Antitesi n.08Sfruttamento e crisi

Legami d’acciaio

Dalla strage per il profitto alle Acciaierie Venete al mercato mondiale

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.08 – pag.13


Nel maggio 2018 due operai dell’azienda padovana Acciaierie Venete vengono travolti da una bomba di calore. L’acciaio incandescente precipita dalla siviera a causa della rottura di un perno della stessa. L’incidente provoca due morti e altri due operai feriti. I padroni dell’acciaieria, quelli delle aziende d’appalto, l’Hayama Group e quelli dell’azienda fornitrice degli impianti, la Danieli di Udine, si sperticano nel dire che si è trattato pura casualità, un fatto inspiegabile, qualcosa che va aldilà dell’ordinario e per questo declinano le proprie responsabilità.
Diversa invece la versione della perizia: dopo un anno e mezzo di indagini, il verdetto è netto: “violazione delle norme per la tutela della salute e della sicurezza in ambiente di lavoro” [1] e ancora: “reati commessi nel loro interesse e vantaggio vista la necessità di contenere costi produttivi, lo scopo di accelerare i tempi e i ritmi di lavoro con il fine di aumentare la produttività”. [2]
La perizia elimina qualsiasi dubbio su chi sia il responsabile dell’incidente e quale sia il movente, ciò non toglie che la giustizia borghese, anche a fronte di una sua stessa perizia, iscriva i padroni delle aziende di cui sopra nel registro degli indagati esclusivamente per omicidio colposo e lesioni.
La vicenda dell’Acciaieria padovana è parte integrante del quadro generale del settore siderurgico italiano e mondiale, un settore che risente di ogni minima contrazione della produzione industriale globale e che da anni cerca, grazie ad enormi immissioni di denaro pubblico (finanziamenti industria 4.0 ad esempio), di aumentare la quantità e la qualità prodotta a scapito dei lavoratori. Basti pensare che nello stabilimento padovano, mentre si tagliava sulle manutenzioni e si spingeva al massimo la produzione, veniva installato un nuovo laminatoio 4.0 e altri macchinari con un investimento pari a 25,6 milioni di euro.
L’incipit sull’incidente nelle Acciaierie Venete ci serve come punto di partenza per gettare uno sguardo più ampio sul settore siderurgico e sulle contraddizioni generali che lo interessano. In primis la crisi e la guerra tra potenze e in secundis gli effetti che investono i lavoratori in termini di sfruttamento e sicurezza e tutti coloro che pagano in termini di salute la fame di profitto padronale.

La situazione dell’acciaio in Italia tra chiusure e nuovi poli

L’Italia con 24,5 milioni di tonnellate è il secondo produttore di acciaio in Europa, dietro solo alla Germania e al decimo posto del mercato mondiale. [3] Partiamo da questo dato per comprendere l’importanza di questo settore nell’industria italiana e globale.
La storia recente di questo settore ha radici nel secondo dopoguerra, quando, con l’approvazione del piano Sinigaglia nel 1948 vennero destinati fondi dell’European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall, per la costruzione del nuovo altoforno a ciclo integrale [4] a Cornigliano – Genova e l’integrazione verticale delle lavorazioni negli stabilimenti di Bagnoli e Piombino. Fino ad allora, gli stabilimenti pubblici controllati dalla Finsider, ramo siderurgico dell’IRI, oltre a quelli già citati, erano l’Ilva, la Terni, la Dalmine e la Siac, i quali operavano principalmente sul grezzo. Il piano Sinigaglia puntò affinché le aziende di stato producessero acciaio finito, così da alimentare la crescente domanda nazionale e sospingere lo sviluppo grazie al basso costo delle materie prime. Questo piano, pur entrando in contraddizione con i monopolisti privati dell’acciaio come Falck, trovò successo grazie alla Fiat di Valletta che strinse accordi con le acciaierie di Cornigliano per l’approvvigionamento dei laminati a prezzi di comodo. Il rapporto tra produzione statale e privata dell’acciaio, che era sempre stato paritario, nel 1957 si spostava a favore della siderurgia pubblica, con il 73% della produzione nazionale Negli anni sessanta, che segnarono una grande espansione del settore pubblico, il distacco si accentuò ulteriormente. In quel decennio, per far fronte alla richiesta di acciaio e per rispondere allo stato di disoccupazione e sottosviluppo del meridione, viene costruito con un cospicuo finanziamento pubblico lo stabilimento Italsider di Taranto, anch’esso a ciclo integrale, di dimensioni enormi, tale da renderlo l’acciaieria più grande d’Europa: proprio grazie a questo sito l’Italia diventa esportatore di prodotti finiti.
Nel 1973 la crisi petrolifera segna una nuova fase caratterizzata dalla diminuzione del consumo globale di acciaio, all’interno della più ampia crisi strutturale del sistema capitalista. Pur calando in misura minore in Italia, le aziende produttrici faticano a recuperare i volumi pre – crisi, aprendo di fatto al declino della siderurgia di stato. Ad approfondire lo scenario si inseriscono i tentativi di contenere la crisi a livello internazionale: nel 1980 Regan promuove una politica di alti tassi d’interesse, volta a contenere l’inflazione che ebbe come conseguenza la rivalutazione del dollaro e il rialzo delle materie prime per i paesi importatori come l’Italia; la Cee mette in campo il “piano Davignon” contro la sovraeccedenza dell’acciaio europeo. Il piano mirava a stabilire quote produttive e prezzi minimi, l’autorizzazione a formare cartelli di crisi e legava gli aiuti pubblici comunitari per il settore al ridimensionamento della capacità produttiva. Per quanto la linea aziendale della Finsider fu quella di salvaguardare l’occupazione principalmente per motivi politici, dovette necessariamente tagliare quasi 5 milioni di tonnellate di produzione. Il piano Davignon e il contesto di crisi determinano da un lato la chiusura controllata degli impianti più vecchi e meno produttivi e dall’altro lo sviluppo di monopoli europei dell’acciaio.
Nel 1985 la Cee cambia linea optando per un approccio neoliberista che scioglieva gli obblighi delle quote produttive e dei prezzi minimi e prevedeva la possibilità di aiuti di stato solamente in casi particolari. Nel 1987 il nuovo gruppo dirigente di Finsider elaborò il Piano per il risanamento della siderurgia a partecipazione statale, che prevedeva la liquidazione della società e la creazione di una nuova, l’Ilva. L’Iri si fece carico di 7.663 miliardi di lire [5] tra debiti e perdite, affinché Finsider potesse affrontare il processo esponendo un’equilibrata situazione patrimoniale. Finsider decise di investire su Taranto sacrificando Bagnoli, in modo che la Commissione Europea potesse accettare gli ingenti aiuti stanziati. Chiuso lo stabilimento di Bagnoli, si passa alla liquidazione di tutti gli altri stabilimenti ormai onerosi e in contraddizione con la nuova linea neoliberista.
La famiglia Riva acquista, ad un prezzo stracciato, l’Ilva con gli stabilimenti di Taranto e Genova. Piombino passa a gestione privata sotto il controllo della famiglia Lucchini, mentre la Ferriera di Trieste passa al gruppo Pittini. Altri grandi gruppi privati come Falck non sopravvivono alla crisi e all’apertura dei mercati e chiusero i battenti negli anni 90.
Mentre il comparto siderurgico italiano a ciclo integrale viene fortemente ridimensionato, in questo contesto, crescono fino a diventare i principali attuali attori le piccole – medie imprese dell’acciaio nate negli anni ’60: Arvedi, Pittini, Feralpi, AlfaAcciai, ecc. Certifica questo nuovo protagonismo il ruolo che i loro amministratori delegati rivestono attualmente all’interno della Confindustria e nella FederAcciai che in questo momento vede a capo proprio il Ceo di Acciaierie Venete Alessandro Banzato.
Ad oggi la produzione complessiva di circa 24,5 milioni di tonnellate [6] si divide tra il 40% ottenuta dal ciclo integrale tra Trieste, Piombino e Taranto e il restante 60% ottenuta principalmente in quello che è stato definito come la nuova capitale dell’acciaio: il triangolo Brescia – Cremona – Udine. [7]
Queste aziende, caratterizzate dall’uso dei forni elettrici e del rottame come materia prima, pur producendo acciaio “meno pulito”, rispondono meglio alle esigenze del mercato, potendo contare sulla flessibilità degli impianti in perfetta sintonia con il toyotismo e la filosofia del just in time, basti pensare che grazie all’introduzione delle nuove tecnologie, un committente può controllare online in ogni momento lo stato e le caratteristiche qualitative di ogni singolo prodotto ordinato tramite una tracciatura eseguita ad ogni passaggio del processo produttivo. Inoltre, le ridotte dimensioni degli stabilimenti permettono una più facile e meno costosa integrazione con tecnologie di nuova generazione e ammodernamenti del parco macchine, in grado quindi di aumentare la produttività e la qualità del prodotto finito con investimenti estremamente inferiori rispetto ad un ciclo integrale.
La produzione attuale è principalmente rivolta all’export nei paesi Ue (circa il 75%) con le spedizioni in Germania in testa verso la quale vengono dirottate quasi 3 milioni di tonnellate all’anno. [8]
Il nuovo orientamento del mercato siderurgico italiano, nato per l’approvvigionamento interno di materie prime a basso costo, è oggi rivolto verso le cosiddette specialties: acciai speciali, prodotti per mercati di nicchia o su commesse specifiche ad alto valore aggiunto. Il nuovo orientamento non è al riparo da crisi o contrazioni del mercato, anzi, dal 2009 ad oggi si è assistito ad una perdita di circa 10 milioni di tonnellate di acciaio prodotto e se le varie ripresine del mercato hanno portato ad un parziale recupero non sono stati raggiunti i livelli pre crisi. Il 2019 ha segnato un ulteriore dato negativo a causa del rallentamento della produzione tedesca, dalla quale, come abbiamo detto, dipende buona parte della produzione italiana esportata, fattore che ha portato l’Italia a perdere una posizione nella top ten mondiale a favore dell’Iran.
Quanto detto finora certifica lo stato comatoso degli impianti a ciclo integrale: Trieste, Piombino e Taranto, i quali pur con delle differenze vivono una fase di profonda crisi. Lo stato di questi impianti è sempre in bilico tra chiusure, promesse di nuovi investimenti e nuove vendite che hanno visto nell’ultimo decennio un passaggio di mano da esponenti della borghesia italiana, come la famiglia Lucchini e Riva, ai grandi monopoli esteri dell’acciaio, dalla russa Severstal (per quanto riguarda Piombino e Trieste) alla franco – indiana ArcelorMittal (per quanto concerne Taranto). I primi due stabilimenti a loro volta hanno visto un ulteriore cessione: il primo in favore inizialmente dell’algerina Cevital e poi dell’indiana Jsw; mentre lo stabilimento friulano in favore del gruppo cremonese Arvedi spa.
In seguito all’approvazione con larga maggioranza della mozione n. 99 presentata dal Gruppo regionale M5S sulla Ferriera di Servola a Trieste, che impegnava la Giunta regionale “a fissare, assieme alla proprietà, un puntuale e stringente cronoprogramma per la chiusura progressiva dell’area a caldo dell’impianto siderurgico e prevedere strategie per la tutela degli attuali livelli occupazionali, in collaborazione con i ministeri competenti e l’Autorità di sistema portuale” [9], padron Arvedi ha annunciato la chiusura dell’area a caldo, ratificata da un referendum con 277 voti favorevoli e 192 contrari, che ha visto quasi tutti i sindacati, dalla Uil sino a Usb, schierati a favore della chiusura, con la sola Fiom contraria.
Il nuovo piano industriale prevede la chiusura e la bonifica dell’area a caldo, il potenziamento dell’area a freddo con l’inserimento di nuove linee di zincatura e verniciatura e soprattutto lo sviluppo dell’attività logistica. Bisogna sottolineare infatti, come il porto di Trieste sia oggi al centro di un protocollo tra Autorità portuale di Trieste e l’azienda cinese China Communications Construction Company per la creazione di piattaforme logistiche e produttive nell’ambito della cosiddetta Via della Seta. Arvedi ha dunque realizzato un’operazione in senso speculativo, beneficiando di finanziamenti pubblici per l’acquisto dell’impianto, regalati allo scopo di un adeguamento ambientale mai del tutto realizzato, e ottenendo poi finanziamenti pubblici anche per la dismissione “ecologicamente giustificata”. Contemporaneamente ha capitalizzato la vendita dei terreni dello stabilimento che danno sul mare alla Icop, sotto la regia dell’autorità portuale, che dovrebbe adeguare i luoghi ad una nuova logistica, in linea con la presunta crescita dello scalo triestino. E per quanto riguarda le forniture di ghisa alla propria linea industriale, prodotta fino ad ora a Trieste, Arvedi ha rappresentato la possibilità di rifornirsi in Ucraina, confermando come la catena del valore capitalistico segua quella della guerra imperialista. E così, a fine marzo, la Ferriera di Servola inizierà a chiudere i battenti dopo una storia di 122 anni, con la prospettiva di cassa integrazione per due anni per i circa cinquecento dipendenti diretti, per non parlare degli operai dell’indotto e delle ricadute occupazionali, economiche e sociali per l’intera città.
L’altro stabilimento citato, quello di Piombino è attualmente sotto il controllo dell’indiana Jsw, uno dei primi venti produttori di acciaio al mondo e il suo punto di forza è la produzione di laminati lunghi come i binari per l’alta velocità, una produzione realizzabile attualmente solo con il ciclo integrale. Dopo una non gestione dell’algerina Cevital che rischiava di far chiudere definitivamente l’impianto, nel 2018 subentrano gli indiani che, come sempre in questi casi, mettono sul piatto a parole valanghe di soldi per un rilancio dell’azienda, con tanto di Accordi di Programma firmati al Mise e plausi generali di politici e sindacati. Sta di fatto che l’acciaieria contava circa 2000 dipendenti, ma che attualmente continua ad impiegarne solo 700. Non solo, gli indiani continuano a rinviare di mese in mese l’esposizione del nuovo piano industriale.
In Puglia, cercando di ripercorrere brevemente quanto avvenuto sinora, nel 2012 il gip di Taranto Patrizia Todisco dispone il sequestro (senza facoltà d’uso) dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali e misure cautelari per alcuni indagati per: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico, a carico dei vertici aziendali con l’arresto di Emilio e Nicola Riva (rispettivamente ex presidente sino al 2010 dell’Ilva spa e il suo successore in carica) oltre ad altri personaggi della catena di comando. Dato il carattere strategico della più grande acciaieria d’Europa, se da un lato la magistratura mette sotto sequestro gli impianti e i beni dei Riva, dall’altra il governo vara delle leggi ad hoc che impongono la facoltà d’uso degli impianti, aggirano i livelli di inquinamento consentiti e rimandano i termini entro i quali l’azienda avrebbe dovuto essere messa a norma dal punto di vista degli standard ambientali.
L’anno successivo l’Ilva viene di fatto espropriata e nazionalizzata senza indennizzo, con il beneplacito dell’Unione Europa e dell’Eurofer (il sindacato europeo dei produttori siderurgici), i quali pur lamentando l’eccesso di aiuti di stato, dall’altro non hanno avviato procedure d’infrazione verso lo stato italiano. Senza scadere nel dietrologismo, è evidente che l’impianto tarantino fosse già nell’occhio del ciclone della crisi dell’acciaio europeo: per i grandi monopoli stranieri e per settori della borghesia italiana, questa operazione ha aperto la possibilità di acquisire un grosso segmento di mercato fino ad allora precluso e monopolizzato dai Riva, come ad esempio quello dei prodotti piani che riforniva l’80% del mercato interno, con un pacchetto clienti di oltre 1500 aziende come Fiat, Bmw e Peugeot. [10]
Per gli attori del mercato la famiglia Riva era considerata un soggetto scomodo del mercato siderurgico per il rifiuto, chiesto dalle associazioni di categoria, di ridurre i volumi produttivi all’indomani della crisi del 2009 e con i prezzi in caduta libera. A questo proposito, l’Assofermet, associazione di commercianti e utilizzatori di prodotti siderurgici, ha stimato che l’eliminazione dello stabilimento tarantino, che ha operato fino ad oggi da price leader, determinerebbe un rincaro dei prezzi dei laminati piani di circa 50 Euro/ton, corrispondente a un incremento dell’11-12% rispetto ai livelli correnti. [11]
In questo contesto, la linea di Bruxelles continua ad essere quella di ridurre la produzione e chiudere gli impianti vecchi e meno produttivi e spinge affinché i “fondi dell’UE non debbano essere usati per mantenere le attività produttive di alcuni impianti, poiché ciò distorcerebbe la concorrenza tra i produttori di acciaio nell’UE, ma solo per alleviare l’impatto delle chiusure o dei ridimensionamenti sui lavoratori interessati”. [12]
Dall’inizio della crisi il governo italiano promulga ben dodici decreti Salva Ilva, di fatto consentendo la prosecuzione delle emissioni dannose e fuori legge. Compito dell’Amministrazione Straordinaria è quello di risanare l’azienda nel rispetto del Piano Ambientale a spese dello stato (con pieni poteri per 12 mesi prorogabili) con l’obiettivo di aprire una gara internazionale per vendere lo stabilimento. Nel 2015 vengono nominati i commissari straordinari e nel giugno dell’anno successivo viene pubblicato il bando per la messa in vendita dell’Ilva. Al bando si presentano due cordate: la prima, che si aggiudicherà la gara, è composta inizialmente da Marcegaglia e ArcelorMittal e la seconda da Jindal e Arvedi con l’ausilio del tesoretto di stato Cassa Depositi e Prestiti.
ArcelorMittal è il più grande monopolio mondiale dell’acciaio con 96,42 [13] milioni di tonnellate prodotte, ben al di sopra del secondo gruppo China Baowu Group indietro con 67,43 [Idem] milioni di tonnellate; data la sua posizione dominante sul mercato mondiale e europeo, l’Antitrust Ue ha preteso per l’acquisizione dell’Ilva l’uscita del gruppo Marcegaglia e la cessione di sei stabilimenti in Europa, tra i quali quello di Magona a Piombino, questo per evitare che l’azienda franco-indiana potesse controllare il 40% di tutto il mercato europeo. Nel 2018 si conclude la trattativa tra ArcelorMittal e governo. L’accordo prevede pesanti tagli: circa 3000 e lo scudo penale e civile per gli illeciti compiuti. Proprio quest’ultimo punto diventa nuovo terreno di scontro tra azienda e governo. Il M5S a Taranto aveva fatto propria la bandiera ambientalista piccolo borghese che chiedeva la chiusura dell’acciaieria. Al governo però, il Ministro allo Sviluppo Economico Di Maio oltre a non chiudere la fabbrica, firma affinché la copertura penale e civile istituita da Renzi nel 2015 per i commissari straordinari fosse estesa anche al colosso franco-indiano. Per salvare la faccia di fronte al proprio elettorato, durante l’approvazione del decreto Salva Imprese, il M5S non inserisce l’estensione dello scudo penale e pone la fiducia al governo sul provvedimento, aprendo ad una fase di crisi e di nuova trattativa con la proprietà.
Da parte sua ArcelorMittal da quando è entrata nello stabilimento ad oggi non si è assolutamente adoperata per un rilancio, né per un risanamento dal punto di vista ambientale, anzi, la proprietà ha paventato la volontà di lasciare Taranto nascondendosi dietro alla questione dello scudo penale.
ArcelorMittal dimostra di non aver nessun interesse a rispettare l’accordo firmato inizialmente. La prospettiva più ottimistica per lo stabilimento è il suo ridimensionamento, una mini Ilva, che espella minimo altri 5000 dipendenti e produca circa 4 milioni di tonnellate [14] a fronte di una capacità a pieno regime di circa 10 milioni di tonnellate.
La natura strategica di questo impianto e la difesa o dismissione delle sue capacità produttive sono alla base del futuro dello stabilimento tarantino. Bisognerà vedere se il governo, su spinta della borghesia italiana, sarà favorevole o no alla perdita di un campione nazionale di tale portata. Questo discorso si confronta però con un tessuto produttivo che per essere concorrenziale non può costruire la propria catena del valore all’interno del territorio nazionale e che sfrutta l’apertura dei mercati, le delocalizzazione, i dumping salariali per abbattere i costi di produzioni. Questo vale anche per l’acciaio, non a caso la bilancia commerciale dei prodotti siderurgici per quanto positiva, registra un trend di aumento delle importazioni dell’8,4% con la Germania come capofila seguita da Cina e paesi come l’India che nel 2017 hanno aumentato del 112.9% la propria presenza in Italia.[15]
Se andiamo a vedere come si è mossa ArcelorMittal nel resto del mondo, ad esempio nel caso del siderurgico di Hunedoara in Romania [16], è facile capire che acquistare l’Ilva di Taranto era necessario per non far cadere lo stabilimento in mano ad altri concorrenti. La capacità produttiva è tale da far sentire il proprio peso nel mercato europeo giocando nell’oscillazione positiva e negativa dei prezzi.
D’altra parte ArcelorMittal non ha evidentemente nessun interesse ad un rilancio o ad uno sviluppo del sito, ma è interessata a controllarlo e ridimensionarlo per diminuirne il peso nel mercato. Per gli operai tarantini quella che si profila è la beffa dopo il danno, oltre agli 11.500 decessi stimati causati dalla presenza della fabbrica e le rinunce a diritti e salari dell’ultimo accordo, la prospettiva più realistica è un licenziamento di massa che dopo la salute lascerà a terra anche il lavoro.
Il capitolo Ilva conclude il nostro sguardo al settore siderurgico italiano, evidenziando come le contraddizioni particolari, come quella tra salute e lavoro, siano il riflesso del piano generale di lotta per la sopravvivenza del capitale nella crisi. La borghesia franco-indiana, come quella italiana a capo di Acciaierie Venete, opera scelte sulla base di questo piano generale. Chiusure, delocalizzazioni, tagli alla manutenzione e aumento della produttività a scapito della salute sui posti di lavoro sono le conseguenze più immediate che ricadono direttamente sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici.
Diventa così sempre più chiaro che l’unica via d’uscita dal ricatto dell’alternativa tra la vita e il salario sta nella fuoriuscita dal capitalismo.

La crisi dell’acciaio in Europa e lo scontro con la Cina

Ora cerchiamo di ampliare il nostro sguardo sulla situazione mondiale della produzione siderurgica, una fase che va analizzata a partire dall’ultimo scossone che, negli ultimi dieci anni, ha cambiato attori, strategie e dinamiche del settore.
Il 2009 segna la peggiore contrazione del commercio mondiale degli ultimi settant’anni: gli scambi mondiali dei prodotti siderurgici registrano un calo del 50% circa, determinato dalla trasmissione degli effetti della crisi finanziaria sul piano produttivo e dell’economia reale. La produzione mondiale d’acciaio nel 2009 è stata pari a 1.224 milioni di tonnellate con una riduzione del 7,9% rispetto all’anno precedente. Il crollo della produzione mondiale di acciaio (Cina esclusa) è stato pari al 20,9%, mentre la produzione cinese con 567,8 milioni di tonnelate (oltre il 46% del totale mondiale) in quell’anno è aumentata del 13,5%. Questi dati dipingono un quadro che vede le vecchie potenze capitaliste arretrare (Usa -36%, Ue -29,9% e Giappone -26%) e nuovi attori globali crescere come Cina e India (+ 4,6%). [17]
Mentre la Cina può contare su un mercato interno in crescita più o meno costante e arriva anche a registrare un outlook positivo nelle importazioni di acciaio, i vecchi aggregati soffrono di una crisi profonda del mercato interno. Nella Ue ad esempio, il mercato dell’auto si è contratto del 40% e quello delle costruzioni del 10%. [18] Ed entrambi sono tra i costituenti principali del mercato dell’acciaio.
L’acciaio europeo ha un saldo negativo di 80 milioni di tonnellate [19], tale da spingere i prezzi al ribasso e ridurre i margini di profitto dei produttori. In questo contesto chi la spunta sono ovviamente i grandi monopoli, capaci di acquisire i produttori più piccoli in crisi e distruggere forze produttive, e in particolare quelli che esportano dalle formazioni emergenti (Cina, India), forti dei bassi costi di produzione, di una legislazione ambientale meno restrittiva e di un maggiore sostegno pubblico nell’ambito energetico.
A fronte di questa situazione il padronato europeo dell’acciaio risponde distruggendo forze produttive, l’Erm [20] quantifica in un 7% i posti di lavoro persi dal 2009. La maggior parte dei licenziamenti è avvenuta in Spagna, Belgio, Austria e Regno Unito. Tata Steel ad esempio, colosso indiano proprietario di diversi stabilimenti in Galles, Yorkshire, West Midlands e Teesside, a partire dal 2011 chiude alcune unità e segue lo stesso schema nel 2012, andando a ridurre la propria capacità produttiva, per poi assestarsi e acquistare miniere di minerali per rendersi indipendente dai prezzi del mercato mondiale.
Possiamo affermare che la linea seguita dai gruppi monopolisti protagonisti del mercato europeo sia stata: ridimensionare le capacità produttive allo scopo di assestare il costo dell’acciaio; distruggere i competitori più piccoli, fenomeno questo che abbiamo visto anche in Italia con l’acquisizione dei diversi stabilimenti a ciclo integrale; cercare di direzionare le proprie vendite ai mercati extra Ue e cercare di bloccare l’afflusso dell’acciaio importato.
Il pericolo dei cinesi alle porte, pronti a invadere il mercato europeo con milioni di tonnellate di acciaio ha innescato un aggressivo processo di sostituzione delle importazioni extra Ue, che ha determinato il dimezzamento degli acquisti provenienti da altre aree del mondo: tra 2007 e 2012, il rapporto fra import extra UE e consumo di beni siderurgici è passato dal 21 al 15%. [21] La recessione, in definitiva, ha indotto i produttori europei a trovare nuovi sbocchi tanto sui mercati terzi quanto sul mercato interno.
Il processo di sostituzione delle importazioni extracomunitarie ha giovato in primo luogo alla principale industria siderurgica europea: i produttori tedeschi, infatti, hanno conseguito questo risultato in virtù di una più profonda penetrazione negli altri mercati comunitari e del rafforzamento della propria presenza sul rispettivo mercato nazionale. Tra il 2007 e il 2012 il peso dell’export tedesco sui mercati degli altri membri Ue è passato da 11,8 [22] a 14,7 punti percentuali. Va detto che all’interno del mercato europeo possiamo delineare due approcci alla crisi.
Il primo è quello tedesco, con a capo la Thyssen Krupp e la Salzgitter (che assieme valgono il 50% della produzione nazionale) che hanno sfruttato la crisi per consolidare ed espandere la propria presenza in Ue. Questa operazione non è stata indolore, arrivando ad abbassare e in alcuni periodi azzerare la redditività delle compagnie. La scelta è per certi versi obbligata avendo il proprio mercato interno come riferimento e la propria “testa” ancora a Berlino, sfruttando un sistema dove lo stato tedesco sostiene il principio della libera concorrenza fintanto che avvantaggia la propria borghesia, e in aggiunta la copre anche quando essa fa carte false come nel caso del cartello sui prezzi dell’acciaio con Bmw, Daimler e Wolksvagen.
L’altro approccio è quello dei monopoli mondiali presenti in Ue come ArcelorMittal, i quali possono invece diversificare più facilmente i propri sbocchi, essendo meno dipendenti dal mercato europeo e anzi operare tatticamente un disimpegno dallo stesso come dimostra proprio il taglio degli stabilimenti ritenuti marginali: Grandrange e Florange in Francia, Liegi e Charleroi in Belgio ad opera di ArcelorMittal (multinazionale che dispiega i propri interessi in tutti i continenti).
Alla luce di questi diversi approcci e contraddizioni all’interno dell’aggregato europeo possiamo leggere la politica dell’Ue sul tema siderurgia. Lo shock del 2009 e la seconda crisi del 2012 hanno fatto scricchiolare la linea fino ad allora adottata. Sino al 2002 la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) aveva applicato la linea programmatica della “ristrutturazione gestita” già accennata nel precedente paragrafo, con la quale sosteneva la ristrutturazione del mercato siderurgico europeo con l’obiettivo di accompagnare economicamente le perdite dei posti di lavoro e salvaguardare gli impianti più produttivi. Con la sua chiusura si è affermata la politica della “non gestione” che vedeva nell’apertura dei mercati il motore della siderurgia europea. Licenziamenti, chiusure e il pericolo cinese hanno portato nel 2012 all’istituzione di una tavola rotonda di alto livello (HLR) con tutti i principali attori del settore e nel 2013 alla formulazione del Piano d’azione per una siderurgia europea competitiva e sostenibile. Quest’ultimo prevedeva a parole il miglioramento del quadro normativo, il rilancio della domanda, un migliore accesso a materie prime e mercati, politiche in materia di energia e clima, più innovazione, difesa dell’occupazione e formazione; nella pratica però è risultato essere un arma spuntata dagli interessi incrociati degli stessi padroni dell’acciaio, i quali, non hanno alcun interesse a perseguire obiettivi comuni, quanto piuttosto ad approfondire la concorrenza nella stessa Ue.
Ue che d’altra parte continua sulla linea indirettamente protezionista basata sulle certificazioni di qualità per rendere più attrattivo e profittevole l’acciaio europeo contro quello sopratutto asiatico. Solo nel 2016, a fronte di un picco di acciaio proveniente dalla Cina, l’Ue risponde ponendo dazi provvisori su alcuni prodotti come ad esempio il coils a caldo (colpito con tariffe del 13,2% e il 22,6%) e piatti laminati a caldo e lamiere in generale. L’accusa promossa da Eurofer alla Cina è quella di dumping sleale.
A fronte dei nuovi indici negativi registrati nel 2019 la neo presidentessa della Commissione Europea, la tedesca Ursula Von Der Leyen, ha lanciato il Green New Deal accolto con favore dall’Eurofer. Questo piano prevede di rendere l’Europa carbon neutral entro il 2050: la proposta è quella della completa, o più probabilmente parziale trasformazione dell’industria siderurgica europea in green steel, acciaio decarbonizzato che costerà dal 35 al 100% in più rispetto a quello convenzionale. [23] Tralasciando i “buoni propositi ambientalisti” dei padroni dell’acciaio, questo piano prevede quantomeno due aspetti innovativi: un portafoglio stimato di diverse centinaia di miliardi l’anno di investimenti per la decarbonizzazione e l’abbassamento delle emissioni inquinanti (leggi investimenti pubblici sul capitale fisso) e come proposto da Axel Eggert [24] (direttore generale di Eurofer) un quadro normativo basato sull’impronta di carbonio attraverso la catena del valore, con un adeguamento del tariffario delle frontiere. La proposta prevederebbe l’introduzione di dazi che, con la scusa di svantaggiare i produttori inquinanti, andrebbe a pesare sui produttori extra Ue in funzione principalmente anti-cinese e anti-indiana.
Il nuovo corso green dell’Ue la porterebbe a porsi in sintonia con l’attuale fase del commercio internazionale, anche dell’acciaio, che vede il ripristino di più o meno gravosi dazi e politiche protezionistiche. Alla testa di questa linea ci sono chiaramente gli Usa, il principale paese importatore di acciaio al mondo. Nel solo 2017 le importazioni statunitensi hanno rappresentato circa il 9% di tutto l’acciaio importato a livello globale.
Il dato precedentemente accennato sull’impatto della crisi del 2009 sulla produzione siderurgica Usa (perdita di quasi il 40%) ha avuto come principale ripercussione, oltre la contrazione dell’occupazione, l’aumento delle importazioni. Nel 2013, a causa del rallentamento dell’economia cinese, la produzione di Pechino, generalmente assorbita dal mercato domestico, si è riversata sull’export andando a inondare i mercati di tutti il mondo e determinando un ulteriore abbassamento dei prezzi, in primis quelli Usa che hanno fatto i conti con un attore marginale penetrato velocemente nel loro mercato interno. Da posizione secondaria nel 2017 la Cina guadagna la pole position (circa il 20%), seguita dai paesi Ue (16%) e Canada (13,9%) e Messico (10,1%). [25] 
Il 2009 segna la formalizzazione del ritorno del protezionismo nell’agenda legislativa degli Usa. Con l’American Recovery and Reinvestment Act, la presidenza Obama va ad imporre la clausola “buy american” che obbligava, per lavori pubblici e in materia di edilizia, l’utilizzo di acciaio e di beni industriali prodotti negli Stati Uniti. A seguire, negli ultimi mesi del suo mandato (dicembre 2015) l’amministrazione Obama, mette nel mirino l’acciaio cinese con dazi del 256% sui laminati lunghi.
L’amministrazione Trump si pone in continuità con la linea di difesa della produzione nazionale statunitense, ma invece di valorizzare accordi di libero scambio come il Ttip e il Nafta, promossi dall’amministrazione precedente per isolare la Cina e rafforzare l’egemonia Usa, rimette in discussione le regole del commercio, costruendo rapporti bilaterali e cercando di costringere Pechino a pagare pegno per le sue importazioni. Stesso discorso vale per il secondo principale partner commerciale col quale gli Usa soffrono un forte deficit nella bilancia commerciale: la Germania e di riflesso tutti i paesi Ue.
Nel 2018 Trump impone il 25% di dazi sull’acciaio e il 10% sull’alluminio, nel marzo queste misure entrano in vigore contro la Cina e nel giugno vengono estese ad Europa, Canada e Messico per un valore pari a circa 30 miliardi di dollari l’anno. Ne seguono controdazi e schermaglie che, per ora, hanno portato a nuovi accordi, come quello tra l’amministrazione Trump e Junker che prevede ad evitare i dazi in cambio dell’impegno europeo ad acquistare più soia e gas dagli Usa, ad aumentare l’interscambio nei settori chimici, farmaceutici e dei servizi e a procedere, di comune accordo, alla riforma del Wto.
Fino ad oggi l’importazione di acciaio da parte degli Usa non è diminuita, anzi, la ripresa del mercato interno ha generato un trend in crescita anche del 9% [26] annuo, con un aumento del 145% tra il secondo trimestre 2009 e il secondo trimestre 2019.  [27] A dimostrazione che le politiche protezionistiche non hanno avuto un particolare impatto sulla produzione interna sta il fatto che essa continua ad assestarsi attorno alle 80 milioni di tonnellate e che anzi vive una flessione negativa delle esportazioni dell’8%. [28] Andando a fondo, la produzione siderurgica statunitense non è stata tuttavia in grado di coprire l’intero suo mercato interno e permangono quindi le stesse quote di acciaio importato con l’aggiunta dell’aggravio dei costi per le per le imprese che lo utilizzano.
Ciò non toglie che il protezionismo yankee e in misura minore quello europeo sia una tendenza reale nel capitalismo attuale; il suo determinarsi è fondamentalmente legato alla crisi e alle velleità Usa di difendere il proprio primato economico mondiale, messo a dura prova dai deficit commerciali e dalla crescita dell’imperialismo cinese.

Conclusioni

In questo articolo siamo partiti da un particolare, l’incidente che ha coinvolto due operai delle Acciaierie Venete a Padova causato dalla scarsa manutenzione degli impianti, per arrivare alla guerra commerciale tra Usa e Cina. Le dinamiche del settore dell’acciaio riassumono tutte le contraddizioni del sistema capitalista: la crisi, la guerra, la contraddizione tra capitale e lavoro e quella tra salute e lavoro. Possiamo vedere quindi come il generale, lo scontro economico tra potenze, viva nel particolare che la classe, nello specifico i lavoratori, subiscono in termini di salute, salario, precarietà e diritti.
A differenza di quanto considera l’ambientalismo piccolo borghese che, come abbiamo visto, presta il fianco e fa da reggicoda a chiusure di impianti e stabilimenti (sulle cui sorti sono ben altri gli interessi che pesano), gli operai siderurgici sono un segmento della classe operaia che riveste un ruolo importante nello scontro tra capitale-lavoro.
Il ruolo strategico dell’acciaio è quanto mai fondamentale in una fase di tendenza alla guerra imperialista, le guerre commerciali dimostrano che questo settore deve essere difeso e non può essere lasciato in mano a concorrenti nemici. Possiamo osservare quindi come all’interno di questo settore si sviluppi una contraddizione tra la sua crisi, con le ricadute in termini di chiusure di stabilimenti, problemi occupazionale, riduzione di margini di mercato, ecc. e il ruolo strategico dell’industria siderurgica per lo stato e per la sua classe dominante. Solo così si spiega il tira e molla tra vendite, chiusure, cessioni, mancanza di piani industriali che caratterizza la situazione dei vari stabilimenti italiani.
Gli impianti devono essere ristrutturati, per effetto della crisi, ma anche difesi per il ruolo strategico che hanno. È indubbio che la chiusura di uno stabilimento siderurgico in questo momento può essere un danno peggiore rispetto al mantenerlo in piedi senza trarne profitto. Questo alla luce della contraddizione principale che abbiamo visto determinare il mercato, ovvero lo scontro tra vecchie potenze imperialiste e nuove potenze emergenti. In questo quadro complessivo di tendenza alla guerra sta la ragione principale per salvare in qualche modo campioni come l’Ilva. A proposito di Taranto, non è mancata l’ipotesi di reindirizzare la sua produzione esclusivamente all’acciaio per usi bellici nel quadro di un’industria militare europea. [29] 
Capiamo quindi che gli operai siderurgici quando lottano su aspetti particolari come la salute e la sicurezza, il salario o i diritti, si scontrano anche con le contraddizioni che abbiamo provato a definire nel testo. Il settore nel quale operano è strategico per il capitalismo, questo fattore rende necessariamente anche la loro lotta centrale nei rapporti di forza complessivi del proletariato.
La dimostrazione pratica è data dalla questione di Taranto, sulla quale la partita che si gioca riguarda il futuro della siderurgia italiana ed europea.


Note:

1 https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/09/12/padova-incidente-acciaierie-venete-indagati-per-omicidio-colposo-5-manager-tre-aziende-responsabili-necessita-di-contenere-i-costi/5449458/

2 https://corrieredelveneto.corriere.it/padova/%20cronaca/19_settembre_12/padova-mortiacciaierie-venete-pm-reati-tagliare-costidac4990a-d52e-11e9-9ff7-d14f825d2046.%20shtml

3 https://www.worldsteel.org/en/dam/jcr:96d7a585-e6b2-4d63-b943-4cd9ab621a91/World%2520Steel%2520in%2520%20Figures%25202019.pdf

4 Si definisce ciclo integrale il processo siderurgico che, grazie all’altoforno, trasforma il minerale in ghisa e questo in acciaio, in alternativa si usa il forno elettrico, il quale tramite elettrodi in carbonio, fonde rottame di origine acciaiosa.

5 https://www.pandorarivista.it/articoli/dismissione-ilva-bagnoli/

6 http://federacciai.it/wp-content/uploads/2019/10/RELAZIONE-ANNUALE-2019.pdf

7 http://archivio.fiom.cgil.it/siderurgia/materiali/07_steelmaster_tesi.pdf

8 http://federalistico/wp-content/uploads/2018/10/Assemblea-Annuale-2018_RELAZIONE-ANNUALE.pdf

9 https://www.ilsole24ore.com/art/ferriera-trieste-area-caldo-la-chiusura-AClKSHi

10 https://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2012/09/10/news/auto_elettrodomestici_tubi_quanto_conta_lacciaio_ilva_per_lindustria_italiana-42253871/

11 http://www.siderlandia.it/2.0/piatto-acciaio/

12 https://europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A7-2014-0028+0+DOC+XML+V0//IT

13 https://www.worldsteel.org/en/dam/jcr:96d7a585-e6b2-4d63-b943-4cd9ab621a91/World%2520Steel%2520in%2520Figures%25202019.pdf

14 https://www.ilsole24ore.com/art/patuanelli-ilpiano-area-caldo-breve-periodo-poi-decarbonizzare-cambiano-aiuti-40-ACP5BUz

15 http://federacciai.it/wp-content/uploads/2018/10/Assemblea-Annuale-2018_RELAZIONE-ANNUALE.pdf

16 https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/11/19/arcelormittal-non-solo-lilva-il-precedente-della-taranto-di-romania-ha-acquisito-il-siderurgico-poi-licenziamenti-e-dismissioni/5568523/

17 http://archivio.fiom.cgil.it/siderurgia/materiali/10_06_28-Relazione_1.pdf

18 Downloads/Steel+in+the+European+Union+Vera+Trappmann.pdf

19 Ibidem

20 L’European Restructuring Monitor è l’ente europeo che monitora e analizza l’impatto occupazionale su gli eventi di ristrutturazione in larga scala

21 http://www.siderlandia.it/2.0/piatto-acciaio/

22 https://www.ilcampodelleidee.it/articoli/inchiesta-sulla-siderurgia-prima-parte-ilmercato-i-problemi-le-opportunit%C3%A0-idiversi-siti

23 https://www.steeltimesint.com/news/view/european-green-deal-could-make-eu-steel-industry-the-flagship-for-climate-p24

24 Ibidem

25 http://www.worldstopexports.com/us-iron-and-steel-imports-by-supplier-countries/

26 http://www.worldstopexports.com/us-iron-and-steel-imports-by-supplier-countries/

27 https://legacy.trade.gov/steel/countries/imports/us.asp

28 Ibidem

[29] https://formiche.net/2019/12/ilva-scommessa-europea/

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