Lotta politica, lotta ideologica, lotta economica
“Editoriale” da Antitesi n.07– pag.2
“Chi l’avrebbe mai detto, tornare in piazza per conquiste che ritenevamo intoccabili”. È un’affermazione che probabilmente tutti noi abbiamo sentito, nelle piazze, durante qualche manifestazione, magari pronunciata da qualche compagno con più anni di militanza o da un proletario o una proletaria che ha partecipato a mobilitazioni nel passato e oggi ha deciso che era nuovamente necessario farlo.
Infatti, gli attacchi alle nostre condizioni di vita non mancano: un’offensiva che tocca anche conquiste ritenute simboliche di intere stagioni di lotta, come il diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiusto, di fatto abolito dal governo Renzi, e il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, oggi minacciata da un vasto fronte reazionario, che va dalla Lega al Vaticano.
Certamente, può sembrare una frase scontata, ma in realtà nasconde un concetto profondo, ovvero la dialettica tra piano politico e piano materiale e immediato nella lotta tra le classi.
Che significa?
Innanzitutto chiariamo che, nel caso specifico, per “piano politico” intendiamo tutto ciò che, in termini di pratiche e idee, spinge per l’esercizio della direzione della società, quindi, in ultima analisi, per l’esercizio del potere politico e statuale dell’una o dell’altra classe e della strategia e della tattica per conquistarlo.
Per “piano materiale e immediato” intendiamo, nel caso specifico, non solo le condizioni di lavoro e materiali (salario, pensioni, occupazione, tassazione, accesso ai servizi…), ma in senso più vasto tutto ciò che direttamente riguarda le condizioni di vita quotidiana e reale dei proletari e delle masse popolari e dunque diritti “civili” (aborto, divorzio, status famigliare…), immigrazione, questione ambientale, vivibilità dei territori, diritto alla casa…
In sostanza, tale piano materiale e immediato riguarda la modificazione dei termini di rapporto tra le classi, ma non il rapporto stesso: la misura e l’intensità dello sfruttamento e dell’oppressione, non la fine dello sfruttamento e dell’oppressione che sono insiti nella struttura del rapporto di produzione capitalista.
Tanto è vero che la struttura è l’aspetto fondamentale di ogni società, quanto è vero che l’aspetto principale è dato generalmente dal detenere il potere politico da parte dell’una o dell’altra classe. Attraverso il potere politico, la classe dominante può ovviamente dirigere lo sviluppo della struttura, nei limiti dello sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali dati in una fase, così come detiene la leva più importante per determinare il piano materiale e immediato nel quale vivono il resto delle classi. Ovviamente tale determinarsi deriva concretamente dai rapporti egemonici e di forza con le altre classi, da ciò che le classi oppresse, pur private del potere politico, riescono a concepire di imporre e riescono effettivamente ad imporre.
Da qui il senso perfettamente aderente alla realtà della frase da cui siamo partiti, “il tornare in piazza”: finché la classe sfruttatrice detiene il potere politico, le classi oppresse dovranno rapportarvisi per strappare condizioni di vita migliori e successivamente dovranno dimostrare dei rapporti di forza tali da difendere le conquiste ottenute. Il movimento comunista ha definito tale lotta per migliorare e difendere le proprie condizioni di vita come “lotta economica”. Infatti, storicamente, il movimento proletario è nato sul piano rivendicativo, cioè lottando per migliori condizioni di vendita della forza lavoro ai capitalisti, in termini di salario, orario, ritmi… Invece, tale piano rivendicativo della “lotta economica” viene superato qualora le classi oppresse intendano mutare in termini reali e sostanziali le proprie condizioni di vita, ponendosi nella dimensione di lottare per il potere, non senza prima prendendo coscienza delle potenzialità di trasformazione sociale che il loro moto rivoluzionario può produrre.
Storicamente, infatti, il movimento comunista sorge in dialettica al movimento proletario, come tendenza del proletariato a contendere il potere politico alla borghesia, sulla base delle contraddizioni reali della società capitalista, del modo di produrre capitalistico e in alleanza con le altre classi oppresse. Il movimento comunista ha definito la lotta per il potere come “lotta politica” allargandola non solo alla lotta per la presa fisica del potere, come fu l’insurrezione del 7 novembre in Russia, ma alla lotta per preparare e dirigere il processo rivoluzionario che porta una classe fino ad allora privata del potere a organizzarlo e a contenderlo alla classe dominante. Quindi, la lotta per organizzare politicamente la classe, per la costruzione del partito rivoluzionario e delle forze armate rivoluzionarie, per sostenere e far avanzare gli organismi del potere rivoluzionario delle classi oppresse, come fu per i soviet in Russia.
Il discorso appena svolto non è proprio dei più semplici, visto che punta a sintetizzare un patrimonio di prassi e idee, o meglio di idee nate e sperimentate nella prassi, che nascono più di centosettanta anni fa, con il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels. Fu una comprensione che dall’elemento materiale, il processo di produzione capitalistico e i rapporti tra le classi che ne derivano, arrivò all’elemento delle idee, con la teorizzazione della rivoluzione proletaria, del ruolo dei comunisti, della dittatura del proletariato, del socialismo e del comunismo. Non fu una comprensione lineare, ma contraddittoria, che passò attraverso lotte aspre, conflitti tra idee e dunque fra uomini, all’interno di società divise in classi e nella lotta tra queste classi e dunque di idee impregnate o influenzate dall’una e dall’altra classe.
Il marxismo-leninismo-maoismo, come scienza rivoluzionaria del proletariato, nacque dunque da una profonda e incessante “lotta ideologica” tra due concezioni: quella della sinistra che autenticamente rappresentava gli interessi della classe operaia (non sinistra intesa in senso ideale come nel linguaggio odierno della borghesia) e quella della destra, intesa non come categoria della “destra politica”, ma come influenza della borghesia sul proletariato e cioè principalmente coloro che, formalmente marxisti, tendono a privare il marxismo della sua funzione rivoluzionaria, ovverosia i cosiddetti “revisionisti”.
A proposito dei tre piani della lotta del proletariato, Gramsci efficacemente affermò: “La lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica e ne l’una ne l’altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Nella sua prima fase sindacale la lotta economica è spontanea, cioè essa nasce ineluttabilmente dalla stessa situazione in cui il proletariato si trova nel regime borghese, ma non è di per se stessa rivoluzionaria, cioè non porta necessariamente all’abbattimento del capitalismo, come hanno sostenuto e continuano a sostenere con minor successo i sindacalisti. Tanto è vero che i riformisti e persino i fascisti ammettono la lotta sindacale elementare, anzi sostengono che il proletariato come classe non debba esplicare altra lotta che quella sindacale. I riformisti si differenziano dai fascisti solo in quanto sostengono che se non il proletariato come classe, almeno i proletari come individui, cittadini, lottino anche per la democrazia generale, cioè per democrazia borghese, in altre parole lottino solo per mantenere o creare le condizioni politiche della pura lotta di resistenza sindacale. Perché la lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario occorre che il proletariato l’accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell’organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. L’elemento spontaneità non è sufficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non porta mai la classe operaia oltre i limiti delle democrazia borghese esistente. È necessario l’elemento coscienza, l’elemento ideologico, cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l’operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società subisce per l’esistenza nel suo seno di antagonismi irriducibili, ecc…
I tre fronti della lotta proletaria si riducono a uno solo per il partito della classe operaia, che è tale appunto perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale”. [1]
La dialettica tra i tre fronti di lotta e la loro sintesi nella direzione strategica del partito rivoluzionario, è stata verificata nella pratica dal movimento comunista, a partire dalla teorizzazione di Lenin nel Che fare? – di cui tratteremo in quinta sezione – fino all’elaborazione della linea di massa [2] da parte di Mao Tse Tung, come principio di direzione politica in grado di legare le masse e l’avanguardia rivoluzionaria nel praticare i tre fronti di lotta.
Quindi, in conclusione, la lotta ideologica va considerata come fondamentale, per comprendere la realtà e il suo movimento, la lotta politica come principale, per trasformare questa realtà, e la lotta economica come secondaria cioè funzionale allo sviluppo di una coscienza ideologica e di una prospettiva politica rivoluzionaria. Ovviamente, si tratta di lotte indissolubilmente legate una all’altra e talvolta difficili da distinguere, poiché, in situazioni e tempi diversi, ognuna di esse tende costantemente, per condizioni oggettive e fattori soggettivi, ad evolvere nell’altra o comunque a produrre le condizioni per lo sviluppo dell’altra.
A partire dal riprendersi e dal riaffermare tali categorie, le riflessioni che faremo nelle prossime pagine le dedichiamo a tutti i compagni e le compagne che lottano politicamente, diffondono e radicano la cultura e l’ideologia del proletariato, danno battaglia sui loro luoghi di lavoro e territori… Non facciamo tale dedica da distante, sono le stesse cose che fanno, bene o male, le compagne e i compagni di questa rivista. Così come parlare di lotta politica, lotta ideologica e lotta economica – speriamo di essere chiari – non è parlare di un patrimonio passato, ma del nostro presente. Perché tutti e tutte noi organizziamo collettivi politici, partecipiamo ad iniziative di dibattito, conduciamo scioperi, lotte e mobilitazioni. Il nostro scopo è “semplicemente” la migliore comprensione del nostro presente, alla luce del nostro passato, per darci un futuro, e dunque una prospettiva, all’altezza della necessità di sbarazzarci di un capitalismo in crisi che naviga a vista nelle barbarie dello sfruttamento e della guerra imperialista.
Note:
[1] A. Gramsci, Necessità di una preprazione ideologica di massa, 1925, in Scritti politici, Editori Riuniti, 1971, pp. 600 e s.
[2] Vedi glossario “LINEA DI MASSA”