Antitesi n.09Classi sociali, proletariato e lotte

Nuove forme di sfruttamento

Rivoluzione tecnologica con la pandemia

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.09 – pag 26


Lo sviluppo tecnologico al servizio del capitale

In Italia, nei mesi del lockdown dal marzo a giugno 2020, oltre 6 milioni di lavoratori, tra di loro circa 1 milione e mezzo di dipendenti pubblici, hanno lavorato in modalità cosiddetta smart working.


Per la maggior parte si è trattato di telelavoro, ovvero lavoro da casa, poiché lo smart working propriamente detto non obbliga ad una postazione di lavoro fissa e con orari predefiniti. Il telelavoro prevede la necessità di una postazione fissa, seppur diversa dall’ordinario luogo di lavoro, mentre con lo smart working propriamente detto, grazie allo sviluppo della tecnologia e connettività informatica, si può potenzialmente lavorare ovunque.


Ad ogni modo, dopo il picco di utilizzo nel periodo del lockdown, stime attuali parlano di 6 milioni circa di lavoratori e lavoratrici che ancora oggi, per una parte importante del loro orario di lavoro, operano in smart working, un dato circa 8 volte maggiore di quanti operavano in questa modalità lavorativa a fine 2019 (circa 500 mila lavoratori). [1]


Questa crescita dello smart working, come di altre forme lavoro digitale, a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi, non solo in Italia, è parte del risultato del potenziamento e della diffusione della tecnologia informatica degli ultimi decenni, che sta accelerando il grado di sviluppo delle forze produttive [2] nella società capitalista. Questo sviluppo viene definito dai sociologi ed analisti borghesi una nuova fase di sviluppo del capitalismo, il cosiddetto capitalismo cognitivo, ovvero fondato sulla produzione di conoscenza per mezzo di conoscenza. “Questo mutamento è risultato del progresso tecnologico più rapido della storia. Nessuna delle generazioni prece-denti ha mai assistito a un’accelerazione di questa portata del potere della tecnica sulla realtà, con le relative trasformazioni sociali”. [3]


A parte le definizioni sociologiche, alla base dell’enorme sviluppo tecnologico vi è la continua e incessante ricerca della valorizzazione dei capitali, nel contesto generale della crisi iniziata fin dagli anni Settanta, crisi dovuta all’esaurirsi del ciclo di accumulazione seguito alla Seconda guerra mondiale. Questo è avvenuto parallelamente all’intensificarsi della globalizzazione finalizzata all’estensione e allo sviluppo dei mercati capitalistici, per produrre al minor costo possibile e vendere un numero sempre maggiore di merci, nel tentativo di rispondere così alla situazione di crisi cronica del sistema capitalista.


In questo senso si spiegano la crescita dell’automazione e informatizzazione che ha penetrato ogni ambito della produzione, dai servizi collegati direttamente alla fase produttiva fino ai servizi legati alla fase distributiva delle merci. Ciò ha trasformato anche quei settori che finora non erano attraversati da rilevanti processi di innovazione tecnologica, con l’obiettivo tendenziale di produrre di più, aumentando la qualità e, quantomeno in un primo momento, a minor costo, sostituendo il lavoro operaio con quello di macchine altamente automatizzate, aumentando così i ritmi di lavoro, puntando a vincere la concorrenza.


La trasformazione del precedente modello produttivo fordista, caratterizzato da grandi concentrazioni di impianti e lavoratori, in cui erano presenti tutte le fasi produttive basate sulla catena di montaggio e sul sistema del lavoro a cottimo, si è manifestata con la tendenza alla scomposizione dei processi produttivi, iniziata fin dalla fine degli anni Settanta. Questa scomposizione produttiva rappresenta il tentativo padronale di ottenere il duplice obiettivo: da una parte rispondere alla crisi di sovrapproduzione generale del sistema capitalista e all’abbassamento dei tassi di profitto, dall’altra contrastare la concentrazione operaia e la relativa capacità di organizzazione (quest’ultima è una conseguenza dell’organizzazione fordista del lavoro ed è stata una delle basi della forza e combattività della classe operaia negli anni passati). Questa scomposizione dei processi di produzione comporta infatti un minor numero di operai per la produzione grazie alla forte automazione, alla maggiore flessibilità e diversificazione dei siti produttivi, ottenendo quindi anche la finalità di contenere l’antagonismo operaio, la sua possibile riorganizzazione, limitando così lo sviluppo delle lotte dei lavoratori per ottenere migliori condizioni di lavoro e di salario.


La scomposizione dei processi di produzione ha portato, grazie alle innovazioni tecnologiche, alle forme di produzione indirizzate dal principio organizzativo del just in time, ovvero a forme di produzione estremamente flessibili e adatte a rispondere tempestivamente alle richieste del mercato. In questo modo vengono eliminante le scorte e ridotti gli scarti, con una gestione dei magazzini che riduce il capitale immobilizzato collegando così la produzione direttamente alla vendita delle merci. A questo fine la gestione dei dati, delle informazioni (interconnessi sia nei momenti della produzione che in quelli di distribuzione e vendita delle merci), la loro possibile elaborazione per definire le necessità produttive, diventa una esigenza fondamentale per le aziende. L’avanzamento dell’informatizzazione e della digitalizzazione è presupposto e risultato di questa esigenza.


L’avanzamento tecnologico informatico sta trasformando la fase di produzione con il modello della “Industria 4.0”, connesso all’applicazione delle tecnologie digitali, della robotica, dell’intelligenza artificiale, dei Big Data e dell’internet of things nell’industria.


Obiettivo di questo modello produttivo è quello di attuare una forte automazione e robotizzazione industriale, oltre che a sviluppare la gestione e razionalizzazione della manutenzione delle macchine ed utensili con macchinari interconnessi tra loro che effettuano autodiagnostica e manutenzione preventiva, con gli interventi manutentivi riguardanti la parte digitale e informatizzata dei macchinari che possono essere gestiti da remoto da altri macchinari od operatori non fisicamente presenti nel luogo produttivo. Inoltre, vi è l’obiettivo di approntare una flessibilità degli impianti in funzione delle vendite al cliente, una più razionale gestione della logistica, dei magazzini e della distribuzione delle merci e la connessione tra i diversi sistemi informativi aziendali, una gestione più efficiente dell’approvvigionamento di energia necessaria alla produzione, per ridurne i costi. Insomma vogliono rendere capitalisticamente efficienti al massimo grado i processi produttivi.

Attraverso questa ottimizzazione economica e produttiva si vuole ottenere una riduzione dei costi di produzione, con produzione di piccoli lotti di merci ai costi della grande scala, minori tempi di realizzazione del prodotto dall’elaborazione del prototipo alla realizzazione in serie, maggiore produttività attraverso una riduzione dei tempi di ‘fermo macchina’, una migliore qualità del prodotto ed una sensibile riduzione degli scarti in fase di produzione, grazie all’utilizzazione di sensori che monitorano la produzione in tempo reale”. [4]

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Questo paradisiaco (per i padroni) sogno produttivo sta trasformando sempre più il mondo economico, grazie anche al sostegno dato dalle politiche dei governi alla valorizzazione del capitale, pensiamo ad esempio alla manovra governativa dell’allora presidente del consiglio Renzi e del ministro Calenda (Piano nazionale Industria 4.0) che ha dato sostegno alle imprese in questo cambiamento tecnologico e produttivo con ammortamenti delle spese per macchinari che arrivano al 240%. [5] In questa prospettiva si spiega anche lo scontro tra le varie multinazionali della digitalizzazione e dell’informatica e quello tra i governi Usa e cinese per la conquista dell’implementazione nei vari paesi della nuova rete di comunicazione internet 5G, proprio per lo sviluppo e le possibilità di profitto che il mercato delle tecnologie informatiche promette per i prossimi anni.


Facendo così il sistema capitalista, nella incessante ricerca di valorizzazione del capitale e di massimizzazione del profitto, attraverso l’estorsione di maggiore quote di plusvalore dai lavoratori necessari alla produzione, con l’aumento della produttività e la riduzione del costo unitario del prodotto grazie allo sviluppo tecnologico, aumenta di fatto la quantità complessiva di capitale costante investito nel ciclo produttivo. I nuovi macchinari e le nuove tecnologie, aumentano la composizione organica di capitale con l’incremento della parte fissa e abbassano, di conseguenza, il saggio di profitto. [6] La spirale della caduta tendenziale del saggio di profitto ne risulta aggravata (per il capitale complessivo), col risultato che il salto tecnologico sul lungo periodo si ritorce contro lo stesso capitale, portando ulteriore acqua alla crisi di valorizzazione.
Inoltre, dentro la attuale catena dei rapporti sociali di produzione capitalistici, lo sviluppo delle forze produttive dovuto alle innovazioni tecnologiche non ne inficia il carattere monopolista e, contemporaneamente, proprio con il salto tecnologico, impiega via via meno forza lavoro, con conseguente aumento della disoccupazione e dell’esercito industriale di riserva. “L’enorme crescita di produttività resa possibile dalle forze produttive attuali, le economie di scala e di rete che le connotano, inducono una spontanea spinta alla concentrazione e alla centralizzazione del capitale. Nel 1990, le tre maggiori aziende di Detroit, (General Motors, Ford, Chrysler) un tempo centro propulsivo del manifatturiero statunitense, presentavano una capitalizzazione complessiva pari a 36 miliardi di dollari, ricavi per 250 miliardi e impiegavano direttamente 1,2 milioni di dipendenti. Nel 2014, le tre maggiori aziende della Silicon Valley (Google, Apple, Amazon) capitalizzavano 1,09 trilioni di dollari, ricavi per 257 miliardi e un numero di dipendenti dieci volte inferiore: appena 137.000 addetti”. [7]


Nell’economia digitale, la cosiddetta new economy, le economie di scala, ovvero l’aumento della quantità di produzione di un’impresa, di un’unità produttiva o di un impianto e la relativa diminuzione del costo unitario per prodotto, vengono amplificate dalle relazioni di rete economiche, che si sono sviluppate ulteriormente grazie alla informatizzazione e digitalizzazione, comportando lo sviluppo di mercati monopolistici, esemplificato dagli esempi di colossi come Apple, Microsoft, Amazon.


Se è vero, come vedremo più avanti nel paragrafo sulla new economy e proletariato, che le innovazioni tecnologiche e la loro diffusione di massa permettono alle piattaforme e ai monopoli digitali di scaricare parte del capitale fisso sui singoli lavoratori, che possiedono smartphone, tablet, strumentazioni informatiche, app scaricate, connessioni, ecc., abbassando così la composizione organica del capitale, è altrettanto fuori di dubbio che lo sviluppo tecnologico si è indirizzato, e non poteva essere altrimenti dati gli attuali rapporti sociali di produzione, verso una centralizzazione a favore del grande capitale che possiede il know how, la tecnologia e la proprietà delle applicazioni tecnologiche alla base dell’enorme sviluppo delle forze produttive avutosi in questi ultimi decenni.


Questo processo, come detto, ha interessato e interessa le sfere della produzione e dei servizi nelle loro diverse caratteristiche, dalla produzione di beni di consumo e la loro commercializzazione fino ai servizi finanziari, commerciali, amministrativi e della pubblica amministrazione.
Nei mesi passati, contrassegnati dal diffondersi del Covid19 e dalle misure di contenimento attuate dai vari governi, arrivate fino alla chiusura di tutte le attività cosiddette non essenziali con il lockdown, si è assistito a un ulteriore passo in avanti per ciò che riguarda la informatizzazione e digitalizzazione, anche in settori che prima non ne erano coinvolti così massicciamente. Come si evidenzia nella tipologia di lavoro a distanza, smart working, che è salito alla ribalta delle cronache per il suo utilizzo intensivo fatto dai padroni e dalle amministrazioni pubbliche nel periodo del lockdown.

Lo smart working nell’era Covid19

Come detto all’inizio, da marzo a giugno 2020 in Italia oltre 6 milioni di lavoratori, circa 1 milione e mezzo di dipendenti pubblici, hanno lavorato in modalità cosiddetta smart working, prevalentemente nella modalità di telelavoro.
Lo smart working, o lavoro agile, che include anche il telelavoro, in Italia è disciplinato da alcuni articoli della legge 81 del 2017 (Jobs Acts dei lavori autonomi) che prevede esclusivamente l’accordo individuale e volontario tra padrone e lavoratore in merito all’utilizzo di queste modalità lavorative.


Il lavoro agile è quindi definito come una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”. [8]


Prima del periodo pandemico e delle misure del lockdown, i lavoratori in modalità di telelavoro o smart working rappresentavano il 3.6% del totale, circa 500 mila lavoratori e lavoratrici a fine 2019, e queste erano soluzioni individuali, contrattate appunto dal singolo lavoratore o lavoratrice con l’azienda.


Con l’instaurazione dello stato di emergenza e con le misure governative di lockdown, che limitavano le attività lavorative alle sole considerate essenziali, si prevedeva anche “la sospensione delle attività lavorative per le imprese […] ad esclusione di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare ovvero in modalità a distanza” (decreto attuativo del 23 febbraio 2020 n. 6). Così, in merito al lavoro a distanza, si è di fatto tolto il presupposto e il vincolo della volontarietà previsto dalla legge e le aziende hanno così potuto pretendere in modo unilaterale l’utilizzo della modalità lavorativa a distanza a seconda delle loro esigenze. [9]


Ad oggi il governo ha deliberato la proroga dello stato di emergenza sul territorio nazionale al gennaio 2021 [10], per cui fino a tale data sarà possibile per le imprese agire unilateralmente per imporre l’utilizzo del lavoro agile al singolo lavoratore.


Oltre a queste prime misure governative che hanno allargato il bacino di lavoratori e lavoratrici (obbligandoli) in questa modalità lavorativa, a supporto delle imprese nella incentivazione dell’utilizzo dello smart working vi sono state altre misure istituzionali del governo e delle regioni. Come”Solidarietà Digitale”, iniziativa lanciata, per l’appunto, dal ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione, che ha l’obiettivo di supportare le aziende nell’adozione del lavoro agile, dal punto di vista giuslavoristico, organizzativo, tecnologico e formativo. [11] E la regione Lombardia, già da febbraio 2020, ha indetto un bando che stanzia 4,5 milioni di euro per la promozione dei piani di smart working: finanziamenti a fondo perduto a cui possono accedere le imprese oppure i soggetti, in forma singola o associata, in possesso di partita iva, con unità produttive/operative in Lombardia non ancora in possesso di un piano di smart working o del relativo accordo aziendale. [12]


Una ricerca dell’osservatorio smart working del politecnico di Milano, condotta nel 2018 (quindi antecedente al periodo di lockdown) spiega ulteriormente quali siano i motivi, ora celati con la motivazione delle misure di contenimento al Covid19, per cui governo e padroni stanno puntando a una adozione il più possibile estesa del lavoro a distanza. [13] Secondo questa ricerca, l’applicazione di un modello avanzato di smart working può produrre un incremento di produttività pari a circa il 15% per lavoratore e quindi, considerando che la platea di lavoratori che potrebbero fare smart working sono almeno il 22% del totale degli occupati, l’effetto dell’incremento della produttività media in Italia si può stimare intorno ai 13,7 miliardi di euro, ipotizzando che la pervasività dello smart working possa arrivare al 70% dei lavoratori potenziali.


Per ciò che riguarda la pubblica amministrazione, come detto, nel periodo del lockdown circa 1,5 milioni di dipendenti hanno operato in modalità lavoro agile per parte o tutto l’orario di lavoro settimanale. Normativamente questo è avvenuto tramite l’attuazione dei decreti legge di emergenza del governo Conte e le direttive della ministra della pubblica amministrazione, Dadone. Ora l’implementazione e generalizzazione nel settore pubblico dello strumento del lavoro agile ha una accelerazione con l’istituzione, da parte del ministero della pubblica amministrazione, dei Piani organizzativi lavoro agile (Pola) per i dirigenti delle amministrazioni pubbliche con l’obiettivo, per il 2021, di far lavorare il 50% dei lavoratori del settore pubblico in smart working.


Dato che l’instaurazione dello stato di emergenza e le relative misure governative e legislative hanno concretamente stravolto la normativa vigente in materia di smart working, che vincolava le aziende alla volontarietà del lavoratore o della lavoratrice all’adesione a questa tipologia lavorativa, questo avrà sicuramente in futuro delle ripercussioni e dei cambiamenti anche normativi, visto che l’utilizzo dello smart-working viene incentivato e strutturato per un suo ampliamento nelle aziende.


Sotto l’aspetto giuslavoristico viene intaccata la definizione che la maggioranza dei giudici di Cassazione ha dato dell’essenza della subordinazione nei rapporti di lavoro e, quindi, la differenza tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo: prende piede la teoria della “eterodirezione”. Secondo questa parte giurisprudenziale il rapporto di subordinazione consiste in una soggezione personale del lavoratore nei confronti del potere direttivo di controllo e disciplinare esercitato dall’azienda. Il potere direttivo si esercita attraverso ordini precisi riguardanti le modalità, gli scopi e i risultati dell’attività lavorativa ai quali il lavoratore non si può discostare, pena sanzioni disciplinari fino al licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Se invece le direttive aziendali sono solo indicative, generiche, e il lavoratore può autogestirsi sulle modalità delle sue prestazioni (ricordiamo che nella legge che definisce lo smart working non è fondamentale il concetto di orario o postazione fissa, ma è fondamentale il concetto di obiettivo, ciclo e scopo aziendale) il lavoratore può essere considerato come lavoratore autonomo. [14]


È prevedibile che, con l’incentivazione e implementazione tecnologica che governo e padroni stanno attuando per il potenziamento dell’utilizzo del lavoro agile si indirizzerà lo svolgimento del lavoro al raggiungimento di determinati risultati produttivi aziendali. In ciò vi è quindi la possibilità per governo e padroni di indirizzare misure legislative e giurisprudenziali verso una modificazione di quello che è il rapporto di subordinazione di un contratto di lavoro per trasformarlo in rapporto di lavoro autonomo, con la perdita per il lavoratore di quelli che sono i diritti, le previdenze pensionistiche e sociali previste nei contratti di lavoro e, quindi, portando un ulteriore attacco alle conquiste ottenute dalle lotte dei lavoratori con i contratti collettivi nazionali.


Inoltre, la linea padronale di destrutturazione del contratto collettivo nazionale verso l’incentivazione della sola contrattazione aziendale è portata avanti anche nel contesto dello smart working, come si può evincere dalle affermazioni di Maurizio del Conte, ordinario di diritto del lavoro all’Università Bocconi di Milano (autore della legge 81 del 2017): “La legge ha introdotto dei principi fondamentali per disciplinare le modalità di lavoro subordinato lasciando massimo spazio alla contrattazione. È soprattutto il contratto aziendale che diversamente da quello nazionale è meglio in grado di adattarsi alle singole esigenze di azienda e lavoratori. L’organizzazione del lavoro non va lasciata a strumenti legislativi che ne ingessano gli strumenti ma va lasciata alle parti”. [15] Che la forma di sfruttamento smart working, nell’ottica della riduzione del capitale costante per le aziende, sia un terreno sul quale i padroni vogliano approfondire ed investire per il futuro è dimostrato anche dal fatto che, dopo il periodo di lockdown, grandi aziende monopoliste, come Tim, Vodafone, Enel, Pirelli non hanno riportato agli stessi livelli dei mesi antecedenti a marzo 2020 i tassi di utilizzo di lavoratori e lavoratrici in smart working. Vodafone grazie a un piano di remotizzazione degli 8 call center ha attualmente 6 mila dipendenti che per il 100% dell’orario di lavoro operano in lavoro a distanza. Pirelli ha un tasso di lavoratori che operano in smart working del 75%, quando prima del lockdown questo tasso era del 10%. Per Tim, all’attuale tasso di utilizzazione di lavoratori in smart working, vi sono stime di riduzione degli spazi fisici che prima occupavano i dipendenti operanti in azienda (uffici, sale riunioni, ecc) del 30%. [16]


Nel settore della pubblica amministrazione l’“innovazione” del lavoro a distanza risponde alla pressante esigenza dei governi di riduzione e tagli alla spesa pubblica, pagati dai lavoratori con tagli al salario, riduzione dei servizi come la mensa e le pulizie dei locali, riduzione degli spazi fisici per riunioni e dei costi connessi, riduzione dei trasporti. Sul taglio dei costi per le amministrazioni pubbliche citiamo ad esempio il caso del comune di Trieste, dove la Uil funzione pubblica, nelle rivendicazioni per il premio di produttività dei 2500 dipendenti comunali, afferma che il comune, durante il periodo di lockdown, con un massiccio utilizzo di lavoratori e lavoratrici in modalità di lavoro agile, ha accantonato una cifra di circa 1 milione e 500 mila euro grazie a indennità e buoni pasto non versati ai lavoratori. [17]


Inoltre, questa spinta alla digitalizzazione nei servizi pubblici comporta e comporterà sempre più in futuro una conseguente selezione e discriminazione nel rapporto con la pubblica amministrazione in relazione al grado di informatizzazione delle classi popolari. Questo si è visto nella scuola con la didattica a distanza, dove per molte famiglie proletarie è stato particolarmente difficile far seguire le lezioni ai propri figli per la mancanza di strumenti tecnici e luoghi idonei. Circa il 12,7% degli studenti non ha potuto seguire la didattica a distanza ed un ulteriore 20% ha potuto assistervi soltanto in maniera saltuaria. [18]


La modalità di lavoro smart working, sperimentata così massicciamente nei mesi del lockdown, è quindi una forma di sfruttamento che si è quantitativamente già estesa rispetto ai valori precedenti al marzo scorso, con padroni e governo che stanno spingendo per una sua generalizzazione. Come l’esternalizzazione di alcuni processi produttivi, negli anni passati, ha rappresentato il tentativo padronale di rispondere all’esigenza di massimizzazione del profitto nella fase di crisi generale, ora la smaterializzazione del posto di lavoro in azienda o in ufficio va nel senso della riduzione dei costi fissi per le aziende sia per la ristrutturazione degli spazi e strumentazioni aziendali sia per lo scarico di parte della strumentazione tecnologica necessaria sulle spalle del singolo lavoratore, che ne deve essere provvisto per poter operare in questa modalità (riduzione della composizione organica del capitale per l’impresa), portando quindi ad un incremento del profitto.


Inoltre, la “domiciliazione” di masse importanti di lavoratori e lavoratrici permette ai padroni di operare in funzione di evitare la concentrazione e l’organizzazione di lavoratori, in direzione di una atomizzazione sociale e di una frammentazione dei rapporti tra lavoratori nei luoghi di lavoro. Viene impostata così l’organizzazione produttiva in modo che risulti contrastata la possibilità di organizzazione dei lavoratori per sviluppare lotte di rivendicazione (possibilità che si era già manifestata negli ultimi anni nei call centers, ad esempio con la lotta dei lavoratori Atesia ed Almaviva).

New economy e proletariato

Negli ultimi venti anni hanno avuto un enorme sviluppo le piattaforme digitali, dalla distribuzione delle merci all’erogazione di servizi, in tutti i settori del commercio, del trasporto, del turismo, della ristorazione, come Amazon, Uber, Alibaba, Airbnb, tanto per citare le più note.
Nel 2018, ad effettuare almeno un acquisto online è stato il 40% della popolazione mondiale, 2,81 miliardi di persone, il 23,2% in più rispetto al 2017, per un valore commerciale stimato in 2.875 miliardi di dollari (+12%). A dominare il mercato è l’area dell’Asia-Pacifico che, con un introito di 1.892 miliardi di dollari, di cui 855 nella sola Cina, porta a casa ben il 65% del fatturato globale. Alibaba Group (Cina) e Amazon (Usa) hanno la leadership nel mercato dell’ecommerce e negli Stati Uniti Amazon copre il 49% delle vendite online e, addirittura, il 5% dell’intero mondo delle vendite di merci. Inoltre, le vendite ecommerce effettuate da telefono mobile hanno rappresentato il 63,5% delle transazioni totali nel 2018. [19]
Di fatto, la crescita dell’utilizzo delle piattaforme digitali ha consentito al capitale monopolistico di entrare e di appropriarsi di quote di profitto nella sfera della distribuzione, circolazione di merci e servizi e mangiandosi quote di mercato che prima erano appannaggio della piccola e media borghesia dei settori della distribuzione, trasporto, circolazione e commercio al dettaglio.


E, nella fase di lockdwn mondiale a causa del Covid19, molti di questi colossi digitali hanno incrementato enormemente i loro profitti come Amazon che, nel secondo trimestre fiscale 2020 (aprile-maggio-giugno), ha avuto una crescita del fatturato del 40%, pari a 88,9 miliardi di dollari, un utile netto trimestrale di 5,2 miliardi di dollari e un utile per azione di 10,3 dollari, contro i 5,22 dollari di utile per azione del secondo trimestre del 2019. In crescita sia le vendite negli Usa, del 43% pari a 55,4 miliardi di dollari sia quelle al di fuori del mercato statunitense, con un aumento del 38% pari a 22,7 miliardi di dollari. Nel secondo trimestre 2020 Amazon ha avuto 5,2 miliardi di dollari di utile, che rappresenta il dato più grande mai registrato dalla società nei suoi 26 anni di storia. Inoltre, la fase di lockdown ha permesso alla multinazionale statunitense di ampliare il suo intervento nel settore della distribuzione di generi alimentari, con un aumento, sempre nel secondo trimestre 2020, di oltre il 160% di capacità di consegna di queste merci, quindi triplicando le vendite alimentari online rispetto allo stesso trimestre del 2019. [20]


La crescita delle piattaforme digitali e l’eterogeneità e pluralità di servizi che realizzano, dal social, alla distribuzione dei prodotti, alle allocazioni turistiche, ha comportato anche la crescita di diverse tipologie di lavoratori che vi operano, la nascita e la crescita del proletariato dei servizi digitali, dai lavoratori del magazzinaggio e trasporto merci ai riders per le consegne a domicilio.


Nel settore della logistica, che conta complessivamente in Italia 1 milione e 100 mila lavoratori, negli anni si è vista la crescita di una componente combattiva che è riuscita nei vari magazzini, anche in Amazon, a migliorare le proprie condizioni di sfruttamento, fatte di intensità di lavoro massacrante, bassi salari, forme di caporalato messo in atto dai capetti delle cooperative che operano all’interno dei magazzini, non riconoscimento in busta paga degli straordinari, ecc.. [21]


Tutto questo è avvenuto con dure lotte che hanno visto la rappresaglia padronale con licenziamenti e intimidazioni anche fisiche contro i lavoratori più determinati. Ma i lavoratori sono riusciti a rispondere a queste vendette padronali e continuano in diversi magazzini d’Italia a portare avanti le proprie rivendicazioni salariali e per i diritti nei luoghi di lavoro.


In altri settori sono emerse nuove figure del proletariato, come i riders, contrassegnate da situazioni di lavoro molto frammentate e precarie, tanto che anche gli economisti borghesi hanno dovuto coniare il termine di gig economy per definirli. [22]


Complessivamente, prima del coprifuoco sanitario, in Italia i lavoratori della gig economy sono oltre 210 mila, il 42% dei quali lavora senza contratto e sono principalmente composti dai riders per le consegne di pasti a domicilio, dai rilevatori per la compilazione di sondaggi online, e da altri lavoratori per attività di grafica, di inserimento dati ed anche da baysitter, colf a giornata o artigiani che vendono i propri servizi tramite una applicazione digitale. [23]


I riders che lavorano in Italia sono circa 10 mila, operano per le diverse piattaforme digitali che si occupano della consegna dei pasti a domicilio (ad esempio Uber Eats, Foodora, Glovo, Deliveroo). Vivono condizioni di lavoro di vero e proprio caporalato digitale, con gps che ne controllano il tragitto e il tempo impiegato e algoritmi informatici che ne misurano costantemente la produttività in base alle consegne e al tempo effettuato per farle, stabilendo graduatorie che sono determinanti per il punteggio che il lavoratore acquisisce per effettuare altre consegne e quindi essere richiamato al lavoro. Questa nuova tipologia di sfruttamento rappresenta una riproposizione in altre forme, rese possibili grazie allo sviluppo tecnologico e informatico, del vecchio lavoro a cottimo, contro cui tante lotte per la sua abolizione nelle fabbriche sono state messe in campo dai lavoratori negli anni Settanta.


Con i decreti governativi di marzo, che imponevano la chiusura dei servizi non essenziali, i ristoratori e le grosse catene di cibo hanno avuto la possibilità di continuare a mantenere aperti i locali con il servizio d’asporto, portando ad un aumento dell’offerta e relativa domanda di pasti a domicilio. I riders hanno da subito preso posizione su due questioni: la mancanza di dispositivi di protezione forniti dalle aziende di food delivery e il non rispetto da parte delle stesse delle norme emesse dal governo. La campagna di lotta intrapresa dai riders, che ha visto diversi scioperi e manifestazioni, le uniche sul territorio nazionale durante il lockdown, ha preteso inizialmente la chiusura del servizio e un reddito di quarantena per i lavoratori a casa, ponendo la questione della non essenzialità del cibo a domicilio con lo slogan “il sushi non è un diritto” e più in generale ha puntato a ottenere un protocollo di sicurezza adeguato. Se da un lato la questione riders è riuscita ad acquisire una visibilità nazionale dall’altro la repressione ha colpito pesantemente questi lavoratori multandoli per assembramento e comminando sanzioni mentre consegnavano i pasti perché violavano le misure di contenimento.


Nonostante il ricatto costante a cui sono sottoposti dai padroni “digitali” i riders sono riusciti ad attuare uno sciopero il Primo Maggio 2020, oltre che per le questioni della sicurezza sanitaria, per rivendicare migliori condizioni di lavoro e minor controllo tramite le piattaforme digitali, chiedendo anche che vengisse definita una situazione normativa per la loro tipologia di lavoro, limitando la ricattabilità a cui sono sottoposti.
A riprova delle condizioni di sfruttamento di questi lavoratori vi è il caso di Uber Eats, presente in 14 città italiane, la cui filiale Uber Italy è dal maggio scorso in amministrazione giudiziaria su disposizione del tribunale di Milano per “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” (praticamente per caporalato) per la gestione dei riders che venivano pagati 3 euro a consegna, senza nessuna paga oraria. [24]

Superiamo la frammentazione

Lo sviluppo delle forze produttive, imbrigliate nei rapporti sociali di produzione capitalistici, non si sta manifestando come un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari, ma, invece, come un aumento potenziale della disoccupazione di massa grazie alla maggiore produttività dovuta ai processi di automazione, che espellono forza lavoro dai cicli produttivi e un ulteriore approfondimento della precarietà e della frammentazione della classe operaia e del proletariato, poiché lo sviluppo tecnologico è, nella società capitalista, al servizio esclusivo della valorizzazione del capitale.


Ora i nuovi modelli di produzione e di gestione dei lavoratori, grazie allo sviluppo tecnologico e informatico, si stanno dimostrando nuove forme di sfruttamento e controllo, con capacità un tempo inimmaginabili per i padroni di automazione dei processi e di sorveglianza continua sulla produttività e operatività dei lavoratori nelle aziende o nell’espletamento della loro opera all’esterno. Nuove forme di lavoro come “Industria 4.0”, lo smart working e le piattaforme digitali hanno quindi l’obiettivo di tentare di risollevare il sistema capitalista dalla crisi di valorizzazione del capitale e vanno nella direzione di frammentare e ricattare ulteriormente la composizione dei lavoratori, con forme di sfruttamento sempre più intense.


La frammentazione, la divisione, l’isolamento del lavoratore, pensiamo ad esempio al lavoratore in smart working che opera da casa senza nessun contatto o possibilità di condivisione fisica con altri compagni di lavoro, sono non solo la conseguenza della implementazione di queste nuove forme lavorative da parte dei padroni, ma rispondono anche la necessità per il sistema capitalista di tenere il più possibile diviso e sotto controllo l’antagonismo dei lavoratori, il suo peggior nemico, per prevenirne le possibilità di organizzazione e di lotta.


Come già avviene per esempio con le lotte dei riders dove, nonostante questi processi generali di trasformazione produttiva, distributiva e di erogazione dei servizi stiano trasformando le condizioni di lavoro, i lavoratori cercano di superare la frammentazione e la divisione connaturata in questi sistemi produttivi, per strappare migliori condizioni di vita e di lavoro.


Nostro compito è da una parte sviluppare l’analisi di questi cambiamenti per comprendere come il capitale in crisi cerchi, e trovi, nuove forme di valorizzazione per incrementare plusvalore e sovrapprofitti, tramite il salto tecnologico e l’aumento conseguente della composizione organica, e dall’altra fare inchiesta su questa condizione operaia, indagandone le forme nuove di sfruttamento e cercando di coglierne, in particolare, le nuove forme di espressione dal punto di vista della lotta e dell’organizzazione (ad esempio nel caso dei riders la ronda urbana in bici e l’aggregazione territoriale a partire dai punti di stazionamento).


Si tratta di sviluppare l’inchiesta operaia, l’analisi concreta della situazione concreta, per capire come questa nuova condizione e queste lotte si integrano e possono dare impulso all’organizzazione proletaria di resistenza alle misure di sfruttamento che la borghesia adotta per far fronte alla crisi del suo sistema.


Note:

[1] Il Sole 24 ore, 9 settembre 2020

[2] Sul concetto di forze produttive e rapporti di produzione vedi Antitesi n° 5, Glossario

[3] A. Russo, Forze produttive, concentrazione del capitale e mutamento del capitalismo, journals.openedition.org, 2019

[4] Dal volantone “Industria 4.0: un punto di vista di classe” a cura del Collettivo Lavoratori Comunisti Zeno Sorgato

[5] Su just in time e “Industria 4.0” vedi Antitesi n.3
sezione 2: Classi sociali, proletariato e lotte

[6] vedi Antitesi n° 5, Glossario

[7] Russo, op. cit.

[8] Art. 18 comma 1, Legge n.81/2017

[9] Il Dpcm dell’8 marzo 2020 afferma “la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, puo’ essere applicata, per la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020, dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato”. Inoltre il Dpcm dell’11 marzo 2020 ha dato ulteriore impulso raccomandando che “in ordine alle attività produttive e alle attività professionali sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”

[10] Dpcm 7 ottobre 2020

[11] vedi www.agid.gov.it/it/solidarietà-digitale

[12] vedi Datalog, Bando smart work Lombardia: stanziati 4,5 milioni, datalog.it, 2020

[13] Osservatori Digital Innovation, Smart working continua la crescita tra le grandi aziende, osservatori.net, 30/10/2018

[14] MicroMega 5/2020, pp. 80-92

[15] Il Sole 24 ore, 9 settembre 2020

[16] Ibidem

[17] Il Piccolo,14 settembre 2020

[18]  A. Carlino, Didattica a distanza, più del 10% degli studenti non si è collegato. I dati Agcom, orizzontescuola.it, 7/7/2020

[19] E. Ferretti, Ecommerce nel 2019: dati e trend su Italia, Europa e mondo, secretkey.it, 15/4/2020

[20] A. Bai, Amazon fa il pieno durante il lockdown: utili trimestrali raddoppiati con un risultato record, hwupgrade.it, 31/7/2020

[21] vedi Antitesi n° 4, sezione 2: Classi sociali, proletariato e lotte
“Dalla fabbrica delle marci a quella dei servizi”

e in Antitesi n.9, sezione 2: Classi sociali, proletariato e lotte
“Eppur si muove”

[22] Con gig economy si intende il modello economico dove non esistono prestazioni lavorative continuative, ma il lavoro è a chiamata attraverso strumentazioni e piattaforme digitali solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze. Domanda e offerta vengono infatti gestite in maniera semi-automatizzata attraverso piattaforme web e app dedicate: esempi noti sono l’affitto temporaneo di camere (ad es. Airbnb), la vendita di prodotti artigianali (ad es. Etsy), i trasporti personali privati alternativi ai taxi (ad es. Uber), e le consegne a domicilio come Deliveroo, Just Eat e Foodora

[23] Il Fatto Quotidiano, Gig economy, indagine Inapp: in Italia lavoratori delle piattaforme sono più di 210mila. E il 42% è senza contratto, ilfattoquotidiano.it, 25/9/2020

[24] Redazione Wired, Uber Eats commissariata in Italia per caporalato sui riders, wired.it, 29/5/2020


Rotta la vetrina di Esof2020

L’European Scientific Open Forum 2020, meglio conosciuto come Esof2020, la più grande manifestazione scientifica europea, di cui scrivevamo nel precedente numero di Antitesi in questa stessa sezione, si è svolta a Trieste tra il 3 e il 6 settembre, in versione ridotta causa Covid19. Probabilmente è per questo motivo che l’annunciata presentazione dell’infame accordo tra il co-mune di Trieste, la regione Friuli Venezia Giulia e la regione Veneto con la colonia israeliana di Modi’in Maccabim Reut non ha avuto luogo, anche se la sua sparizione da qualsiasi fonte di stampa potrebbe essere un piccolo risultato della campagna di denuncia condotta dal Comitato Bds Trieste in proposito.Quest’ultimo, assieme al Comitato di Trieste di Salaam Ragazzi dell’Olivo, ha promosso co-munque un presidio per il 4 settembre, al quale hanno partecipato anche compagni e compagne di Gorizia e Padova (del Collettivo Gramigna). Denunciando l’infame collaborazione con i colonialisti israeliani, non solo a livello di istituzioni politiche locali, ma anche e soprattutto rispetto ai centri di ricerca triestini di proiezione internazionale, come la Sissa e l’Inogs, si è, politicamente, “rotto la vetrina” di un festival scientifico che si presenta come evento di pace e dialogo tra i popoli. D’altronde già la sponsorizzazione e la presenza di Fincantieri, sempre più convertita all’industria bellica, nonchè degli assassini di Confindustria, dicevano abbastanza. Il boicottaggio accademico di Israele non è un lavoro politico facile, ma dobbiamo rafforzarlo, anche per dare un terreno concreto di lotta alla guerra imperialista e ai sempre più stretti rapporti tra il regime sionista israeliano e il regime imperialista italiano.

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