Dalla scuola alla società
Per una lettura di classe dell’istituzione scolastica nella crisi del capitalismo
“Controrivoluzione ed egemonia di classe” da Antitesi n.08 – pag. 49
Negli ultimi anni numerosi studenti ribellatisi all’alternanza scuola lavoro sono stati oggetto di provvedimenti repressivi. “Dopo il caso del Vittorio Emanuele II di Napoli, in cui il Fai (Fondo ambientale italiano) ha chiesto misure disciplinari e il 7 in condotta per gli studenti che hanno protestato per essere stati obbligati a prestare servizio di domenica e dopo una settimana di vacanza studio” è arrivato “addirittura il 6 in condotta per chi si lamenta pubblicamente dell’alternanza scuola-lavoro” a danno di uno studente dell’Itis di Carpi “reo”, secondo il consiglio di classe, di aver espresso su Facebook “delle criticità riguardo al progetto di alternanza che prevedeva l’esecuzione di una mansione ripetitiva per la quale, secondo lo studente, bisogna essere pagati”. [1]
L’esempio particolare della cosiddetta “alternanza scuola lavoro” ci permette di iniziare ad analizzare la situazione attuale dell’istituzione scolastica. La sua messa a regime è stata il coronamento del connubio tanto ricercato dalla classe dirigente tra pubblico e privato, laddove quest’ultimo oggi fa valere il peso della propria ingerenza e il primo fornisce forza lavoro gratuita ad aziende e multinazionali, sotto il cappello retorico della formazione.
Il Miur (Ministero istruzione università e ricerca) con Bussetti ha ridefinito e dimezzato le ore di alternanza scuola lavoro (passate da 200 a 90 nei licei, da 400 a 150 negli istituti tecnici e 210 negli istituti professionali), ma le ha fatte rientrare nel conteggio dei crediti che concorrono al voto finale dell’esame di maturità. Infatti, nell’ottica di cambiare la forma, ma non mutare la sostanza, l’alternanza non viene più definita tale, ma genericamente “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”. E, secondo l’ordinanza ministeriale dell’11 marzo 2019, proprio questi eventuali percorsi “concorrono alla valutazione delle discipline alle quali tali percorsi afferiscono e a quella del comportamento e contribuiscono alla definizione del credito scolastico”.
Nella pratica, in sede di scrutinio, i docenti del consiglio di classe devono prendere in considerazione anche l’esperienza di alternanza scuola-lavoro per attribuire il punteggio dei crediti accumulati nel triennio. Da un lato abbiamo delle tabelle di conversione piuttosto precise: la media del 6, ad esempio, equivale a 27 crediti, mentre quella compresa fra il 9 e il 10 è pari a 40 crediti, ma, d’altro canto, sorge spontaneo chiedersi in che modo i docenti possano attribuire un punteggio relativo alle esperienze lavorative, quando queste ultime sono differenti le une dalle altre e assolutamente soggettive.
Far sì che l’alternanza concorra al voto di maturità rappresenta un grande ricatto a danno delle studentesse e degli studenti. Da questo particolare apprendiamo come, sul piano generale, l’istituzione e la strenua difesa da parte padronale dell’alternanza siano finalizzati a crescere studenti selezionati e disciplinati ad accettare l’orizzonte dello sfruttamento, instillando la concezione che la stabilità lavorativa sia direttamente proporzionale alla propria “flessibilità”, ovvero all’accondiscendenza di fronte a qualsiasi condizione lavorativa, a favore della produttività.
In generale, una ricerca curata dall’Unione degli Studenti (Uds) ha riscontrato che il 57% degli studenti è stato costretto a seguire progetti di alternanza non attinenti al proprio percorso di studi, il 40% ha dichiarato violazioni del diritto in sede di lavoro e il 38% ha affermato di aver dovuto pagare per seguire il percorso obbligatorio. [2]
Inoltre, se consideriamo che la scuola sia uno degli specchi della società, non possiamo non notare come l’alternanza si sia tradotta anche in numerosi incidenti a danno degli studenti impiegati a lavorare gratuitamente. Oltre agli incidenti non denunciati, da Faenza a Udine, da Modena a Carpi, da Napoli a Roma, fino a Ravenna, se ne sono registrati alcuni molto gravi, come a La Spezia dove uno studente è rimasto schiacciato sotto un carrello elevatore [3] o a Prato, dove un ragazzo ha subito l’amputazione della falange di un dito. [4]
Tuttavia l’alternanza scuola-lavoro è solo uno degli aspetti che caratterizza l’impostazione aziendale dell’istituzione scolastica nella fase attuale di crisi del sistema capitalista. Un altro esempio, forse meno visibile, è rappresentato dalle prove Invalsi, ovvero i test redatti dall’Istituto Nazionale per la Valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione. Queste prove vorrebbero valutare i livelli di apprendimento di alcune competenze fondamentali nella lingua italiana, in inglese e in matematica, tramite determinate misure standarizzate. Si vorrebbe affermare che queste ultime siano uguali per tutti, favorendo dei risultati comparabili fra istituti scolastici differenti e fra regioni diverse. Nella pratica però balza agli occhi quanto questi test, in maniera discriminatoria, favoriscano quasi esclusivamente l’utilizzo della memoria e tendano ad annullare un approccio critico. Ad esempio è facile imbattersi in un breve brano narrativo in cui si deve rispondere alla domanda: “Che cosa voleva comunicare l’autore?”. Viene da sé che una manciata di risposte a crocette sia quantomeno riduttiva e che ogni lettore possa avere una propria interpretazione soggettiva inerente a quanto l’autore volesse comunicare.
Anche in questo caso la standardizzazione contribuisce ad impoverire il pensiero, a crescere individui addomesticati alle scarse possibilità preconfezionate a disposizione, ma non solo, questi test si traducono in giudizi sommari e anche in esiti discriminatori e soprattutto classisti.
Non affrontiamo questioni “nuove” in questo senso: già Antonio Gramsci approfondiva le “questioni scolastiche” laddove riscontrava che gli studenti fallivano nelle questioni “facili”, sostenendo che “gli appunti e le dispense si fermano sulle questioni “difficili”: nell’insegnamento stesso si insiste sul “difficile”, nell’ipotesi di un’attività indipendente dello studente per le “cose facili”. Quanto più si avvicinano gli esami tanto più si riassume la materia del corso, fino alla vigilia, quando si “ripassano” solo appunto le questioni più difficili: lo studente è come ipnotizzato dal difficile, tutte le sue facoltà mnemoniche e la sua sensibilità intellettuale si concentrano sulle questioni difficili. Per l’assorbimento minimo: il sistema delle lezioni-conferenze porta l’insegnante a non ripetersi o a ripetersi il meno possibile: le questioni sono così presentate solo entro un quadro determinato, ciò che le rende unilaterali per lo studente. Lo studente assorbe uno o due del cento detto dall’insegnante, ma se il cento è formato da cento unilateralità diverse, l’assorbimento non può che essere molto basso”. [5]
Oggi la scuola è, nel contempo, bacino di formazione di forza lavoro giovanile, disciplinata, selezionata, repressa, ma anche contenitore di non lavoro. Dato lo scarso assorbimento nel mercato di forza giovanile qualificata, la scuola funge, infatti, anche da contenitore sociale (transitorio) in quei contesti geografici dove la disoccupazione giovanile raggiunge cifre importanti. Secondo la nota trimestrale dell’Istat pubblicata il 18 dicembre e relativa al terzo quarto del 2019 (luglio-settembre dello scorso anno), il tasso di disoccupazione a livello nazionale (età 15-64 anni) è pari al 9,8% e corrisponde a più di due milioni e mezzo di residenti in Italia che cercano un lavoro ma non lo trovano. [6] Si tratta di un dato che non tiene conto di tutti coloro che hanno rinunciato a cercare un impiego regolare e che considera “occupato” anche chi ha lavorato almeno un’ora nella settimana precedente alla rilevazione. È un dato parziale, anche perché non considera le differenze tra disoccupazione maschile e femminile (quest’ultima più alta di un punto percentuale). Il tasso di occupazione dei maschi è pari al 68,2%, quello delle femmine al 50,2% e, se guardiamo ai dati del tasso di disoccupazione suddivisi per fascia d’età, emerge una situazione poco omogenea che vede i lavoratori più anziani in una condizione nettamente migliore rispetto ai più giovani. Il tasso di disoccupazione nella fascia 15-34 anni è, infatti, pari al 17,8%, quasi il doppio rispetto al dato generale [7] e la situazione peggiora al Sud dove, secondo Confindustria e il centro studi del Gruppo Intesa San Paolo Srm-Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, la disoccupazione giovanile raggiunge il tasso record del 51,9%. [8]
Sul piano generale la scuola sta subendo un processo in divenire: da un lato rimane pubblica, ma dall’altro è sottoposta a continui tagli e sopravvive in primis grazie ai contributi individuali delle famiglie (teoricamente volontari, ma nella pratica fortemente caldeggiati). Fino alla metà degli anni Novanta, le scuole italiane erano considerate organi dello Stato, ai quali i decreti delegati del 1974 conferivano un’autonomia amministrativa e una normativa nella gestione dei fondi annuali per il funzionamento didattico amministrativo e nell’adozione del regolamento interno d’istituto. La riforma Bassanini (legge 59/1997) introduce invece la cosiddetta autonomia delle istituzioni scolastiche, disciplinata dal Dpr 275/1999, che permette al Governo di riorganizzare la scuola potenziando, per l’appunto, l’autonomia delle istituzioni scolastiche ed educative. Dietro alle belle parole introdotte anche nella carta costituzionale, l’autonomia scolastica ha favorito i principi di aziendalizzazione e privatizzazione: la scuola è entrata nel circuito degli “sponsor” e dei bandi ed è stata costantemente oggetto di tagli alle spese di bilancio e di riforme governative che, di volta in volta, si sono rivelate le une le continuazioni peggiorative delle altre. Dalla riforma Gelmini alla “Buona Scuola” di Renzi (legge 13/07/15 n. 107), sono stati aumentati i poteri dei dirigenti scolastici, è stato inserito un dubbio sistema di valutazione del personale docente ed è stata resa obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro prima citata, fortemente perseguita anche dai ministri dei governi succedutisi, entrando in vigore dal 31 maggio 2017.
L’insieme di questi dispositivi sta contribuendo non solo al disciplinamento delle componenti studentesche, ma anche alla selezione classista delle stesse. Pensiamo alla diversificazione di strumenti a disposizione delle istituzioni scolastiche,vediamo infatti scuole che lamentano l’inadeguatezza della strumentazione (tale da non poter formare una manodopera qualificata) e altre strutture che invece “vantano” parchi macchine degni delle migliori aziende. Balza agli occhi come la prima tipologia di scuole sia quella di istituti dove i finanziamenti scarseggiano e dove pure scarseggia l’inclusione linguistica e il sostegno. Ciò innesca spesso dinamiche di guerra tra poveri a danno degli studenti di origine immigrata.
Se dagli anni Sessanta la scuola ha attraversato un processo di massificazione, le riforme più recenti in ordine temporale vanno nella direzione contraria. Questo per rimodulare l’istituzione scolastica rendendola sempre più funzionale alla produzione sotto due aspetti. Il primo è il profitto delle aziende, determinato anche dal risparmio ottenuto con forza lavoro gratuita (come nei casi dell’alternanza e degli stage) e attraverso l’ingerenza degli sponsor o, peggio ancora, delle multinazionali come Amazon che si autopromuove tramite l’iniziativa “un click per la scuola”, dopo aver messo in ginocchio la piccola e media distribuzione. Il secondo aspetto di integrazione della scuola nel processo produttivo è la riproduzione e la sedimentazione di un modello culturale che prevede l’”addomesticabilità” allo sfruttamento e una salda visione europeista che, come vedremo nella seconda parte dell’articolo, è ovviamente eurocentrica. Infatti, soprattutto in questa fase, si palesa come il sapere sia tutt’altro che neutro, ma piuttosto funzionale a riprodurre dei processi di insegnamentoapprendimento standardizzati nella logica dell’istruzione come merce e nel contesto della scuola come azienda.
Due esempi contemporanei di egemonia
Oggi nella fase di crisi del sistema capitalista e di tendenza alla guerra imperialista, anche la scuola ne è investita. Caserme, poligoni, scali aerei, approdi delle portaerei, bunker e depositi diventano i luoghi sempre più gettonati da dirigenti scolastici e docenti proprio per l’alternanza che abbiamo visto nella prima parte dell’articolo. “Comandi, generali, ammiragli offrono opportunità “formative” di ogni tipo: alcune sono mere duplicazioni di quanto potrebbe essere proposto dagli stessi insegnanti o da enti e associazioni no profit “civili”; altre hanno solo lo scopo di ottenere manodopera a costo zero che possa cucinare, servire a mensa e fare da giardiniere in caserma. Poi ce ne sono diverse invece che sono uniche e irripetibili: come quelle di poter lavorare fianco a fianco ai top gun e ai manovratori di sommergibili e carri armati o di poter mettere le mani ai misteriosi circuiti che consentono il funzionamento di sistemi missilistici, bombe, mine e velivoli senza pilota”. [9]
A questo proposito lo scenario nazionale è eterogeneo ripercorrendo una storica divisione: un Nord Italia, notoriamente più competitivo a livello di aziende private, dove questi percorsi sono più rari (ma non assenti) e le regioni meridionali dove più frequentemente si registrano corsi e tirocini presso le forze armate, rivolti sia ai licei, sia agli istituti. “Inedita è la lista dello Stato Maggiore della Difesa sui percorsi formativi attivabili presso comandi, reparti e infrastrutture militari, previa stipula di protocolli e accordi con gli Uffici scolastici regionali e i dirigenti di istituti e licei. L’elenco riempie 17 cartelle: dietro misteriose sigle e ignoti acronimi si nascondono spesso quasi tutti i principali comandi e i reparti d’elite sempre più impegnati in “missioni internazionali”. [10]
L’ingerenza delle forze armate all’interno delle mura scolastiche è, da alcuni anni, molto forte anche in occasione di giornate come il 4 novembre, dedicato proprio alle forze armate. In queste occasioni numerose classi scolastiche, di ogni ordine e grado, vedono arrivare in aula poliziotti, carabinieri e militari non solo dediti a retoriche nazionalistiche e patriottiche, ma soprattutto tesi a reclutare forza lavoro. Da un lato vengono presentati attività e corsi di carattere amministrativo-contabile, di servizio mensa, di officina meccanica, sicurezza delle reti informatiche o di cura e manutenzione del verde, ma in particolare sono disponibili anche dei “pacchetti formativi” di alcune ore per il controllo traffico aereo, per il materiale aeronautico, per vestiario ed equipaggiamento o per il funzionamento del cacciabombardiere Tornado.
La presenza sempre più frequente dei militari nelle scuole non avviene certo a caso, ma per due motivi, analogamente a come descritto sopra per l’alternanza scuola-lavoro. Da un lato abbiamo la ricerca di forza lavoro a costo zero, ma in primis l’obiettivo è culturale, ovvero far accettare e avvalorare l’imperialismo italiano, le sue spese e le sue missioni. Queste non possono essere criticate, ma anzi la retorica nazionalista le definisce indispensabili non solo per la nostra “sicurezza”, ma anche per la stabilità di tutti quei paesi che man mano finiscono nel mirino degli imperialisti per essere depredati e controllati.
Se da un lato l’Ufficio stampa dell’esercito si vanta di aver coinvolto per due settimane gli studenti dell’Istituto G. Medici di Legnago, inquadrati a cantare l’inno coi propri docenti issando la bandiera davanti al reggimento schierato, dall’altro lato i professori che rifiutano o criticano questo genere di ingerenza vengono costantemente sottoposti a provvedimenti disciplinari, come richiami o sospensioni, accompagnati da una buona dose di fango mediatico a loro danno.
La pratica dell’uso dei media, rispetto al rafforzameato ell’egemonia del pensiero della classe dominante all’interno della scuola, è riscontrabile oltre al 4 novembre anche per la giornata del 10 febbraio in commemorazione delle foibe. Quest’ultima viene istituita nel calendario civile con la legge 30 marzo 2004 scegliendo il giorno dei Trattati di Pace del 1947 firmati a Parigi e, forte dell’appoggio bipartisan della classe politica italiana, contribuisce fortemente al revisionismo storico sui fatti del confine orientale.
In teoria la cosiddetta democrazia dovrebbe garantire, in qualsiasi caso, la possibilità di confronto e di documentazione storica, ma queste vengono meno soprattutto quando si affronta il tema distorto delle foibe e degli esuli. In questi anni, infatti, abbiamo letto numerosi materiali di approfondimento di esperti come Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi, Sandi Volk, Giacomo Scotti, Davide Conti e molti altri, o di collettivi come WuMingFoundation, puntualmente attaccati dalla propaganda fascista, ma anche colpiti dalla negazione di spazi e agibilità da parte di Comuni, scuole e dipartimenti universitari. Proprio all’interno degli istituti scolastici l’agibilità di “esperti” o “testimoni” è garantita solo ad una parte ben precisa, alla quale non viene mai chiesto conto delle fonti storiche, ovvero alle associazioni di esuli impegnate nella retorica di salvaguardare l’identità italiana nell’Adriatico Orientale.
Così, astraendosi da qualsiasi contestualizzazione, davanti a centinaia di studentesse e studenti, gli ospiti invitati nelle scuole narrano la favola degli italiani perseguitati dai feroci partigiani titini in quanto italiani, “dimenticandosi” di raccontare le atrocità della precedente aggressione unilaterale e dell’occupazione fascista a danno dei territori dell’allora Regno di Jugoslavia.
La celebrazione del 10 febbraio, con tutta la sua retorica nazionalistica, si insinua in primis proprio nelle scuole, anche tramite uscite didattiche presso luoghi come la cosiddetta Foiba di Basovizza, nel comune di Trieste, nella zona dell’altopiano del Carso. Questo pozzo di ispezione minerario è stato reso monumento nazionale da un decreto del 1992 del Presidente della Repubblica Scalfaro e “Oggi, oltre alle cerimonie ufficiali delle autorità che vanno a rendere onore agli infoibati, senza rendersi conto che l’unica persona della quale si sa che è stata uccisa lì era un torturatore al servizio dei nazifascisti, si svolgono anche raduni di neofascisti e neonazisti che in una selva di saluti romani inneggiano ai “camerati caduti nelle foibe”. [11] Perciò migliaia di studenti in questi anni si stanno recando presso un luogo dove non sono mai stati rinvenuti cadaveri, come testimoniato dal Comando Generale dell’Ottava Armata britannica. [12]
L’aspetto particolare degli ospiti invitati e di quelli tassativamente esclusi nelle scuole nella “Giornata del Ricordo” ci fa riflettere, sul piano generale, sull’obiettivo a monte di queste mistificazioni portate avanti con tanto livore. Tramite una propaganda nazionalista, razzista e anticomunista, la classe dirigente mira a rafforzare l’egemonia culturale dominante, per dividere i proletari, infangando la Resistenza partigiana e riabilitando il fascismo. Il passato viene riscritto per dominare il presente, per rimuovere l’esempio di una resistenza internazionalista che ha unito partigiani italiani e jugoslavi, per legittimare il colonialismo di ieri e avvalorare l’imperialismo di oggi.
La tendenza al disciplinamento culturale che prende ulteriore corpo in occasione del 10 febbraio ricade in primis a danno degli insegnanti che vengono coinvolti in episodi politici repressivi. Ricordiamo, infatti, che il partito di Fratelli d’Italia nella regione del Friuli Venezia Giulia, tramite il deputato Walter Rizzetto, ha presentato una proposta di legge centrata sul cosiddetto “negazionismo delle foibe” mirata proprio contro gli storici: “Chiediamo che le associazioni di esuli siano interpellate dagli enti locali prima di autorizzare o concedere spazi per lo svolgimento di eventi sulle foibe, e che siano le sole ad essere coinvolte nell’elaborazione dei piani di formazione ed insegnamento nelle scuole (…) Chiediamo inoltre una modifica al codice penale affinché sia previsto specificatamente come reato l’apologia e negazione degli eccidi delle foibe”. [13] Tutto questo con l’obiettivo di uniformare l’insegnamento alla propaganda fascista anticomunista alla quale i testi scolastici si sono già adeguati.
La paura che venga a rompersi quel canale egemonico di trasmissione culturale – che gli insegnanti antifascisti possono minare – è evidente anche in numerosi casi di intimidazioni, provvedimenti e sospensioni a danno del corpo docente in tutta Italia. Ricordiamo il caso della docente palermitana sospesa per 15 giorni, e non ancora riabilitata pur essendo tornata in classe, perché, in un video realizzato dai suoi studenti venivano accostate le leggi razziali alle Leggi Sicurezza targate Salvini. Ricordiamo bene anche il caso del licenziamento dell’insegnante di scuola primaria a Torino, finita nel mirino della stampa locale e nazionale per aver partecipato ad una mobilitazione antifascista nel capoluogo piemontese, “rea” di aver insultato i poliziotti che stavano difendendo un appuntamento elettorale di Casapound. Emblematico il responso del Tribunale, secondo il quale “Si resta docenti anche fuori dalle aule”, come se non fosse doveroso scendere in piazza per fermare un comizio fascista. O ancora, ricordiamo il caso di una docente precaria a Padova, fermata e rilasciata in un contesto di piazza mentre Forza Nuova manifestava contro il diritto delle donne all’interruzione volontaria di gravidanza e accusata di resistenza a pubblico ufficiale. Ebbene l’assessora all’istruzione della Regione Veneto, la fascista Donazzan, ha fatto del tentativo di licenziamento, non riuscito, una sua personale battaglia ben accompagnata dal fango mediatico di cronisti fin troppo fedeli alle veline della questura cittadina.
Questi scribacchini sono anche protagonisti del risalto mediatico alle operazioni di polizia all’interno delle istituzioni scolastiche. Non sono pochi i casi in cui solerti giornalisti hanno sostenuto che “le soffiate dei docenti” agli studenti abbiano permesso a questi ultimi di farla franca davanti ai controlli… Difatti anche il tema del consumo di sostanze rientra in quella campagna sulla sicurezza che si concretizza in strumenti di sorveglianza, delazione e punizione. Le telecamere e le irruzioni dei militari con i cani antidroga all’interno delle aule rientrano sempre più frequentemente in quella prassi autoritaria-repressiva che si sta concretizzando nelle scuole, in antitesi alle prospettive educative, di conoscenza, consapevolezza e responsabilità che la scuola stessa dovrebbe incarnare.
Il protagonismo studentesco
Negli ultimi anni, da Nord a Sud, si sono registrate significative proteste contro l’alternanza scuola lavoro: da Roma a Torino, da Milano a Venezia, da Palermo a Genova, da Napoli fino a Firenze. In certi casi gli studenti hanno anche fisicamente sanzionato alcuni dei luoghi dello sfruttamento del lavoro gratuito giovanile, come Mc Donald’s. In generale le accuse da parte degli studenti hanno riguardato la gratuità del lavoro svolto, la mancanza di indicazioni temporali, di controlli dei soggetti attivanti e di criteri di accesso e idoneità allo svolgimento delle mansioni del “tutor”.
In linea con la seconda parte di questo articolo, riscontriamo anche come queste mobilitazioni siano state talvolta aggredite dai fascisti, come accaduto a Roma, a conferma del loro ruolo di servi del potere.
Un’altra tematica fondamentale che ha pervaso numerose scuole e mobilitato gli studenti in tutto il paese è stata quella della vera sicurezza di cui gli alunni hanno bisogno: quella infrastrutturale. Oltre al fatto che circa 4 milioni e mezzo di studenti in obbligo scolastico vivano in zone ad alta o medio-alta pericolosità sismica, dove si trovano 17.187 edifici scolastici, il Miur ha affermato che oggi solo il 53,2% delle strutture possiede il certificato di collaudo statico e il 53,8% non ha quello di agibilità/abitabilità. [14] Si sono registrati presidi e manifestazioni studentesche a favore di finanziamenti per la messa in sicurezza degli edifici scolastici dove, invece, a quanto pare vengono spesi milioni di euro per installare nuove telecamere e far fare irruzione nelle aule agli agenti di polizia con i loro cani antidroga. Tuttavia la novità degli ultimi mesi è senz’altro rappresentata dagli studenti medi più avanzati che hanno iniziato a riprendersi le aule e gli spazi all’interno delle scuole, ma anche le strade, portando e rafforzando dei contenuti anticapitalisti all’interno di mobilitazioni di massa, come quelle di Fridays For Future.
Il tema della crisi climatica non è infatti specificatamente inerente al mondo della scuola, ma molti studenti si sono rivelati capaci di andare oltre il contenuto della raccolta differenziata e di mettere in discussione il sistema produttivo che causa il surriscaldamento del pianeta. Dalle assemblee studentesche alle mobilitazioni, fino ai presidi di fronte ad aziende note per lo sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente (Eni, Mc Donald’s, H&M, Zara ecc.), si sono fatti largo slogan come “Bloccare il sistema”, a testimonianza dell’enorme importanza del ruolo degli studenti medi nel movimento di massa. Non a caso, da quando si sono registrati una diffusione e un rafforzamento di determinati contenuti anticapitalisti all’interno del movimento, quest’ultimo ha avuto un notevole calo di risalto mediatico. Quando un movimento, che la classe dominante vuole teleguidare mediaticamente, si conquista autonomia, essa finisce con dargli meno copertura mediatica, per poterlo silenziare e chiudere a piacimento.
Nonostante le molteplici forme di disciplinamento e controllo all’interno delle mura scolastiche, le studentesse e gli studenti mostrano un altro volto rispetto alla narrazione che li vorrebbe lobotomizzati di fronte ai loro smartphone. Sono infatti numerose le proteste delle componenti studentesche avverse alla logica classista dei numeri chiusi all’Università e tese a rivendicare quegli spazi che i formidabili cicli di lotte del ‘68 e del ‘77 riuscirono ad aprire. Non si è trattato di briciole concesse per grazia padronale, bensì di risultati ottenuti dalla lotta di classe di cui il movimento studentesco in Italia è stato uno dei soggetti principali, dall’altra parte della barricata rispetto alla classe dominante.
Il suo punto di forza non è stato solo la carica rivoluzionaria giovanile, ma il legame politico con la classe operaia, in un fronte unito, che oggi, pur in contesti spaziali e temporali differenti, si riproduce nella sostanza nelle mobilitazioni in Francia e in Cile. Da questi esempi è indispensabile trarre degli insegnamenti da sperimentare e praticare qui, consapevoli che nuovi compagni come quadri politici vanno formandosi proprio a partire dalle esperienze di lotta condotte nelle scuole superiori.
Se guardiamo all’aspetto fondamentale, la scuola può essere definita una sovrastruttura culturale: un apparato riproduttivo sul piano educativo, ovvero “la scuola di un sistema” che trasmette, tutela e riproduce il pensiero e gli interessi della classe al potere. Tuttavia se analizziamo l’aspetto principale, ci riconduciamo all’origine dell’istruzione pubblica di massa, sorta e sviluppatasi come rivendicazione della classe operaia e risultato delle lotte del proletariato per il miglioramento delle proprie condizioni. Per questo motivo ogni comunista si è mobilitato e si mobilita per la sua difesa.
La scuola è dunque un’unità di opposti tra apparati egemonici e conquista delle masse popolari. Qui si confrontano l’egemonia della classe dominante, per la quale la scuola è stata concepita e tendenzialmente plasmata, e l’egemonia della classe operaia, che si manifesta soprattutto con la sua difesa come istituzione di elevazione culturale delle masse popolari e con la capacità di utilizzare gli strumenti culturali trasmessi contro la classe dominante stessa.
In conclusione, rispetto alla scuola, noi comunisti dobbiamo contribuire a difendere l’agibilità politica degli insegnanti, con gli strumenti sindacali e politici a disposizione, praticando la solidarietà nel concreto, dai presidi di lotta alle casse di solidarietà. Nel contempo, e questo è l’aspetto principale, dobbiamo far sì che la classe padronale faccia sempre più fatica a controllare il movimento giovanile promuovendo al contrario un suo sviluppo collegato alle istanze e alle lotte della classe operaia. Possiamo farlo rafforzando e allargando il dibattito, affinché si formino nuove leve di compagni e avanguardie di lotta, fornendo strumenti ideologici e tecnici contro la repressione, cercando di trasformare la scuola in una “casamatta”, per citare Gramsci, per influenzare il resto della società, verso il rovesciamento di un sistema che porta inevitabilmente alla guerra, sul fronte esterno tanto quanto su quello interno.
Note:
1 da Infoaut, 6 in condotta a chi critica l’alternanza scuola-lavoro, in Saperi, 4 aprile 2018
2 Corriere.it, alternanza scuola-lavoro studenti in piazza: cortei, slogan e lanci di uova, 13 ottobre 2017
4 infoaut.org/precariato-sociale
5 Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Editori riuniti, 1991, pag 152
6 agi.it, 20 dicembre 2019
7 Ibidem
8 ilfattoquotidiano.it 17 luglio 2019
9 L’ora dello studente guerriero antoniomazzeo.blogspot.com -i percorsi di alternanza scuola-forze armate , 8 febbraio 2020
10 Ibidem
11 Claudia Cernigoi, “Operazione Plutone”, le inchieste sulle foibe triestine, edizioni Kappa Vu, 2018, pag 61
12 Ivi, pag 41
13 triesteallnews.it
14 ilbolive.unipd.it , 19 aprile 2019