente di prima, si configurano infatti come “unità di opposti tra apparati egemonici e conquista delle masse popolari. Qui si confrontano l’egemonia della classe dominante, per la quale la scuola è stata concepita e tendenzialmente plasmata, e l’egemonia della classe operaia, che si manifesta soprattutto con la sua difesa come istituzione di elevazione culturale delle masse popolari e con la capacità di utilizzare gli strumenti culturali trasmessi contro la classe dominante stessa”5.
Dunque, i dati prima citati sui contagi estremamente bassi negli istituti non devono farci gridare allo scandalo per le scelte apparentemente illogiche da parte del governo Conte bis, bensì possono farci interrogare sul motivo per cui la classe dominante oggi gestisce in queste modalità il sistema dell’istruzione pubblica. Nella crisi, la necessità cogente di depotenziare qualitativamente l’istruzione di massa, da parte della borghesia imperialista, è motivato dalla necessità di tagliare la spesa pubblica nonché dalla scelta, da un lato, di configurare l’istruzione come un “parcheggio sociale” di contenimento della disoccupazione giovanile e, dall’altro, di selezionare attraverso meccanismi specifici e classisti (ad esempio col sistema privatistico dei master) la forza lavoro. Il risultato è un abbassamento qualitativo per tutti, la quantità e la qualità dell’istruzione calano, mentre solamente pochi (e ricchi) possono emergere.
I governi che si sono susseguiti, e quello ora in carica, dimostrano come l’istruzione di massa non sia una priorità se non finalizzata agli interessi delle classi dominanti. Il discorso per la fiducia al senato di Draghi è stato molto chiaro, anche strategicamente, per come intende gestire questo settore: “È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura (…) Occorre infine costruire sull’esperienza della didattica a distanza maturata nello scorso anno sviluppandone le potenzialità con l’impiego di strumenti digitali che potranno essere utilizzati nella didattica in presenza” e, per l’istruzione superiore “È stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale”6. Risulta chiaro, da queste parole, come il futuro dell’istruzione sarà piegato esclusivamente agli interessi dal capitale per far fronte alla sua crisi, sviluppando i nuovi settori dove si stanno indirizzando gli investimenti e il recovery fund.
In tutto questo processo, la classe dominante si fa forte anche della cancellazione del patrimonio di lotte che hanno conquistato l’istruzione di massa stessa, tentando di indirizzare il protagonismo giovanile verso i miti della carriera e dell’affermazione individuale.
D’altro canto, tale immaginario borghese della competizione e della “meritocrazia” è ormai già molto precario: in pochi confidano nello studio come strumento di ascesa sociale che garantisca una posizione lavorativa stabile e remunerata, come veniva pedissequamente trasmesso a tutti noi appena un decennio fa. Tuttavia, questa disillusione non si accompagna in maniera meccanica alla volontà di rovesciare lo stato attuale delle cose; assistiamo piuttosto, complice l’isolamento imposto con l’epidemia, ad un aumento e ad una diffusione di un sentimento nichilista.
La spinta verso l’atomizzazione
Mentre il contagio da Covid19 si è diffuso dai centri della produzione e della distribuzione delle merci, i giovani, con la retorica della movida, sono stati mediaticamente etichettati come untori. Nello scorso numero ci siamo occupati delle nuove forme di repressione e del loro affinamento. In continuità con questa tendenza vediamo oggi come da un lato si stiano sperimentando nuovi strumenti di disciplinamento e controllo, in particolare con l’istituzione del coprifuoco e delle zone a colori , dall’altro vadano modificandosi le abitudini individuali, registrando l’aumento dell’uso dei social, delle console e del consumo compulsivo delle serie tv, come quelle targate Netflix, che sempre più spesso diventano motivo di confronto nelle pause del lavoro, o via social.
La crescita esponenziale delle visioni di serie tv è paradigmatica del passaggio dalla visione collettiva a quella individuale nello spazio privato. La fa da padrona Netflix, la società californiana al comando di una catena globale di sub-fornitura; parliamo di oltre 2.200 subfornitori, dove nei gradini più bassi della catena i salari sono da fame e i lavoratori si sono organizzati e hanno lottato strappando anche vittorie.
L’isolamento nello spazio domestico privato, associato alla digitalizzazione, ha prodotto disturbi del sonno, ansie, fobie, disorientamento e rassegnazione. Un insieme di disturbi che riscontriamo, più in generale, anche nell’uso forzato delle piattaforme comunicative, prima tra tutti Zoom. Gli individui finiscono per vivere una situazione di “iperstanchezza”, di malessere psicologico, ben visibile nell’aumento delle sintomatologie legate ai cosiddetti attacchi di panico, agli stati d’ansia, ai disturbi del sonno, ai tentati suicidi e all’autolesionismo tra i giovani. Tra questi ultimi c’è una vera e propria emergenza: “Per esempio a dicembre il Reparto di Neuropsichiatria infantile dell’ospedale Regina Margherita di Torino ha lanciato l’allarme: i ricoveri per Tentativi Suicidio (TS) sono passati da 7 nel 2009 a 35 nel 2020 e nello stesso periodo (2009-2020), nel Day hospital psichiatrico, l’ideazione suicidaria è passata dal 10% all’80% dei pazienti in carico”7.
Questa situazione ci rimanda al piano generale del capitale che vede nella digitalizzazione innanzitutto un settore economico da rilanciare strategicamente. Non a caso, l’Ue ha indicato la digitalizzazione come uno dei fili conduttori per i recovery plan nazionali8. Ciò si traduce anche in un’arma egemonica in mano al capitale per atomizzare gli individui, soprattutto i giovani, in modo che non si uniscano e riconoscano in un percorso reale e collettivo di cambiamento della società.
La gestione borghese del contenimento della pandemia, ha prodotto una desocializzazione senza precedenti, il famoso “distanziamento sociale”. Appare infatti evidente che, in questa fase, le masse giovanili sono state sacrificate: scuole, università e aule studio sono state chiuse, o fortemente ridimensionate, gli spazi di socialità e sport sono stati inaccessibili colpendo, in primis, proprio i giovani, mentre i mass media hanno costantemente accusato questi ultimi di essere degli irresponsabili, persino degli untori, tacciandoli addirittura di essere i colpevoli della morte di genitori o nonni.
Questi provvedimenti e questi messaggi si collocano in una strategia preventiva di disciplinamento tesa a chiudere o ridimensionare i rapporti sociali. Come in ogni strategia di controrivoluzione preventiva, la motivazione che muove la borghesia risiede nella potenzialità che i giovani stessi incarnano, ovvero la loro spontanea disposizione alla aspirazione di cambiamento e alla ribellione. Non è un caso che, dalla Francia agli Usa fino al Cile, i giovani siano i protagonisti delle forti mobilitazioni di piazza. È in questo scenario che, alla radice, ritorna la questione dell’egemonia9, la borghesia, infatti, non sperimenta strumenti di controllo e alienazione o nuove tecnologie per mero gusto empirico, bensì da un lato per capitalizzarli in termini economici e dall’altro per conservare saldamente il potere nelle proprie mani.
Dalla lotta per il diritto allo studio a quella per prenderci tutto
Come abbiamo visto, durante questi ultimi mesi, i giovani si sono mobilitati: dai riders ai camerieri, passando per le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo, fino agli studenti delle scuole secondarie in lotta contro la Dad e le scelte prese dal Governo per affrontare questa crisi.
Se la composizione iniziale della mobilitazione studentesca riguardava prevalentemente i genitori degli alunni delle scuole primarie e i docenti delle stesse, con il passare dei mesi e con la chiusura prolungata delle scuole superiori, gli studenti di queste ultime hanno assunto il protagonismo delle mobilitazioni e hanno iniziato, sostenuti dai collettivi attivi nelle varie città, ad occupare scuole e spazi e a manifestare in tutta Italia. La richiesta di un rientro a scuola, in presenza e in sicurezza, ha legato concretamente gli studenti di tutta Italia, assieme a lavoratori e genitori più coscienti.
Le scuole, in particolare gli istituti dove i figli di proletari e sottoproletari sono indirizzati, sono oggi un contenitore di futuri sfruttati o disoccupati che di fatto contribuiscono a crescere giovani lobotomizzati, pronti per lo sfruttamento e, all’occorrenza, per la guerra imperialista. È possibile e necessario trasformare questi parcheggi in luoghi in cui, tramite la nostra internità e pratica di lotta, poniamo le basi per riconoscere l’interesse collettivo di classe, partendo dalla giusta rabbia presente, che purtroppo, spesso, viene sfogata verso altri giovani o annegata nella droga e nell’alcol.
Dobbiamo far passare il messaggio che “ribellarsi è giusto”, ma bisogna far sì che sia chiaro il vero nemico contro cui farlo: la classe al potere, i padroni e i loro lacchè. Per far esprimere questa rabbia, arricchendola dalla coscienza di classe, gli strumenti da mettere in campo possono essere tanti e tutti da sperimentare: la musica militante, i dibattiti, gli scioperi selvaggi, le mobilitazioni, le lotte, la conquista di spazi collettivi. Bisogna partire dal metterci in collegamento tra proletari, dall’unirci, nella consapevolezza di non essere soli e, anzi, di essere in tanti, con le medesime difficoltà e contraddizioni.
Come abbiamo già scritto in un altro numero della rivista: “dobbiamo far sì che la classe padronale faccia sempre più fatica a controllare il movimento giovanile promuovendo al contrario un suo sviluppo collegato alle istanze e alle lotte della classe operaia. Possiamo farlo rafforzando e allargando il dibattito, affinchè si formino nuove leve di compagni e avanguardie di lotta, fornendo strumenti ideologici e tecnici contro la repressione, cercando di trasformare la scuola in una “casamatta”, per citare Gramsci, per influenzare il resto della società, verso il rovesciamento di un sistema che porta inevitabilmente alla guerra, sul fronte esterno tanto quanto su quello interno”10.
Partiamo dal positivo: le piazze e le situazioni di lotta concretizzatesi negli ultimi mesi hanno visto il contatto di riders e studenti, medici specializzandi e ricercatori universitari, giovani lavoratrici e lavoratori dello spettacolo e della logistica, dimostrando che i giovani possono mobilitarsi con rivendicazioni precise, unirsi e solidarizzare, esprimendo voglia di protagonismo e di sfogare la rabbia accumulata nella scuola, nei propri posti di lavoro e nei quartieri.
Con forza dirompente, molti movimenti sia in passato che oggi, hanno già mostrato quella saldatura possibile nella classe proletaria in grado di aprire un nuovo grande ciclo di lotte che travalichi la ricerca delle briciole e abbia l’orizzonte di rovesciare il sistema capitalista. Un contenuto, quest’ultimo, che già le avanguardie dei movimenti studenteschi in difesa dell’ambiente hanno espresso con forza prima della pandemia. E andando un po’ più in là nel tempo ricordiamo la forza dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, con l’importanza dell’unione tra studenti e operai,
Per questo difficile ma indispensabile orizzonte dobbiamo relazionarci ai nostri compagni di corso e di scuola, ai nostri colleghi precari, per costruire e rafforzare avanguardie di classe capaci di intervenire nel proletariato giovanile. Possiamo e dobbiamo farlo, sostenendo gli studenti nelle mobilitazioni, aprendo spazi di dibattito e di socialità, organizzando momenti di formazione sulle tematiche più sentite, che consentano di approcciarsi alla concezione comunista, recuperando quel patrimonio di classe indispensabile a saper leggere la realtà, su cui la borghesia ha compiuto un enorme lavoro di revisionismo e oblio, ma che invece ha portato noi giovani alla ribalta: dalla fondazione del Partito Comunista alla resistenza antifascista, fino alle lotte negli anni Settanta.
1 S. Gainsforth, Dinamo Print, numero 2, 2020
2 A. Mastrandrea, Storie e denunce di chi smista i pacchi Amazon a Passo Corese, internazionale.it,18/03/19
3 Istat, Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi, istat.it, 6/4/2020
4 Il Sole 24 ore, La generazione perduta del Covid: buchi di apprendimento del 30-50%, ilsole24ore.it 11/01/2021
5 Antitesi, numero 8, pag 56
6 Tecnica della Scuola, Draghi al Senato: il discorso integrale, tecnicadellascuola.it, 17/01/2021
7 S. Dellabella, In aumento tentati suicidi e autolesionismo tra i giovani: col Covid numeri da brivido, espresso.repubblica.it,18/01/2021
8 Vedi sezione 1 di questo Antitesi, p. 16
9 Antitesi n. 6, pag 55
10 Antitesi n. 8, pag 56
Giovani tra reazione e rivoluzione
Da parte delle classi dominanti borghesi, la categoria “giovani” venne da sempre utilizzata come una categoria sociale indistinta, interclassista, promossa a scopi politici e propagandistici per mobilitare in senso reazionario le masse, a partire dalla loro parte più energica e passionale. Ricordiamo in particolare la retorica giovanilista alla vigilia del primo conflitto mondiale e quella messa in campo dai fascisti, per favorire la guerra come sbocco alla crisi del sistema capitalista, in cui sacrificare milioni di giovani vite sull’altare della “patria”.
Nonostante ciò il movimento comunista avrà la capacità di rovesciare questa operazione egemonica della borghesia imperialista. Soprattutto i bolscevichi in Russia si appellarono nettamente ai giovani e ai giovani proletari in particolare.“La gioventù è la fiamma più viva della rivoluzione” disse Lenin. Fu la forza della gioventù proletaria che, spazzando via l’impero zarista e instaurando il socialismo, riuscì a costruire un sistema sociale nel quale essa fu protagonista, dalla prima infanzia fino al diritto ad un’istruzione di qualità per tutti, nella quale la formazione individuale e collettiva andava di pari passo. La gioventù sovietica si formò come avanguardia della nuova vita da costruire: per la prima volta un sistema sociale proclamò il valore superiore del “nuovo”, come forza di trasformazione e liberazione, rispetto al “vecchio”, come forza di conservazione ed oppressione.
“Combatti e ricorda: di fronte alla crisi e all’oppressione, la risposta è la rivoluzione”: questo è stato lo slogan principale nella manifestazione dello scorso gennaio che, a Berlino, nonostante il lockdown, ha visto la partecipazione di alcune migliaia di persone, principalmente giovani, in memoria di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. L’annuale evento commemorativo per i leaders assassinati è anche occasione per ricordare la lotta contro l’opportunismo del Partito Socialdemocratico Tedesco (Spd), dal quale una scissione, nel dicembre del 1918, diede vita al Partito Comunista Tedesco (Kpd). La scissione avvenne in rottura alle scelte dei socialdemocratici a favore della guerra imperialista e in difesa del potere capitalista, per seguire l’esempio della rivoluzione sovietica e instaurare la dittatura del proletariato. Al congresso di fondazione del Kpd, i due terzi dei delegati avevano meno di 35 anni.
Anche in Italia, sarà la generazione più giovane del movimento operaio che prenderà le redini della costruzione del movimento comunista. Infatti, che il futuro non sia scritto lo avevano capito bene i compagni e le compagne che, il 21 gennaio 1921 a Livorno, nella scissione interna al Congresso del Partito Socialista, diedero vita al Partito Comunista d’Italia, con uno spirito di rottura motivato dall’obiettivo di strappare il potere dalle mani della borghesia, sull’onda dell’esperienza russa. Questa ricorrenza è stata largamente strumentalizzata e stravolta nella propaganda borghese che, non a caso, ha ripetutamente definito “riformista” il partito fondato da giovani e giovanissimi per i quali, durante il ventennio, si aprirono le porte delle prigioni, dell’esilio e della clandestinità. Fu così, nella battaglia continua contro il regime fascista, che vennero formati i dirigenti e i quadri capaci poi di dare concretezza all’organizzazione di larga parte della vittoriosa Resistenza antifascista.
Tuttora la categoria borghese dei “giovani” viene agitata per le necessità della classe dominante. Se in una fase di guerra come quella dell’inizio del secolo scorso i giovani dovevano essere carne da cannone, nella fase contemporanea in molti sono destinati ad essere carne da macello sociale, in un contesto di aggravamento della crisi strutturale di sistema, inghiottiti dalla precarietà, dallo sfruttamento e dalla disoccupazione. In particolare, in una fase di emergenza sanitaria, i giovani sono chiamati ad un disciplinamento funzionale al sistema presente: nessuna aggregazione, coprifuoco serale, digitalizzazione e, conseguentemente, chiusura degli spazi di dialogo, confronto e contraddizione di una categoria sociale che, incrociando le sorti della classe operaia, nel secolo scorso ha dato filo da torcere all’ordine capitalista.
I giovani sono “meritevoli” e “responsabili” quando creano profitto e manifestano nei limiti imposti. Sono “bamboccioni”, “choosy” e “figli di papà” quando bisogna nascondere le colpe della classe dominante per disoccupazione, precarietà e impossibilità a farsi una vita autonoma. Sono “teste calde” e “teppisti” quando rivendicano i propri diritti e un futuro diverso. La schizofrenia della comunicazione politica e mediatica mostra in realtà la paura sottotraccia che i giovani proletari rappresentino lo scacco matto a questa società, in grado di concretizzare la forza reale che possa porre le basi ad un presente e ad un futuro rivoluzionario per la classe intera.