Pandemia, crisi e guerra
Tendenza alla guerra al tempo del covid
“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.09– pag. 38
La pandemia non ferma le guerre
Ripetuti bombardamenti sionisti in Siria (giugno-luglio 2020), scontri di frontiera Cina-India con decine di morti (16 giugno), minacce navali nel Mar Cinese Meridionale tra Usa e Cina con esercitazioni contrapposte (4-5 luglio 2020), continui bombardamenti sionisti su Gaza sono solo alcuni tra gli episodi di guerra nei mesi del Covid.
Infatti nonostante il coronavirus sia diventato un problema globale capace di innescare una delle più gravi recrudescenze della crisi, nonostante i ripetuti lockdown che hanno interessato praticamente tutte le formazioni sociali, i conflitti che caratterizzano questo ultimo scorcio hanno continuato a dare tragica concretezza alla tendenza alla guerra, caratteristica ineluttabile della fase imperialista del capitalismo.
Questo che sembrerebbe un dato paradossale è in realtà una logica conseguenza delle condizioni che si pongono nella fase imperialista, come il processo di concentrazione monopolista, lo sviluppo diseguale e la crisi generale di sovraccumulazione di capitali che attanaglia le formazioni avanzate1.
Infatti è in queste condizioni di grave recessione che la concorrenza tra i gruppi monopolisti alimenta la via della guerra come continuazione delle politiche delle potenze imperialiste. La crisi, la recessione e la connessa caduta generalizzata della massa dei profitti impongono inevitabilmente la distruzione della quota di capitale che risulta eccedente rispetto alle ridotte condizioni di valorizzazione. In questo contesto la lotta per determinare maggiori margini di valorizzazione porta all’acutizzarsi delle contraddizioni di classe e con i popoli oppressi, mentre quella in difesa dei rispettivi capitali, con la spinta a scaricare il peso della distruzione sui capitali concorrenti, porta all’acutizzarsi delle contraddizioni interimperialiste.
Quindi la pandemia scatenando una nuova esplosione della crisi non solo non ferma la tendenza alla guerra e le sue concretizzazioni nel presente, ma ne accelera il processo, definisce un nuovo piano dello scontro egemonico tra le potenze e appresta un efficace armamentario ideologico e tecnologico per il controllo sul fronte interno, orientato in primo luogo al contenimento della lotta di classe.
In particolare con la pandemia, nel mondo multipolare caratterizzato dal declino dell’egemonia Usa, il precipitare della crisi di sovraccumulazione che attanaglia le formazioni imperialiste e i contrasti che ne derivano aggravano le linee di frattura della globalizzazione. Nell’immediato la pandemia ha destabilizzato le normali filiere di approvvigionamento come conseguenza dei lockdown e delle misure del contenimento del contagio che hanno contratto la circolazione delle merci. Vecchie filiere si sono interrotte e nuove filiere vanno a sostituirle. Questo ha terremotato le catene del valore facendo esplodere le tensioni che vi erano latenti (dovute all’acutizzarsi delle contraddizioni interimperialiste) dando corso ad un ulteriore avvitamento della spirale della crisi generale. In particolare ne risulta alimentata la spinta al riposizionamento sia economico (ad es. reshoring), sia politico-strategico ( ad es. golden power) da parte dei diversi gruppi che compongono la borghesia imperialista mondiale e questo non può che allargare le fratture esistenti e crearne di nuove.
In definitiva, in conseguenza delle misure prese a riguardo nella situazione di crisi aggravata dalla pandemia, non possono che esasperarsi i contrasti tra i gruppi imperialisti che competono sui margini di profitto in contrazione e sulla difesa dei rispettivi capitali dalla distruzione.
Si definisce inoltre uno scenario rinnovato dello scontro in cui nella pandemia e nella sua gestione non solo si producono filiere del valore disallineate (come nel caso della ricerca sul vaccino e del settore medicale), ma si definiscono anche nuovi strumenti nello sviluppo presente e futuro della tendenza alla guerra (tecnologie di controllo telematico, normative emergenziali, ecc.).
Questo aggravamento della situazione globale nel tempo del Covid si concretizza in particolare nella riaffermazione della “guerra calda” nelle nazioni oppresse e in quella della “guerra fredda” tra le principali potenze imperialiste che concorrono per il predominio su scala mondiale (in particolare il contrasto Usa-Cina).
Le aree del Medioriente allargato e dell’Indo-pacifico sono i due quadranti che mostrano le più chiare concretizzazioni del processo di approfondimento di queste due linee; processo che comunque interessa l’intero campo globale.
“Guerra calda” nelle nazioni oppresse
Per comprendere le condizioni attuali di un’accumulazione capitalista che si svolge sul piano mondiale e in particolare perché queste portino alla guerra nelle nazioni oppresse occorre partire dalla nozione di imperialismo.
“Nel capitalismo sono inevitabili la diseguaglianza e la saltuarietà nello sviluppo di singole imprese, di singoli rami della produzione, di singoli paesi”2. Nel capitalismo, e in particolar modo nella sua fase imperialista, l’arretratezza economica della fascia delle formazioni sociali della periferia, fino anche al permanere e al riprodursi di rapporti feudali, è in funzione dello sviluppo delle formazioni sociali dei centri imperialisti. Il sottosviluppo non è semplicemente “mancanza” di sviluppo in alcune aree, ma una delle conseguenze e allo stesso tempo delle condizioni dello sviluppo delle aree centrali e del sistema nel suo complesso. Questo sottosviluppo si determina non solo per il trasferimento di surplus dovuto alla perequazione dei saggi di profitto dati dalle diverse composizioni organiche che caratterizzano le diverse formazioni sociali, ma anche perché viene instaurata una sistematica rapina di risorse economiche:“il fenomeno del ‘sottosviluppo’ non è dunque nient’altro che la persistenza di fenomeni rilevanti dell’accumulazione primitiva a beneficio del centro (…) L’accumulazione primitiva non si situa soltanto nella preistoria del capitalismo; essa è permanente, contemporanea …”3. Quindi si tratta non solo di sfruttamento ma anche di spoliazione. In pratica nei paesi oppressi è instaurata un’accumulazione per spoliazione strutturale, la quale necessita di condizioni sovrastrutturali che sono state sintetizzate nella categoria leninista della “catena imperialista”. In questo senso l’imperialismo non è soltanto una particolare configurazione della struttura economica, diversa dal capitalismo classico, ma implica nuovi sviluppi dei vari campi della sovrastruttura, in primis quelli della politica e dell’ideologia, degli apparati egemonici e di dominio strategico. Un insieme di “struttura economica” e “sovrastrutture politiche, istituzionali, giuridiche” che stanno in relazione dialettica per comporre l’egemonia e il dominio nell’ambito della catena. “Per comprendere l’imperialismo è indispensabile la nozione di ‘formazione imperialista mondiale’, o, come la chiamava Lenin, ‘catena imperialista’”4.
La pandemia, facendo precipitare la crisi, esaspera la tensione nella catena in una situazione caratterizzata dall’aggravarsi della debolezza dell’egemonia Usa. La contesa tra i gruppi imperialisti per il controllo (basato sul monopolio delle tecnologie) delle filiere del valore diventa antagonista fino a spezzarle (come mostra l’attacco Usa alla multinazionale cinese Huawei) e la corsa al bottino della spoliazione delle nazioni oppresse diventa sempre più frenetica, come mostra il proliferare delle guerre di occupazione e controllo dei territori.
È a partire dalla definizione economica e politica dell’imperialismo che Lenin approdò al concetto di “anello debole della catena” su cui si scarica la maggior parte delle contraddizioni. Una catena la cui essenza non può essere ridotta solo alla sfera delle relazioni economiche tra centri e periferie, ma in cui questa base strutturale è posta in dialettica con uno sviluppo sovrastrutturale che codifica e riproduce rapporti di dominio oltre che economico, ideologico, politico e militare su scala globale. La guerra è storicamente il modo in cui si esprimono con le rotture e si risolvono con i riallineamenti le tensioni della catena. Essa ne indica anche l’anello debole.
Le guerre che contraddistinguono la nostra contemporaneità si sviluppano per la maggior parte nell’ambito della relazione tra imperialismo e nazioni oppresse in aree determinate del Tricontinente (Asia, Africa e America Latina). Questo mostra empiricamente che nell’intreccio delle contraddizioni che caratterizzano l’epoca imperialista del capitalismo quella tra popoli oppressi e imperialismo è quella principale, e diventa antagonista, perché catalizza un insieme di contraddizioni economiche (sviluppo-sottosviluppo), politiche (dominio imperialista-lotte di liberazione), ideologiche (ideologia imperialista-ideologie nazionali e di liberazione, concezioni religiose). “L’ondata sempre crescente della rivoluzione in queste aree e la contesa per esse tra i paesi imperialisti e tra i nuovi e vecchi colonialisti, mostrano chiaramente che queste zone sono ‘il centro focale di tutte le contraddizioni’ del mondo capitalistico; si può anche dire che esse sono il centro focale delle contraddizioni del mondo. Queste zone sono ‘l’anello più debole’ della catena imperialista e ‘l’epicentro’ della rivoluzione mondiale”5.
L’aggravamento delle criticità in questo focus riguarda in primo luogo l’oggetto principale delle mire imperialiste cioè il bottino ottenuto con lo sfruttamento e la spoliazione delle nazioni oppresse, oltre che il controllo monopolistico dei flussi finanziari, tecnologici e commerciali a livello globale. Ed è proprio perché oggi l’aggravarsi della crisi rende questo bottino sempre più necessario alla valorizzazione che le contese tra i diversi gruppi e formazioni imperialiste vanno a fomentare la guerra: guerra contro le nazioni oppresse (guerra per lo sfruttamento) e guerra per contenderne il controllo in contrasto con altri gruppi (guerra per la rispartizione) si intersecano in un groviglio di interventi diretti, economici e militari, rivolte popolari, guerre per procura.
Domino di conflitti nel Medioriente allargato
Questa acutizzazione della contraddizione imperialismo-popoli oppressi è un dato globale come evidenzia anche il caso dello sbarco di militari Usa in Yemen a fianco degli aggressori sauditi (marzo 2020) o quello del tentato sbarco di mercenari Usa in Venezuela contro la Repubblica Bolivariana (maggio 2020) avvenuti entrambi in piena pandemia.
In questo quadro globale per noi è prioritario guardare al Medioriente allargato, sia perché qui la guerra come livello di espressione delle contraddizioni è un dato purtroppo acquisito, raggiungendo il più alto grado di intensità e durata, sia perché il nostro imperialismo vi è impegnato direttamente, politicamente e militarmente (Afghanistan, Iraq, Libia, Libano, Sahel). È un’area che si estende dall’Afghanistan all’Algeria, dalla Turchia allo Yemen, dove vi è concentrata la maggiore produzione e le più grandi riserve mondiali di petrolio e una collocazione geopolitica che la vede collegare tre continenti (Asia, Africa ed Europa) ed essere circondata da cinque mari strategici in cui transita una buona quota del traffico mondiale non solo petrolifero (Golfo Persico, Mar Arabico, Mar Rosso Mediterraneo e Mar Nero).
Oggi è costellata da zone di grande destabilizzazione e di guerra vera e propria come quelle che si presentano nel nord della Siria, in Libia o in Yemen e da focolai che arrivano a interessare la Somalia e gli stati del Sahel.
È un area strategica per il controllo monopolistico della fonte energetica petrolifera. Questo non solo dal punto di vista del controllo diretto dei pozzi o dei flussi, come mostra il caso della guerra in Siria, dove l’intervento Usa ha l’obiettivo di spezzare la continuità della mezzaluna sciita, bloccando il flusso di petrolio iraniano verso il mondo arabo e l’Europa. Ma anche dal punto di vista delle quote e dei prezzi sul mercato in cui la guerra gioca il suo ruolo, sia come guerra economica delle sanzioni e dei blocchi (come quelli imposti dagli Usa all’Iran), sia da quello della guerra vera e propria come nel caso della Libia, dove la destabilizzazione ha drasticamente decurtato la produzione e la commercializzazione del miglior petrolio del mondo.
I focolai di guerra del Medioriente allargato sono numerosi. La questione fondamentale da più di settanta anni è sempre rappresentata dal conflitto israelo-palestinese, mentre quella principale è in questa fase rappresentata dal contrasto Israele-Iran. La super colonia sionista, che durante la pandemia non ha cessato le sue proiezioni terroristiche con ripetuti bombardamenti in Siria, a Gaza e in Libano, con la dichiarazione del governo Netanyahu di annessione della Cisgiordania (dal primo luglio 2020) ha affossato definitivamente l’utopia pacifista del “due popoli, due stati” come soluzione della cosiddetta questione palestinese. “Questione” che però si è prontamente fatta risentire nelle rivolte palestinesi contro l’annessione, che ne hanno di fatto bloccato l’esecuzione in un quadro in cui si aggrava grandemente l’oppressione del popolo palestinese e la crisi politica della borghesia compradora dell’Anp, a cui viene prospettata come unica strada percorribile la svendita tombale della causa della liberazione della Palestina.
Le potenze regionali in gioco, come Israele, Iran, Turchia, Arabia Saudita e Egitto, vanno intensificando la loro azione espansionista sulla spinta della crisi economica e delle contraddizioni interne e questo movimento trova terreno favorevole in conseguenza degli spazi lasciati dal disimpegno Usa (sempre più in crisi di egemonia e strategicamente più interessati al vecchio Pivot to Asia riedito come controllo dell’Indo-pacifico in funzione del contenimento della Cina). Tutti i quadranti del Medioriente allargato sono interessati da queste proiezioni espansive che si sviluppano sfruttando le contraddizioni “locali” per conquistare posizioni o contenere lo sviluppo dei concorrenti.
Il piano imperialista dominante, già delineato nel progetto di Trump (e del suo genero Kushner), prevede la costituzione di una sorta di Nato arabo-israeliana incentrata sull’entità sionista e coinvolgente oltre che Egitto e Giordania anche Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti6. L’accordo degli Emirati Arabi con Israele del 12 agosto 2020 per la strutturazione di rapporti economici e diplomatici è una tappa di questa strategia tesa a rilanciare la dominanza imperialista sulla regione, riempiendo il vuoto lasciato dal disimpegno diretto Usa con il coinvolgimento sempre più massiccio del sistema degli alleati regionali.
I palestinesi sono l’agnello sacrificale: non solo è negata qualsiasi prospettiva di Stato palestinese (trasformazione di Gerusalemme in capitale di Israele, nazionalizzazione sionista della Cisgiordania occupata), ma è raggiunto il massimo dell’ipocrisia con la svendita della loro causa come cemento egemonico di questa strutturazione. In realtà allo sceicco degli Emirati è stata accordata la foglia di fico della sospensione di un piano di annessione progressiva della Cisgiordania, che era già stato accantonato temporaneamente a causa delle rivolte di massa in corso, oltre a quelle prevedibili nell’immediato futuro, in una situazione complicata dalla pandemia galoppante e dalle titubanze e difficoltà interne dell’amministrazione Usa.
La potenza regionale da contenere è principalmente l’Iran, come si è rimarcato con l’assassinio ad opera degli Usa di Suleimani (3 gennaio 2020), grande coordinatore dell’azione politica e militare dell’alleanza sciita dall’Iraq al Libano, passando naturalmente per la guerra di Siria in cui le milizie sciite hanno dato un contributo fondamentale, a fianco dell’intervento diretto e risolutore russo, all’offensiva governativa che ha riconquistato il controllo su gran parte del territorio, nonchè grande nemico comune di sauditi e sionisti che certamente non sono estranei al suo omicidio. Un omicidio che si colloca nel pieno di una grande rivolta popolare contro la presenza Usa in Iraq, che era culminata nell’assalto all’ambasciata statunitense a Baghdad del 31 dicembre 2019 e che può essere considerato uno dei concreti atti costitutivi dell’accordo per la Nato araba.
Alleati di terra degli Usa, nel nord della Siria, sono i curdi la cui direzione ha la grave responsabilità di aver collocato le giusta e storica ragione della loro lotta, cioè quella di avere un proprio Stato, nell’alveo degli interessi Usa, trasformando la determinazione del popolo in risorsa per gli imperialisti. Una scelta tragica che i curdi rischiano di pagare con l’ennesimo tradimento e svendita della loro causa ad opera delle potenze occidentali, come si è già prospettato col ritiro delle truppe Usa dal nord della Siria che ha sdoganato l’invasione turca nell’ottobre 2019.
Il piano strategico statunitense trova una sua articolazione importante nella situazione libanese, dove l’obiettivo principale è l’eliminazione della forza politico-militare di Hezbollah, vero bastione antisionista, milizia popolare, uscita vittoriosa contro il tentativo di invasione israeliana del 2006. A questo scopo, in piena pandemia, la morsa finanziaria Usa e saudita ha fatto scivolare l’economia del Libano nel default (9 marzo 2020) provocando la svalutazione dell’80% della lira libanese, preludio di una ristrutturazione finanziaria gestita dal Fmi sotto l’egida degli interessi Usa, ma anche di Israele, Arabia Saudita ed Emirati.
La precipitazione della crisi libanese è in realtà una conseguenza diretta della crisi generale del capitalismo e del suo essere scaricata sulle formazioni del Tricontinente (come accade anche per quelle latinoamericane, Venezuela in primis). Questa gestione della crisi generale è utilizzata dagli imperialisti anche per dare forza al processo di ricolonizzazione. Una linea di ricolonizzazione che nella situazione libanese viene rilanciata in eseguito all’esplosione che ha devastato Beirut, il 4 agosto 2020, e portato alle dimissioni del governo, il 10 agosto. In questo scenario, va segnalato il rinnovato protagonismo della Francia, vecchia potenza coloniale del Libano, come ha evidenziato la repentina visita di Macron nel cratere del disastro il 6 agosto 2020 e la promozione di una video-conferenza internazionale per gli aiuti al Libano tenutasi il 9 agosto 2020. In seguito alla devastazione provocata dall’esplosione, con centinaia di vittime, migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati, miliardi di dollari di danni, la ricolonizzazione prende la forma di contributi e “aiuti umanitari”, miranti a rafforzare la presa imperialista e a spingere alla degenerazione dello scontro sociale scatenato dalla crisi (privilegiando cristiani e sunniti a scapito della popolazione schita) verso la deriva dei conflitti settari come da tradizione imperialista consolidata (dai Balcani, all’Iraq, alla Siria, ecc.).
Lo scoglio di Hezbollah è la concreta manifestazione delle difficoltà cui va incontro la ricolonizzazione, dal momento in cui essa deve fare i conti con la resistenza delle masse arabe che oggi in Libano si misurano con una situazione rivoluzionaria.
In questo quadro diventa sempre più problematica la situazione della missione Unifil a guida italiana, che attualmente dispiega una forza di interposizione di 1100 militari italiani nel Libano del sud per separare Hezbollah e l’esercito israeliano7. Usa e Israele hanno minacciato di togliere il loro appoggio al rinnovo della missione se nel suo quadro d’azione non viene contemplato il disarmo di Hezbollah. Cosa molto a di là delle possibilità politiche e militari del contingente italiano, che nella concreta possibilità del precipitare in una situazione di guerra civile, magari con l’aggiunta di un nuovo attacco israeliano, si troverebbe in una condizione davvero scomoda da cui defilarsi velocemente, pena il coinvolgimento in un conflitto di grandi proporzioni.
Il Libano subisce queste rinnovate “attenzioni” imperialiste perché ha una posizione strategica sempre più rilevante non solo in relazione della sua funzione storica di porta commerciale e finanziaria del Medioriente, ma anche perché recentemente nel Mediterraneo orientale sono stati rilevati grandi giacimenti di gas e petrolio (con riserve stimate in 3500 miliardi di metri cubi di gas) che già costituiscono un nuovo focolaio di tensioni che vede coinvolti da una parte Israele, Grecia ed Egitto e, dall’altra, la Turchia e il regime libico di Tripoli. Il grande assente è il diritto del popolo palestinese su queste risorse che gli sarebbero dovute anche nella visione più ristretta delle spettanze relative alla striscia di Gaza e che sono già state spartite tra Israele e Egitto.
L’espansionismo turco qui si misura con la presenza delle catena delle isole e isolette greche a ridosso della costa turca che rende intricata la delimitazione delle zone di competenza favorendo le rivendicazioni contrapposte. La catena del domino dei conflitti mediorientali vede così addirittura il contrasto tra due membri Nato come Grecia e Turchia arrivare fino alla minaccia militare diretta. Il 12 luglio 2020 si è addirittura verificata una collisione tra una fregata greca con una turca, facente parte di una flotta di 17 navi militari impegnata a coprire una nave di ricerca petrolifera turca che stava operando nella “Zona economica esclusiva” greca non riconosciuta da Ankara8.
Nell’escalation dell’estate 2020 sono naturalmente coinvolte anche le potenze imperialiste occidentali, in primis la Francia, gli Usa, ma anche l’Italia, con la massiccia mobilitazione di navi da guerra e cacciabombardieri in esercitazioni congiunte, che hanno visto anche la partecipazione dei gruppi navali delle portaerei francese De Gaulle, di quella statunitense Eisenhower e di due fregate italiane9 con la marina greca nel mar Egeo, il dislocamento di droni israeliani a Cipro e di cacciabombardieri F-16 degli Emirati Arabi a Creta il 21 agosto 2020. Il tutto a copertura e garanzia del lavoro in zona delle multinazionali petrolifere Total, Eni e Exxon Mobil che operano su mandato greco e del progetto di gasdotto EastMed di 1900 chilometri, che nel giro di tre anni dovrebbe collegare i giacimenti di gas con l’Italia passando per Cipro e la Grecia.
Altro fronte di guerra nel Mediterraneo è costituito dalla Libia, dove solo recentemente si è giunti ad un cessate il fuoco, frutto di un equilibrio militare tra le fazioni in lotta, raggiunto anche e soprattutto con l’interventismo di potenze straniere, in primis la Turchia “neo-ottomana” di Erdogan.
L’espansionismo turco, in contrasto con i piani “occidentali”, nel novembre 2019 ha promosso un accordo con il regime di al-Serraj (attuale rappresentante legale della Libia riconosciuto dall’Onu) teso a definire le aree di giurisdizione marittima. Un accordo che, oltre a promuovere attività di esplorazione marittima congiunta, punta ad acquisire una posizione decisionale e di veto sui gasdotti che attraverseranno l’area e a sdoganare l’intervento diretto turco a fianco di Tripoli. Con lo sbarco a Tripoli il 30 gennaio 2020 di centinaia di truppe regolari e 3500 miliziani jihadisti trasferiti dalla Siria, l’intervento turco ha rovesciato i rapporti di forza militari del conflitto costringendo alla ritirata l’offensiva del generale Haftar e arrivando a minacciare Sirte e la Cirenaica. Una controffensiva che ha costretto i sostenitori internazionali di Haftar a delle contromisure: l’Egitto del generale Al Sisi ha minacciato l’intervento diretto e la Russia ha inviato 6 Mig 29 trasferiti dal fronte siriano nel maggio 202010, in aggiunta ai 1200 miliziani del gruppo Wagner già inviati nel novembre 2019. Anche il protagonismo della Francia, nella lotta per il controllo del petrolio libico, si intensifica e si è sfiorato il confronto diretto tra una nave militare francese e una fregata turca il 15 giugno 2020.
La posta in gioco è in particolare il petrolio della “mezzaluna petrolifera” della Cirenaica e il controllo sull’insieme della produzione libica. Tutto ciò in un quadro in cui l’attività di estrazione e commercializzazione del petrolio gestita dalla Noc libica è appannaggio delle principali major occidentali: Eni e Total in testa, che qui si trovano in competizione tra di loro, con la prima che sponsorizza il regime al-Serraj e la seconda quello di Haftar.
L’imperialismo italiano mostra tutta la sua debolezza trovandosi dalla stessa parte della barricata dei turchi con cui invece è in contrasto nel Mediterraneo orientale e, contemporaneamente, contrapponendosi all’ingerenza degli interessi francesi nel suo “cortile di casa” nel momento stesso in cui nel Sahel, con la logica della “difesa avanzata”, partecipa con duecento soldati delle forze speciali alla “task force Tukuba” sotto comando francese11.
Come si diceva, l’intervento turco non è l’unico intervento diretto nello scenario libico. Nel campo delle alleanze di Haftar oltre alla Russia, che con centinaia di mercenari si costruisce un punto di appoggio in Nord Africa, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, già nel luglio 2019, hanno dichiarato di reclutare militanti dal Sudan e da altri paesi da inviare in sostegno del generale libico. Inoltre, nonostante l’embargo decretato dall’Onu, Arabia Saudita e Emirati hanno già inviato, tramite l’Egitto, migliaia di tonnellate di materiale bellico all’esercito di Haftar.
L’espansionismo guerrafondaio saudita ed emiratino ha comunque la sua più drammatica espressione nell’ennesimo tassello del domino mediorientale, costituito dalla tragedia della guerra dimenticata dello Yemen. Una guerra civile interna caratterizzata dall’intervento diretto di Arabia Saudita ed Emirati in appoggio al governo di Hadi contro l’insurrezione degli Huti appoggiati dall’Iran. Intervento che si protrae dal 2015 con massicci bombardamenti, che hanno portato distruzione, fame e morte alla popolazione, fino all’esplodere di una vera e propria crisi sanitaria con epidemie di colera, difterite e febbre dengue cui si aggiunge la pandemia del Covid.
La resistenza del popolo Huti era arrivata a colpire e distruggere con un attacco di droni la principale struttura petrolifera saudita nel settembre 2019 e, anche in seguito a ciò, l’ingerenza Usa ha compiuto un salto di qualità in piena pandemia, con lo sbarco ad Aden di centinaia di militari statunitensi il 18 marzo 2020, truppe di occupazione che combatteranno a fianco degli aggressori sauditi, aggiungendosi alle forze speciali inglesi (Special Boat Service) da tempo indeterminato impegnate in una operazione di guerra tenuta segreta.
In conclusione, nell’intrico di conflitti del Medioriente allargato, nell’epoca della pandemia, si evidenzia l’intreccio delle contraddizioni a partire da quella principale tra dominio imperialista e nazioni oppresse, come emerge chiaramente dalle rivolte popolari contro l’aggravarsi dell’oppressione e dello sfruttamento. Rivolte come in Palestina, Libano, Iraq, Yemen o in Mali che fanno i conti con truppe di occupazione, borghesie compradore corrotte e guerre settarie fomentate dai diversi oppressori imperialisti, in primis gli Usa e Israele, ma anche da attori regionali come Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Egitto e Iran.
L’espansionismo regionale che vede queste potenze minori prendere direttamente parte nelle diverse guerre mediorientali, (come nel caso di Israele in Siria e Libano, della Turchia nel nord della Siria, in Tripolitania e nel Mediterraneo orientale, dell’Arabia e degli Emirati in Yemen, dell’Egitto in Cirenaica, dell’Iran in Siria), mostra invece la contraddizione tra piccole potenze regionali alla ricerca di ampliare le rispettive aree di influenza per fare fronte all’aggravarsi della crisi che le caratterizza. Un espansionismo che può facilmente portare allo sviluppo di guerre regionali e scatenare un effetto domino di grande portata con il coinvolgimento di tutta l’area mediorientale.
Con questo espansionismo interagisce la contraddizione tra le potenze imperialiste globali come Usa e Russia (ma anche Cina) che si mostra nello sviluppo di piani egemonici, alleanze, sanzioni, uso di proxi-war e interventi diretti, con l’obiettivo di mantenere o rafforzare il loro dominio nel Medioriente allargato tramite riposizionamenti e contenimento reciproco.
Gli Usa cercano di contrastare le conseguenze del loro disimpegno strategico rilanciando una sorta di Nato mediorientale incentrata sull’asse Israele-Arabia Saudita, mentre la Russia, approfittando del disimpegno Usa, punta a riposizionarsi nell’area mediterranea come ha ottenuto prima con l’intervento diretto e risolutore in Siria e poi con l’invio di centinaia di mercenari in Libia a sostegno del campo di Haftar, paradossalmente dalla stessa parte dei sauditi con cui in Siria ha interessi e alleati antagonisti.
Il disimpegno Usa è la necessaria conseguenza dell’indebolimento della loro egemonia globale come tratto particolare della crisi generale del capitalismo. Debolezza che li spinge a concentrare maggior attenzione e risorse nel contenimento della Cina, il competitore strategico per la supremazia globale.
Guerra “fredda” tra vecchie potenze e potenze emergenti
Il caso Huawei mostra il livello raggiunto dalle tensioni tra i diversi gruppi della borghesia imperialista mondiale, in particolare tra la vecchia potenza egemone statunitense e la nuova potenza emergente cinese. Lo scontro tra l’amministrazione Usa e Huawei inizia già con Obama, che escluse la multinazionale cinese dagli appalti pubblici, ma con Trump compie un salto di qualità. Fin da subito Huawei e Zte (altra multinazionale cinese), accusate di lavorare in stretto rapporto con l’esercito cinese, sono state indicate come “minaccia per la sicurezza nazionale” precludendo loro l’accesso al mercato Usa (smartphone, 5G, ecc.).
Fallito il tentativo di costituire un fronte occidentale anti Huawei per le titubanze della Ue che non li segue, gli Usa rilanciano facendo arrestare in Canada, nel dicembre 2018, l’amministratore delegato della multinazionale cinese, con l’accusa di non avere rispettato le sanzioni imposte contro l’Iran; e con l’inclusione della società di Shenzen nella “Entry list” (lista nera che obbliga le aziende Usa a chiedere il consenso governativo per lavorare con imprese che vi siano incluse). In conseguenza di questa ultima misura le imprese Usa sono indotte a interrompere i rapporti diretti con Huawei, cosa che si verifica fin da subito per Google, produttore di software, e Qualcomm, produttore di chip.
Il focus dello scontro è il controllo monopolistico della tecnologia 5G che apre la strada ad un grande salto generale di composizione organica di capitale nel quadro della riorganizzazione complessiva della produzione e del controllo su scala globale (Industria 4.0, ecc.). Per gli Usa è la via maestra per cercare di uscire dalla crisi di sovraccumulazione di capitali, una via che vogliono tracciare sulla base dei propri interessi e mantenere sotto il loro controllo monopolistico in funzione strategica, all’insegna della trumpiana “America first”. Per i cinesi, che la hanno già imboccata con Huawei e Zte in prima fila tra le cinque grandi imprese che si contendono il mercato globale, assieme alle europee Nokia ed Ericsson e alla statunitense Cisco12, rappresenta la strada da percorrere come potenza emergente che persegue l’autonomia tecnologica fino a conquistare il primato mondiale.
Non si tratta semplicemente di una guerra commerciale, ma di una battaglia fondamentale nell’ambito di un confronto strategico che va a ridefinire l’assetto globale. La linea monopolista statunitense fa i conti con la difficoltà di azzerare il vantaggio cinese: Huawei controlla il 30% del mercato 5G ed ha due anni di vantaggio nei confronti degli altri concorrenti. Le forti pressioni Usa portano allo schierarsi degli alleati più stretti, prima Australia e Giappone e, tra alterne decisioni, anche l’Inghilterra di Johnson lo scorso luglio, scelgono di escludere Huawei dallo sviluppo delle loro reti 5G.
Si vanno così delineando nel mondo due linee di sviluppo tecnologico contrapposte, una separazione che ha alla base la competizione tra monopoli e il cui tratto principale è il venir meno del primato tecnologico Usa e il delinearsi a livello globale di due filiere del valore separate e contrapposte in un settore di grande rilevanza strategica, mostrando il punto in cui è giunta la contraddizione tra vecchie e nuove potenze imperialiste.
Nella “nuova guerra fredda” per l’egemonia mondiale lo schieramento dei sistemi 5G contrapposti svolge una funzione di delimitazione delle zone di influenza come a suo tempo lo schieramento di missili nella vecchia Guerra Fredda tra Usa e Urss. Questa potenzialità del 5G nella lotta per la supremazia tecnologica è connessa al controllo della rete globale di comunicazione, di cui una parte fondamentale è costituita dalla produzione e messa in opera di cavi sottomarini, settore nel quale la Cina ha da tre anni rotto il monopolio Usa.
In questo contesto l’Europa è terreno di scontro come si vede dalla titubanza delle decisioni dell’Ue che si limitano a fornire indicazioni e suggerimenti riguardanti il tema del Golden Power agli Stati membri, nell’ottica della diminuzione della dipendenza da Huawei e del rafforzamento delle industrie europee del 5G (gennaio 2020).
Lo sviluppo del Golden Power, cioè di un potere speciale esercitato dai governi per tutelare da intromissioni e scalate esterne le imprese nazionali appartenenti a settori che hanno “rilevanza strategica”, sta coinvolgendo praticamente tutte le formazioni avanzate. Oltre agli Usa, la Germania, la Francia, la Spagna e l’Italia, nel luglio 2020, hanno approvato, approfittando della pandemia, misure relative al Golden Power, le quali prevedono l’estensione dei settori interessati: ai classici della difesa, telecomunicazioni, media, aerospaziale, se ne aggiungono di nuovi come quelli “dual use”, cioè con ricadute sia civili che militari, ad esempio, i settori finanziario (banche e assicurazioni), energetico, biotecnologico, intelligenza artificiale, big data, navigazione satellitare e sistemi di tracciamento, ma anche sanitario (ricerca vaccino) e alimentare.
Un rilancio di protezionismo dovuto alle impellenti necessità di posizionamento strategico che si impongono a tutti con il precipitare della crisi generale provocato dal Covid19 in un mondo ormai multipolare.

La “guerra dei vaccini” è un riflesso particolare di questa situazione generale. Nell’ambito della pandemia, con la corsa per il vaccino, si ridefiniscono le filiere sanitarie ed emerge il dato della loro militarizzazione come evidente nel caso cinese con l’affidamento della ricerca all’esercito. Nella corsa al vaccino, oltre a Usa e Cina, sono scese in campo Germania, Russia e Israele e in seguito anche Spagna e Francia.
La conquista del primato sul vaccino, e quindi del brevetto, oltre alla posizione di vantaggio in un business che si prefigura colossale, assicura un’ipoteca sulla sua produzione e gestione, equivalendo così all’acquisizione di una nuova arma geostrategica. Va considerato che il vaccino non sarà disponibile per tutti fin da subito e la sua distribuzione potrà essere orientata a vantaggio, oltre che della propria popolazione, anche di quelle dei paesi alleati e a discapito dei concorrenti, ridefinendo anche le sfere di influenza e le alleanze. La battaglia per il controllo monopolistico della ricerca ha visto operazioni finanziarie spregiudicate, come il tentativo di acquisire la società tedesca CureVac da parte di Trump, contrastato sempre sul piano finanziario dalla Ue, o l’offerta cinese per una partecipazione azionaria nella società tedesca BioNTech.
In controtendenza con la propria linea, l’amministrazione Trump ha dovuto porre un freno alla guerra commerciale con la Cina tramite l’accordo di tregua del gennaio scorso. Il presupposto economico è che il deficit commerciale Usa con il mondo non è diminuito dopo due anni di dazi e quello politico è dato dall’imminenza delle elezioni presidenziali in Usa. Elezione su cui incombe il baratro della recessione, non certo cosa di buon auspicio per la riaffermazione di Trump. La disponibilità cinese all’accordo mostra che Pechino ne valuta favorevolmente la rielezione, considerando l’incompetente e divisivo presidente Usa il miglior avversario possibile13.
D’altra parte il disallineamento economico Usa-Cina non è certo la soluzione, ma solo la conseguenza della crisi dell’economia statunitense. La caduta del Pil Usa, aggravata dalla pandemia, stimata al 33,9% nel secondo trimestre 2020, è di gran lunga la più grave dalla Seconda guerra mondiale e nelle ipotesi migliori avrà un recupero difficile e lungo14, mentre il recupero cinese è già in atto con il Pil che nello stesso trimestre è addirittura cresciuto del 3,2%15.
Sono dati che fotografano bene le conseguenze della rottura del grande circolo virtuoso finanziario, produttivo e commerciale che aveva permesso la ripresa Usa e occidentale degli anni ‘90, tramite la cosiddetta economia del debito, e la grande crescita cinese. Il circolo virtuoso Usa-Cina contemplava l’apertura della Cina agli investimenti esteri Usa e del mercato Usa alle merci cinesi, con il compendio del finanziamento del debito Usa con riserve finanziarie cinesi.
La rottura del circolo ha come conseguenza il rilancio del reshoring delle imprese Usa, Ue e giapponesi e con la pandemia il processo ha avuto una brusca accelerazione. Bank of America stima che con l’emergenza sanitaria l’80% delle imprese ha avuto problemi alle catene di approvvigionamento principalmente per i lockdown cinesi e questo sta innescando una vera e propria fuga dalla Cina che coinvolge il 75% di esse16.
Altra conseguenza è il complicarsi del problema del finanziamento del debito Usa a cui viene meno il contributo cinese, oggi attestato a mille miliardi di dollari (a fronte dei 1300 del 2013). E questo proprio nel momento in cui la Fed aumenta l’indebitamento, oggi arrivato a 21,2 mila miliardi di dollari, emettendo denaro a ritmi forsennati nel tentativo di fare fronte alla recessione: nel primo trimestre le emissioni hanno superato 2 mila miliardi di dollari17.
Si approfondisce così la crisi del dollaro nella funzione di denaro mondiale, sia come riserva di valore che come moneta per gli scambi. Russia e Cina da tempo hanno smesso di tesaurizzare dollari e acquistano al suo posto euro o oro18 e più recentemente hanno annunciato di aver dimezzato l’uso del dollaro come moneta per le loro transazioni commerciali19.
La crisi del dollaro in quanto moneta fiduciaria va di pari passo alla crisi di egemonia Usa e alimenta il contrasto Usa-Cina, che si sta travasando dal disaccoppiamento economico allo scontro strategico nella forma della guerra fredda. Una tendenza che sul piano diplomatico si già è mostrata con la “guerra dei consolati” di fine luglio, che ha visto prima la chiusura del consolato cinese a Houston su ordine del governo Usa, e in risposta la decisione cinese di chiudere il consolato statunitense a Chengdu.
Il principale scenario della guerra fredda tra la vecchia potenza egemone in crisi e la nuova potenza emergente è l’area che recentemente ha trovato la definizione di Indo-Pacifico.
Il traballante equilibrio nell’Indo-Pacifico
I piani di contenimento Usa della proiezione cinese hanno come condizione il pieno controllo dell’area che va dal golfo di California al golfo del Bengala, passando per Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Mar Cinese, Filippine, Indocina e Indonesia. Il centro strategico dell’area è il Mar Cinese, un vero e proprio Mediterraneo asiatico attraversato da rotte che collegano tutti i cinque continenti in cui si stima passi la metà del traffico merci del mondo e un terzo di quello petrolifero, con il 70% di quello destinato in Cina che passa per lo stretto di Malacca.
Le risorse dei paesi che lo circondano – Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania, Cambogia, Papua, Timor est – organizzati nell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), con il loro Pil complessivo di 3 mila miliardi di dollari (circa il 4% del Pil mondiale) costituiscono solo una delle ragioni del confronto Usa-Cina. Qui infatti la contraddizione interimperialista sta diventando principale perchè la Cina, per dare continuità alla sua “crescita armoniosa”, deve strappare il Mediterraneo asiatico al controllo Usa.
La strategia statunitense punta al contrario a consolidare la presa sull’area per contenere e farvi infrangere l’espansione cinese attraverso una cintura di alleanze militari e il predominio su mari e stretti. Il “Pivot to Asia” di obamiana memoria, nella versione trumpiana vede l’acuirsi di un confronto diretto con esercitazioni militari contrapposte e la concentrazione in zona di portaerei Usa, approdatevi nei mesi scorsi. Gli episodi di scontro navale non mancano in un quadro di alleanze che vede gli Usa farsi paladini dei diritti marittimi di Filippine, Indonesia e Vietnam, oltre che di Corea del Sud e Taiwan, contro le cosiddette pretese cinesi.
Il fragile equilibrio, fin qui mantenuto, che vedeva le economie degli Stati dell’Asean svilupparsi nell’alveo della “crescita armoniosa” cinese, ma sotto “protezione” strategica Usa, rischia di rompersi in uno scenario caratterizzato dalla presenza di quattro focolai di tensione: oltre agli storici Corea e Taiwan anche Mar Cinese orientale e meridionale (isole Senkaku, Spratly e Paracelso).
Il disaccoppiamento economico Usa-Cina rischia di avere qui degli effetti dirompenti. Con la rottura delle catene del valore e il conseguente reshoring, anche giapponese, aggravatasi con la pandemia, si assiste a un riflusso degli investimenti esteri Usa dalla Cina verso il Vietnam, l’Indocina e l’India, con una ricollocazione che rinsalda la presa Usa sull’area e ne alimenta il rilancio con il tentativo di interrompere lo sviluppo delle “Vie della seta” cinesi.
Il piano egemonico Usa cerca un rafforzamento nella costruzione di un asse anti-cinese che vede il difficoltoso coinvolgimento (nell’ambito dell’accordo del Quadrilateral security dialogue detto Quad) di Giappone, Australia e India. Il Quad prefigura un sistema di alleanze in funzione anticinese che abbraccia tutto l’Indo-Pacifico, ma è fortemente depotenziato da interessi non sempre convergenti. Soprattutto dalla indisponibilità dei partners, fino ad ora, a seguire gli Usa in un’avventura bellica che veda lo scontro diretto con la Cina, in una situazione che ha visto fin qui svilupparsi le loro economie in sinergia con la “crescita armoniosa” di Pechino20.
Vero scontro militare diretto è stato comunque quello tra Cina e India del 15 giugno 2020 nella regione di Ladakh (Himalaya), con decine di morti, in una zona in cui la Cina va a consolidare il controllo del Tibet e del Xingkiang a tutela dello sviluppo delle “Vie della seta”. Tuttavia il campo di scontro principale è quello del controllo degli stretti, in primo luogo quello di Malacca, e delle risorse del Mar Cinese dove si assiste ad una vera e propria corsa agli armamenti navali, cadenzata da “incidenti”, come l’affondamento cinese di una nave vietnamita al largo delle isole Paracelso il 3 aprile 2020, esercitazioni minacciose e grande schieramento di navi da guerra Usa, ma anche indiane, giapponesi e australiane lungo tutto il periodo della pandemia.
La supremazia navale Usa è stata ribadita dalla convergenza nell’area nel giugno 2020 di ben tre portaerei con i loro gruppi navali di scorta: la Reagan nel Mar Cinese orientale, la Nimitz e la Roosvelt a incrociare all’altezza degli sbocchi di quello meridionale, con l’ultima colpita da focolaio di Covid19 al largo dell’isola Guam21. La proiezione strategica cinese è basata sul riarmo navale incentrato sul varo di sette portaerei entro il 2025, di cui due operative entro il 202022, e sul dispiegamento di un missile ipersonico antinave (missile balistico Dong-Feng21) in grado di colpire e distruggere una super portaerei nel raggio di duemila chilometri dalla costa cinese, proprio la distanza utile a coprire le aree marine oggetto di scontro e rivendicazione da parte della Cina23.
La propensione alla guerra da parte degli Usa, spinti dalla crisi della loro egemonia globale a far valere la loro grande supremazia strategica prima che essa venga vanificata dalla progressione cinese, fa i conti con la mancanza di attori locali disponibili a scontrarsi direttamente con la potenza cinese. Giappone, India e Australia sono restii e gli Stati dell’Asean la vedono come prospettiva assolutamente da evitare perché devastante per il loro progresso economico.
Resta la possibilità concreta dello scontro diretto tra le super potenze nella forma della battaglia aeronavale, in un quadro in cui i pretesti non mancano, come mostra anche la gestione occidentale del caso della rivolta anticinese di Hong Kong, ma più ancora la mina della questione irrisolta di Taiwan che la Cina considera sua parte integrante. Possibilità decisamente concreta come mostra bene l’incidente dello sconfinamento di un aereo spia U-2 Usa nella no-fly zone cinese al largo di Pechino e la successiva risposta con il lancio di due missili balistici antinave nel Mar Cinese Meridionale il 26 agosto 2020.
Uno scontro che, vista la propensione storica degli imperialisti statunitensi di rovesciare all’esterno le loro crisi interne, potrebbe trovare sviluppi concreti anche come carta da giocare da parte dell’amministrazione Usa, nell’ambito della campagna elettorale allo scopo di favorire la riconferma di Trump.
Deglobalizzazione o rottura della globalizzazione?
Assieme al disaccoppiamento economico e al confronto strategico Usa-Cina, il quadro globale, ormai multipolare, mostra la tendenza delle vecchie potenze, che sprofondano nella crisi di sovraccumulazione di capitale, a procedere in ordine sparso.
La pretesa degli Usa di ribadire la loro presa strategica sul vecchio continente, ben espressa nell’esercitazione Defender Europe 2020, ha fatto i conti, oltre che con la pandemia che ne ha ridimensionato drasticamente la portata, con la freddezza tedesca24.
Nella Ue, indebolita dalla Brexit, fatica a riemerge il protagonismo franco-tedesco per lo sviluppo di una difesa comune, mentre la crisi della Nato arriva fino al confronto navale diretto tra fregate appartenenti a due suoi membri quali la Francia e la Turchia, l’unica potenza nucleare Ue da una parte e il secondo esercito Nato dopo gli Usa dall’altra.
A dimostrazione di questo disallineamento delle potenze “occidentali”, oltre alla guerra dei dazi sul piano economico, su quello strategico arriva la conferma del ridimensionamento della presenza militare Usa in Germania con una riduzione del 30%, da 36 mila a 24 mila unità25.
La linea dell’America first, con la strategia trumpiana fondata sui negoziati bilaterali, dazi e sanzioni, il disimpegno militare Usa in Europa, Medioriente e Nord Africa, nonchè i contrasti antagonistici tra Usa e Cina nelle catene del valore globali, approfondiscono la distinzione tra gli stessi vecchi interessi comuni occidentali e rilanciano il carattere multipolare della dimensione globale.
Non siamo di fronte alla semplice prospettiva della deglobalizzazione, ma alla possibilità concreta di una rottura della vecchia globalizzazione, cioè di quello sviluppo, strutturato unitariamente, del mercato mondiale che aveva visto il suo punto più alto nell’istituzione del Wto (World Trade Organization fondato nel 1995), istituzione che oggi sembra condannata ad una crisi irreversibile26.
Il problema è che nelle condizioni che si sono poste nella fase imperialista del capitalismo non esiste la prospettiva di una “normalità” deglobalizzata, cioè di uno sviluppo autocentrato delle diverse formazioni imperialiste. Quella che è stata definita globalizzazione, ovvero uno sviluppo strutturato del mercato mondiale, è il piano dato e ormai necessario della valorizzazione; le linee di frattura che oggi si aprono al suo interno sono conseguenza dell’avvitamento della crisi generale e mostrano l’acuirsi delle tensioni che gravano sulla “catena imperialista”, essendo il presupposto del suo travasarsi in lotta tra i diversi gruppi imperialisti con le loro sovrastrutture politico-strategiche: una lotta per l’egemonia su tutti i piani, da quello globale e quelli regionali.
Nello scenario dei prossimi anni, la guerra in tutte le sue forme sarà sempre più lo sbocco “naturale” dei contrasti tra i diversi gruppi imperialisti che già vi coinvolgono e ancor di più vi coinvolgeranno interi popoli, massacrandoli direttamente o portando al macello milioni di persone in conflitti più o meno estesi.

Ed è in questo scenario che è destinato a svilupparsi il protagonismo delle masse. La crisi e la guerra approfondiscono la situazione di instabilità, in particolare dell’anello debole della catena imperialista rappresentato dalle nazioni oppresse. Qui le masse fanno i conti direttamente con la guerra, si rivoltano contro i blocchi economici, i tentativi di invasione, le truppe di occupazione e i regimi corrotti della borghesia compradora imposti dagli imperialisti. Un quadro di rivolte che interessa l’intero Tricontinente, come mostra l’ampio ventaglio di casi che va dall’Ecuador, al Cile, dall’Iraq al Libano, dallo Yemen al Mali, solo per citare i pochi che negli ultimi tempi sono riusciti a sfondare la coltre di silenzi dei massmedia mainstream.
Un protagonismo delle masse che arriva ad investire anche i centri imperialisti, come mostra il caso del ciclo di rivolte antirazziste e contro la polizia in Usa all’insegna del Black lives matter, le quali si sono sviluppate in piena pandemia, in oggettiva contrapposizione alle spinte guerrafondaie principalmente dei circoli imperialisti Usa, costituendone un forte fattore frenante in aggiunta ai movimenti di resistenza contro la guerra e la conseguente militarizzazione dei territori, di cui un esempio di casa nostra è il movimento No Muos in Sicilia.
In particolare nell’anello debole delle formazioni sociali delle nazioni oppresse si va approfondendo una situazione rivoluzionaria nel senso della definizione datane da Lenin27.
In questo contesto, oltre al dato che le masse non vogliono più sottostare all’oppressione, si aggiunge drammaticamente quello che gli “strati superiori” non possono più procedere come prima e la guerra ne è una tragica evidenza. In queste formazioni le rivolte contro l’oppressione imperialista e le sue conseguenze indicano la via del rovesciamento della guerra in lotta rivoluzionaria.
Lo sviluppo della solidarietà con queste rivolte e con la resistenza antimperialista costituisce oggi una parte fondamentale del lavoro dei comunisti in tutto il mondo. Questa lotta contro l’imperialismo da parte dei popoli oppressi è infatti l’espressione positiva della contraddizione ancora principale (imperialismo-nazioni oppresse) in questa fase della crisi del capitalismo globalizzato. Una solidarietà concreta da sviluppare nell’ottica del fronte antimperialista, riferendosi principalmente alle avanguardie comuniste e proletarie che hanno parte attiva nella resistenza dei popoli del Tricontinente e, per quanto ci riguarda più direttamente, dell’area mediterranea e del Medioriente, con particolare attenzione alla resistenza palestinese da sempre all’avanguardia in questo contesto.
L’indicazione principale da assumere è quella della lotta in primo luogo contro il nostro imperialismo, il suo sistema di alleanze e l’imperialismo che ne è egemone, che nel nostro caso è quello Usa, ancora dominante anche se in declino a livello globale. Questa chiarezza fondamentale è resa sempre più necessaria dall’emergere preponderante delle contraddizioni interimperialiste che coinvolgono sia le grandi che le piccole potenze. Contraddizioni che spingono i diversi gruppi a fomentare guerre per procura, come in Siria o in Libia, ma anche a utilizzare strumentalmente le ragioni delle rivolte come nel caso dei curdi, diventati proxi warriors Usa nella guerra siriana, o in quello della rivolta di Hong Kong, appoggiata dagli occidentali per complicare le cose nel fronte interno cinese, a cui si aggiunge più recentemente l’appoggio alle contestazioni contro il regime bielorusso per destabilizzare il campo di alleanze di Putin, proseguendo la storica linea Nato dello sfondamento ad est.
In sintesi, si può dire che, in questo contesto di veloce sviluppo della tendenza alla guerra, la contraddizione imperialismo-popoli oppressi ci indica il contenuto dell’appoggio alla lotta antimperialista dei popoli, mentre le contraddizioni interimperialiste rafforzano la necessità di contrastare i piani del nostro imperialismo e quelli dell’imperialismo egemone nel suo campo di alleanze.
La linea particolare da sviluppare è quella di sostenere il movimento contro la guerra imperialista in tutte le sue forme, collegandolo organicamente alla lotta che la classe operaia e le masse popolari nel nostro paese conducono contro le conseguenze delle crisi generale e i provvedimenti che la borghesia già prende, e prenderà in misura maggiore in futuro, per salvaguardare i propri profitti, a scapito delle loro condizioni di lavoro e di vita.
Terreni di azione a riguardo sono quelli già indicati da iniziative di mobilitazione e di lotta, come in particolare la promozione e il sostegno alla mobilitazione studentesca contro la ricerca bellica (anche nella sua versione “dual use” cioè con ricadute sia civili che militari) in cui sono impegnate le università italiane, e la resistenza popolare alla militarizzazione dei territori e contro le basi per la guerra, che si è ben espressa nelle mobilitazioni No-Muos.
Se riusciremo a fare passi in questo lavoro legandoci alle masse e accumulando forza ed organizzazione comunista, sicuramente non fermeremo la guerra imperialista, dato che essa è un tratto fondamentale della crisi generale, ma porteremo il nostro modesto contributo al fine di costruire le basi sulle quali la guerra degli imperialisti possa rovesciarsi in lotta rivoluzionaria delle masse, avviando una nuova ondata della rivoluzione mondiale. Questa è l’unica via che può fare uscire l’umanità dalla barbarie in cui la sta portando la crisi generale del modo di produzione capitalistico.

Note
1 In questa nostra epoca la tendenza alla guerra ha trovato il massimo sviluppo storico proprio in conseguenza delle crisi più gravi della fase imperialista, avendo come esempio più tragico la Seconda guerra mondiale scatenatasi in seguito al protrarsi della grande recessione iniziata con la crisi del ‘29
2 Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Opere scelte, Roma 1965, p. 616
3 S. Amin, “L’accumulazione su scala globale”, Paris, 1970, p. 32
4 R. Guastini, “Formazione imperialistica mondiale e le contraddizioni della nostra epoca”, in La classe, n° 6 novembre 1972, p. 4
5 Mao Tze Tung “Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi”, 1963
6 Vedi A. Negri, Emirati-Israele, una pace che prepara la guerra, quotidianodelsud.it, 13 agosto 2020
7 La missione Onu, già istituita nel 1978 in seguito ad invasione israeliana, è stata ridefinita nel 2006 dopo la controffensiva vittoriosa di Hezbollah che ha visto la sconfitta e la ritirata dell’esercito sionista invasore. La missione deve essere rinnovata ogni anno con scadenza 31 agosto.
8 Remocontro, Guerra del gas, Grecia e Turchia collisione tra navi militari – Nato silente, vertice Ue- Francia manda navi e aerei, remocontro.it,15/82020
9 Vedi Redazione Analisi difesa, Tensioni nel Mediterraneo Orientale: la fregata (FREEM) Fasan a Cipro, analisidifesa.it, 8/2/2020
10 Vedi Redazione Analisi Difesa, I caccia russi in Libia inaspriscono il confronto con gli Usa, analisidifesa.it, 27/5/2020
11 Si tratta di una vera e propria truppa di occupazione in una regione particolarmente ricca di uranio per il cui controllo Parigi ha già dispiegato dalla Mauritania al Ciad i 5.100 uomini della missione Barkhane a puntello dei regimi della borghesia compradora della France-Afrique destabilizzati dalle rivolte popolari
12 Vedi Usa contro Cina, Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2019
13 Vedi F. Cirillo, Guerra commerciale con gli Usa: alla Cina conviene l’elezione di Trump?, notiziegeopolitiche.net, 21/7/2020
14 Vedi M. Valsania, Stati Uniti, il Pil crolla del 32,9%, Il Sole 24 Ore, 30/7/2020
15 Vedi R. Fatiguso, In Cina il Pil torna a correre, Il Sole 24 Ore, 16/7/2020
16 Vedi C. Merico, Fuga dalla Cina, per BofA il reshoring costerà 1 trilione di dollari alle aziende. Ma pagherà nel lungo termine, it.businessinsider, 21/8/2020
17 Vedi Agenzia Sputnik, Prepararsi al peggio: la Cina vende il debito pubblico Usa per via della svalutazione del dollaro, itsputniknews.com, 12 giugno 2020
18 Vedi S. Bellomo, Cina e Russia scaricano il dollaro, Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2019
19 Vedi Agenzia Sputnik, Nuova alleanza finanziaria tra Russia e Cina, itsputniknews.com, 18 agosto 2020
20 Vedi F. Petroni, Quad vadis? L’asse anticinese per ora non esiste, Limes n. 6, 2020, p. 75
21 Il comandante della Roosvelt, il capitano Crozier, è stato poi rimosso dall’incarico per aver reso pubblica l’infezione
22 Vedi A. Gaspardo, Il programma delle portaerei cinesi, difesaonline.it, 13/5/2019
23 Vedi Focus, Portaerei Usa nel mirino dei missili cinesi, focus.it, 6/8/2010
24 Vedi Antitesi n°8, p. 9
25 Vedi R. Alcaro, Poco realismo e molta ideologia dietro la riduzione delle truppe Usa in Germania, affarinternazionali.it, 4/8/2020
26 Dal 11 dicembre 2019 il Wto, già gravemente in crisi a causa dell’escalation di sanzioni, dazi e accordi bilaterali, è di fatto azzerato in tutte le sue funzioni più importanti a causa del blocco della nomina di quattro giudici della sua Corte di Appello messo in atto dall’amministrazione di Trump. Vedi Treccani, La paralisi dell’Organizzazione mondiale del commercio, treccani.it,12 dicembre 2019
27 Vedi qui sopra la manchette sulla situazione rivoluzionaria
La guerra dei cavi Usa-Cina
La struttura della rete globale di comunicazione è attualmente composta da 16 Data Centerdislocati in Usa, Europa, Asia e America Latina, collegati da un’amplissima rete sottomarina di cavi che si stima si estenda per 900 mila chilometri (due volte e mezzo la distanza Terra-Luna).Dal 2017 la Cina ha rotto il monopolio Usa diventando un pericoloso competitore nelle infra-strutture sottomarine. Internet infatti non è un ambito sovranazionale “neutro”, ma un terreno di scontro monopolistico, le infrastrutture della telecomunicazione sono strumento di moltiplicazione della potenza economica e militare. Huawei Maine Network Co, divisione per i cavi sottomarini della multinazionale cinese, ha posato recentemente un cavo di 6 mila chilometri tra il Brasile e il Camerun e sta lavorando alla costruzione della rete Peace (Pakistan and East Africa Conneting Europe) per collegare Asia, Africa ed Europa. Inoltre porta avanti 90 progetti di sviluppo della rete dei cavi sottomarini nel mondo.In questa guerra dei cavi è già stato documentato anche un episodio di sabotaggio con il taglio doloso del cavo di collegamento Europa-Africa avvenuto nel 2013 nel Mediterraneo. Lo stesso braccio di ferro nel Mediterraneo orientale, oltre al controllo sullo sfruttamento dei giacimenti di gas e la posa di gasdotti verso l’Europa, vede anche l’ostruzionismo turco alle operazioni di co-struzione del Quantum Cable, un cavo di collegamento dalla capacità di 160 terabit al secondo (un record nel trasferimento di dati) che collegherà Israele, Cipro, Grecia, Italia, Francia e Spagna escludendo la Turchia (Dati tratti da G. Gagliano, La guerra dei cavi Usa-Cina, osservatorioglobalizzazione.it, 24/8/2019 e da L. Vita Il cavo che scatena l’ira del Sultano, insideover.com, 20/9/2020)
La situazione rivoluzionaria
“Per il marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non sia possibile senza una situazione riv-oluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sbocchino nella rivoluzione. Quali sono, in generale, i segni di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliare a indicare questi tre segni come i segni principali: 1) Le classi dominanti non riescono più a conservare il loro potere senza modificarne la forma; una crisi negli «strati superiori», una crisi nel sistema politico della classe dominante, che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che «gli strati inferiori non vogliano più» continuare a vivere come prima, ma occorre anche che «gli strati superiori non possano più» vivere come per il passato. 2) Un aggravamento, maggiore del solito, dell’oppressione e della miseria delle classi oppresse. 3) In forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali in un periodo «pacifico» si lasciano depredare tranquillamente, ma in periodi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi «strati superiori», ad un’azione storica indipendente.Senza questi cambiamenti oggettivi, indipendenti dalla volontà non soltanto dei singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti oggettivi si chiama situazione rivoluzionaria”[Lenin, Il fallimento della II Internazionale, Opere, vol. 21, pag. 191].
Militarizzazione di Lampedusa
L’isola di Lampedusa, al centro del Mediterraneo, può tristemente vantare uno dei più alti indici di militarizzazione rispetto all’estensione del suo territorio e il numero di abitanti.Nell’ultimo anno, con una inaugurazione in pompa magna alla presenza dei vertici politici e militari dello Stato italiano e delle società Leonardo Finmeccanica e Vitroset, è stato messo in funzione un nuovo radar Fadr (Fixed Air Defence Radar, modello RAT–31DL), con funzioni di sorveglianza a lungo raggio (oltre 470 chilometri), operante in banda D. Quello di Lampedusa è uno dei 12 siti in cui verranno installati i nuovi radar con un contratto per le aziende coinvolte di 260 milioni di euro. Il Fadr risponde alla stessa logica del Muos di Niscemi: la superiorità militare nelle guerre del terzo millennio sarà garantita dalla velocità con cui si ricevono informazioni e si danno i conseguenti comandi, così come spiegano i manager di Leonardo: “è stato sviluppato per rispondere ai futuri bisogni della difesa, dove la superiorità delle informazioni e dei comandi giocherà un ruolo sempre maggiore”. Il sistema sarà in grado di intercettare i segnali radio di aerei e missili anche a basse frequenze.Queste caratteristiche tecniche hanno fatto sollevare molti dubbi sui pericoli che l’emissione di queste onde avrà sulla popolazione. Massimo Coraddu, ricercatore del Politecnico di Torino, ne denuncia la potenzialità nociva lamentando che tuttavia non esistono dati pubblici, né saranno forniti, sulle emissioni elettromagnetichee i livelli di irraggiamento nel territorio circostante. Di fatto però, a Borgo Sabotino (LT) dove il sistema radar è già in funzione, si è verificato un malfunziona-mento degli impianti elettronici di uso comune tra la popolazione. Lo stesso Movimento 5 stelle, che adesso, con le dichiarazioni del sottosegretario pentastellato Angelo Tofalo, difende il progetto esaltandone l’italianità, aveva in passato denunciato con un’interrogazione parlamentare i rischi per la salute dei cittadini dell’impianto laziale.L’impianto è collocato all’interno della ex base Nato-Stazione Loran oggi sotto il comando della 134 squadriglia radar remota dell’Aeronautica Militare, presente sull’isola sin dal 1958.Dal 1972 Lampedusa è considerata strategica dalla Nato per il controllo del Mediterraneo e in particolare della zona nordafricana. Il valore strategico della posizione dell’isola diventa vitale durante la crisi con la Libia del 1986; da quel momento in poi la popolazione ha dovuto subire l’in-stallazione di sistemi di controllo radar sempre più avanzati e nocivi e la militarizzazione di grosse porzioni di territorio.
Ad oggi sono presenti sull’isola:
– 9º N.C.R. – Nucleo controllo e ricerca (Fino al 2007 7º D.A.I. – Distaccamento autonomo inter-forze). Si occupa principalmente di questioni di intelligence e guerra elettronica
– 2 caserme dell’Aeronautica Militare
– Esercito italiano
– Guardia di Finanza (2 caserme – Con propri mezzi militari tra cui radar a terra e radar sulle ve-dette)
– Guardia Costiera (1 caserma – con propri mezzi)
– Carabinieri (1 caserma – con propri mezzi)
– Polizia
– Frontex (agenzia europea sull’immigrazione): usa in maniera informale l’ex stazione dell’aeroporto e uno spazio della pista aeroportuale, da dove parte il drone Falco Evo utilizzato per il controllo dei flussi di emigranti, che risponde alla nuova strategia di fermarli prima della partenza dall’Africa del nord
– Militari di diversi corpi speciali
Presenza massiccia di Ong. Queste ultime hanno una posizione controversa e negli ultimi tempi il loro rapporto con la popolazione si è molto deteriorato, sino ad arrivare al boicottaggio per l’affitto di alloggi ai lavoratori delle Ong. Il collettivo Askavusa di Lampedusa, da sempre in prima linea contro la militarizzazione dell’isola, denuncia: “riteniamo le ONG funzionali alle strategie di guerra umanitaria messa a punto dai primi anni novanta”.