Antitesi n.07Classi sociali, proletariato e lotte

Oltre il piano economico

Sindacato, sindacalismo e i comunisti oggi

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.07 – pag.13


Dalla sua nascita il movimento comunista si è sempre rapportato al movimento sindacale e al ruolo rivestito dai sindacati nella dialettica fra le classi, persino nella fase successiva alla rottura rivoluzionaria laddove essa si è realizzata. All’origine vi è il rapporto che i comunisti puntano ad instaurare con il movimento operaio e con le strutture alle quali questo fa riferimento.
Tale questione è centrale per lo sviluppo di un lavoro di massa che spinga nella direzione da noi voluta, ovvero l’affermazione della linea rivoluzionaria tra le masse lavoratrici.
Partiamo da un punto, cosa sono i sindacati? Definiamo sindacato lo strumento con il quale la classe lavoratrice contratta il costo della forza-lavoro. Questa definizione inquadra oggettivamente il ruolo del sindacato all’interno del modo di produzione capitalista ed esprime due aspetti che ne definiscono la forza e il limite. Forza, appunto, in quanto centro di mobilitazione di massa e scuola di lotta di classe per i lavoratori; limite, invece, dato dal ruolo di mediazione con la borghesia che svolge nel quadro dell’attuale sistema economico, sociale e politico.
Per i comunisti, quindi, la dialettica con il sindacato riflette questi due aspetti che, da un punto di vista più generale, esprimono il rapporto tra particolare e generale, tra lotta economica e lotta politica, tra classe in sé e classe in sé e per sé, tra spontaneismo e prospettiva della direzione rivoluzionaria.

La classe impara dalle lotte economiche

Come detto precedentemente i comunisti hanno posto grande attenzione a questa dialettica, la quale a partire da Marx ed Engels veniva impostata come segue: “in generale questi scioperi sono soltanto scaramucce d’avamposti, talvolta sono già scontri d’una certa importanza; non decidono nulla, ma sono la prova migliore che la battaglia decisiva tra il proletariato e la borghesia si sta avvicinando. Essi sono la scuola di guerra degli operai, nella quale questi si preparano alla grande lotta ormai inevitabile; sono i pronunciamientos di singole categorie di operai sulla loro adesione al grande movimento operaio (…) E, quali scuole di guerra, queste lotte sono di una efficacia insuperabili”[1]
All’interno di questa citazione è utile soffermarci su alcuni punti nodali: gli scioperi, e quindi in generale le lotte economiche, sono la scuola di guerra degli operai e la loro efficacia è insuperabile. Qualcuno potrebbe obiettare che all’epoca di Marx ed Engels si era di fronte alle prime concentrazioni operaie, a quartieri operai in subbuglio, dove le sommosse spontanee erano diffuse e all’ordine del giorno e per fare il paragone con le marce funebri degli scioperi del sindacalismo confederale serve molta fantasia per definirli scuole di guerra.
Va detto che il carattere formativo delle lotte, anche in periodi di relativa pace sociale come questi, ha un valore enorme anche in seno alle mobilitazioni controllate dagli apparati burocratici o che essi tentano di controllare.
Nelle lotte la classe rinsalda i propri legami interni, scopre di avere intessi comuni contrapposti a quelli dei padroni, conosce il vero volto dello Stato attraverso i celerini nelle piazze e le schedature della Digos… A volte lotte che i sindacalisti vorrebbero gestire attraverso gli inconcludenti tavoli di mediazione, diventano manifestazioni di antagonismo operaio. Un esempio concreto in tal senso venne dato dalla vertenza Alcoa di qualche anno fa, dove operai travisati con le bandiere di Cisl e Uil fecero scappare in elicottero due ministri dell’epoca, Passera e Barca, durante un vertice a Carbonia nel Sulcis [2] dopo ore di scontri con la polizia.
Gli scioperi e le lotte economiche aprono, in termini generali, degli spazi di agibilità per gli operai, i proletari e soprattutto per i comunisti, nei quali il protagonismo di classe trova un terreno fertile per fiorire.
I compagni che lavorano in fabbrica, nei magazzini e in altri luoghi ad alto tasso di sfruttamento sanno bene come, talvolta, i lavoratori si dotino spontaneamente di forme di resistenza prima di tutto individuali, spontanee e senza coscienza, le quali rimangono coperte e sottotraccia. Assenteismo, piccoli furti, vendette private contro i capetti, danneggiamenti volontari ai mezzi di produzione e suo rallentamento, ecc., potrebbero essere relegati ad un atteggiamento indisciplinato di singoli lavoratori verso il comando padronale ma, invece, vanno considerate come forme embrionali di antagonismo operaio che nella fase attuale non trova molto spesso forme di organizzazione collettiva.
Invece, nella lotta economica collettiva i lavoratori trovano una possibile dimensione e un terreno nel quale unirsi e imparare assieme le forme migliori di mobilitazione contro il nemico; anche nella sconfitta, ogni singola battaglia economica consente di acquisire degli insegnamenti generali sui rapporti fra le classi, seppur ancora limitati al piano della forza rivendicativa. Nel guado della crisi strutturale del sistema, quanto detto è ancora più visibile, poiché, laddove le vertenze riescono concretamente a svilupparsi, strappare conquiste al singolo padrone significa spesso mettere in campo forza antagonista reale, visto che i margini di concessioni materiali per tacitare la lotta sul nascere oggi sono sempre più risicati.
Prendiamo come singolo esempio la vertenza di Italpizza di Modena, essa nasce “semplicemente” per rivendicare l’applicazione del corretto Ccnl di categoria, visto che agli operai veniva applicato il contratto “pulizie e multiservizi” quando la loro mansione avrebbe previsto il contratto alimentaristi. Questo escamotage permetteva all’azienda di pagare molto meno gli operai e di obbligarli a turni massacranti. La lotta però ha travalicato immediatamente la questione particolare e contingente. Nello scontro si è palesata la posta in palio, ovvero la possibilità per i padroni di applicare i contratti che reputano più opportuni per le loro tasche e il rischio del riconoscimento formale di un sindacato, il Si Cobas, fatto di una pasta ben diversa di quella traditrice e concertativa dei bonzi confederali. Inoltre, la vittoria dei lavoratori di Italpizza rischiava di infondere coraggio a intere sezioni di classe, innescando un effetto domino in tutti i distretti industriali modenesi, andando ad incrinare quel sistema di valorizzazione del capitale che in Emilia Romagna è stato costruito ad arte da cooperative legate al Pd, alla mafia e a tutto l’apparato statale. E ancora, la partecipazione alla lotta, da parte sopratutto di operaie e immigrate, rappresentava per quest’ultime e per i loro colleghi maschi una straordinaria presa di forza e coraggio, che consentiva loro tutto d’un tratto di liberarsi da una triplice oppressione su piani strettamente connessi: quello di classe, di genere e “nazionale”, in quanto straniere e costantemente ricattate dalla normativa repressiva in materia d’immigrazione. [3]
Non è un caso quindi che la risposta padronale abbia visto schierarsi tutto l’armamentario a disposizione: magistratura, polizia, squadrette punitive dentro e fuori i cancelli, attentati intimidatori, menzogne a mezzo stampa, ma anche premi per i lavoratori venduti, ecc.
Questi lavoratori e soprattutto lavoratrici, hanno maturato una coscienza del funzionamento del sistema capitalista, della loro forza potenziale, dei loro nemici e dei loro amici, dalla quale non torneranno più indietro, nonostante la lotta non abbia ottenuto tutto quanto richiesto in termini materiali.
Non tutte le vertenze sono formative come quella di Italpizza, sia per il ruolo sbirresco delle centrali sindacali, sia per l’adagio imparato dalla stessa borghesia durante gli anni di grande mobilitazione operaia, ovvero che il conflitto sociale va gestito e non alimentato. Come si diceva però, questo stesso adagio trova sempre più difficile applicazione con il restringersi dei margini di valorizzazione nella crisi. Gestire la lotta di classe in tempo di prosperità è un conto e fa la fortuna dei socialdemocratici di ogni risma, gestirlo in tempi di miseria è ben altra cosa. Infatti, vediamo come sempre di più le vertenze sindacali vengano derubricate a questioni di “ordine pubblico” e represse con strumenti che fino a poco tempo fa erano inimmaginabili. Contro i delegati combattivi e i lavoratori determinati vengono usati gli stessi strumenti, o quasi, che prima erano appannaggio dei compagni e delle situazioni più radicali, come mostrano i decreti sicurezza voluti da Salvini.
Per noi, quindi, le lotte economiche continuano ad avere un ruolo di centro di organizzazione della classe dentro ai posti di lavoro. Il punto è quello di guardare al piano rivendicativo come campo che potenzialmente permette alla classe di sviluppare la propria capacità di unità e lotta e al sindacato come strumento, come mezzo all’interno del quale agire e muoversi al fianco degli altri lavoratori e lavoratrici nella resistenza agli attacchi padronali, per raccogliere sul piano politico.

Sul sindacalismo

Dopo alcune premesse per noi fondamentali sul sindacato e sulle lotte economiche, ci preme affrontare un altro aspetto della questione, ovvero il sindacalismo.
Con questo termine intendiamo quell’ideologia che nega una differenza tra lotta economica e lotta politica, vedendo nel sindacato oltre ad uno strumento di lotta economica anche l’organizzazione politica che esprime la battaglia complessiva del proletariato, sulla base della premessa ideologica per cui la lotta economica produca meccanicamente la lotta politica e che quindi il sindacato sia il preludio del partito.
Riprendendo la frase di Lenin per cui una “scuola di guerra non è ancora la guerra stessa” [4], i limiti delle lotte economiche e anche degli organismi da esse generati stanno proprio nella transitorietà delle conquiste in una società in cui il potere è nelle mani della borghesia. Nel capitalismo, ogni conquista di classe viene messa in discussione appena possibile dalla classe dominante e nel mutare dei rapporti di forza tra le classi, i padroni si riprendono quanto loro era stato strappato. Questo principio tanto banale quanto fondamentale è alla base della necessità di superamento del sistema capitalista per assicurare la vittoria generale e storica della classe operaia e delle masse popolari sulla borghesia imperialista.
In questi anni si è parlato tanto di “inadeguatezza” sindacale nel contrastare gli attacchi. Di volta in volta, la percezione è quella di un sindacato che non svolge il proprio compito, come a sottolineare una discontinuità tra un sindacato dal passato glorioso che faceva gli interessi degli operai e un sindacato del presente disinteressato e distante. Questa lettura cozza parecchio con la storia del sindacato, il quale, si è sempre distinto per la sua funzione e il proprio ruolo principale: contrattare il costo della forza lavoro come detto poc’anzi. Nel senso che la contrattazione tra parti antagoniste in termini oggettivi (come lo sono le classi) rende in tre casi: primo (principale) se chi contratta vuole mettere in campo la forza necessaria per strappare qualcosa alla controparte, secondo (fondamentale) se la controparte può permettersi di dare o farsi strappare qualcosa, terzo (secondario) se chi contratta riesce a mettere in campo la forza necessaria per strappare qualcosa alla controparte. Gramsci già nel gennaio del ’22 scriveva “Lo sviluppo normale dell’organizzazione sindacale provocò risultati completamente opposti a quelli previsti dal sindacalismo: gli operai divenuti dirigenti sindacali perdettero completamente la vocazione laboriosa e lo spirito di classe e acquistarono tutti i caratteri del funzionario piccolo-borghese intellettualmente pigro, moralmente pervertito o facile al pervertimento. Quanto più il movimento sindacale si allargò, abbracciando grandi masse, tanto più dilagò il funzionarismo: l’impossibilità di convocare frequentemente le assemblee generali dei soci rese nullo il controllo delle masse sui capi; gli operai meglio retribuiti e che avevano altri redditi oltre il salario formarono un sindacato nel sindacato, sostenendo i dirigenti nell’opera loro di lento accaparramento dell’organizzazione ai fini di una parte politica, che poi si rivelò essere nient’altro che la coalizione di tutti i funzionari sindacali stessi; essere organizzati significò per la maggioranza degli operai non già partecipare alla vita della propria comunità per esercitare e sviluppare le proprie doti intellettuali e morali, ma solamente pagare una quota-imposta per godere libertà formali, simili in tutto alle libertà che il cittadino gode nell’ambito dello Stato parlamentare”[5] 
Queste parole di quasi un secolo fa sono ben applicabili oggi alle maggiori centrali sindacali e ai loro funzionari. Ci preme sottolineare che sappiamo bene esserci funzionari che svolgono il proprio lavoro con tenacia e dedizione spinti dal fare gli interessi dei lavoratori, ma loro rappresentano i frutti buoni di una pianta marcia e che è tale non per colpa del proprio personale, almeno come contraddizione principale, ma perchè il sindacato nasce e si sviluppa come riflesso delle diseguaglianze prodotte dal sistema capitalista. L’organizzazione sindacale si muove parallelamente al moto dell’organizzazione capitalistica come un riflesso di questo moto. Alla centralizzazione e alla concentrazione dei mezzi di produzione si riflette il processo di monopolizzazione della forza-lavoro, ma se il sindacalismo come corrente economicista ha teorizzato che l’accumulazione quantitativa dei salariati avrebbe impedito la concorrenza della forza-lavoro determinando meccanicamente la caduta del potere degli industriali, la storia dimostra l’esatto opposto, ovvero che la borghesia che detiene il potere politico ed economico si fa forza di questa monopolizzazione della forza lavoro cooptando le centrali sindacali che l’organizzano. In questo, l’attuale sviluppo dei rapporti di produzione, con il toyotismo e con la piena fusione tra capitale finanziario e quello industriale, ha raggiunto il suo apice. L’obiettivo delle principali centrali sindacali, non solo italiane, è sedersi nei consigli di amministrazione delle aziende in cambio di ridicole partecipazioni agli utili; gestire fondi pensione, welfare aziendale e servizi come i Caf. Il loro mantra è quello della concertazione che ha come obiettivo la riproduzione dell’organizzazione e il mantenimento della posizione di rendita assunta all’interno del capitalismo. Per quanto ad essere seduti al comando delle principali centrali sindacali siano dei venduti burocrati, il “tradimento” delle loro organizzazioni non è addebitabile semplicemente a loro, ma è insito nel fatto oggettivo che una struttura nata per contrattare inevitabilmente finisce per legittimare la controparte, perché è dal rapporto con quest’ultima, dalla perpetuazione del potere dei padroni come legittime parti “avverse” nel vincolo contrattuale, che essa trae esistenza e legittimità. La degenerazione del sindacalismo o meglio delle direzioni del sindacato e dei suoi apparati in burocrazia filopadronale e in corporativismo [6] è dunque insita nella loro stessa funzione di mediazione con i padroni. Questi ultimi hanno infatti tutti gli strumenti, economici, politici e finanche culturali per attrarre a sé gli apparati sindacali e integrarli nel proprio dominio generale sulla classe, facendoli divenire progressivamente mediatori al ribasso o addirittura strutture volte a far digerire, con le buone o le cattive, le loro scelte ai lavoratori.
Dunque, nella maggioranza dei casi, il ciclo storico seguito dal sindacalismo nel capitalismo contemporaneo, ci dice come tendenzialmente sia il sindacato stesso, nelle sue strutture di comando e spesso anche fra i suoi funzionari e quadri di base, a non volere produrre contraddizioni ai padroni e al loro Stato, finendo per cogestire, in sostanza, il rapporto capitalistico ai danni della classe. Secondariamente, ciò ha un riflesso sulla stessa combattività della classe che, se è vero che viene educata all’unità e alla lotta dalla battaglie economiche e rivendicative, subendo il tradimento dei propri rappresentanti su tali fronti, viene diseducata all’unità e alla lotta, finendo per essere preda dell’egemonia diretta dei burocrati sindacali (ad esempio con la mentalità della delega) o dell’egemonia più generale della classe dominante (fatalismo, individualismo, razzismo…).
Ora è chiaro che tutto questo ragionamento deve essere collocato concretamente nella situazione oggettiva del capitalismo odierno, ovverosia della crisi strutturale di tale sistema di produzione, che determina una tendenza continua alla ristrutturazione produttiva e all’attacco alla condizione operaia. In questa situazione gli spazi di mediazione tra padroni e sindacati si restringono poiché i primi non possono o possono sempre di meno, farsi strappare conquiste da parte della classe operaia, talvolta nemmeno quando quest’ultima mette in campo forme di lotta avanzate. Inoltre, la condizione specifica della crisi, cioè la tendenza alla diminuzione della profittabilità dei capitali investiti, spinge a ristrutturazioni aziendali che tolgono alla classe stessa il campo in cui lottare cioè il lavoro (si pensi alla chiusure o alla delocalizzazioni) e la tengono sotto costantemente ricatto. La frammentazione del ciclo produttivo in piccole aziende sottoposte a controllo monopolistico centrale toglie, inoltre, al sindacato buona parte della sua potenziale forza di mobilitazione quantitativa dei lavoratori. La crisi in sostanza non riguarda solo il capitalismo, ma gli spazi oggettivi della lotta economica e del sindacalismo stesso, tanto che diverse tendenze in seno ai rappresentati politici della classe dominante hanno prospettato dichiaratamente la fine di un corpo intermedio, qual è il sindacato, presentato oramai come svuotato di senso. Contemporaneamente, le burocrazie sindacali, quantomeno nella specifica situazione italiana (in Francia ad esempio la situazione pare diversa) hanno raddoppiato il loro servilismo verso i padroni, per dimostrarsi necessari alla classe dominante nel gestire la crisi, tentando contemporaneamente di raschiare il fondo del barile per quanto riguarda il corporativismo, ad esempio con il welfare aziendale.
Il ruolo sempre più corporativo e subalterno agli interessi della borghesia dei confederali ha portato tanti compagni e tante avanguardie alla costruzione dei sindacati di base. L’aspetto maggiormente positivo di queste esperienze è dato dalla capacità di queste organizzazioni di legarsi ai nuovi settori di proletariato emersi nell’ultimo decennio come prodotto dello sviluppo del modo di produzione capitalista. All’interno di queste strutture, tuttavia, coesistono visioni e tensioni differenti, ma accomunate dall’idea che per ridare forza al movimento politico sia necessario partire e rafforzare il movimento economico delle masse. In questa visione, si innestano una serie di deviazioni come quella di considerare il sindacato alla stregua di un’organizzazione politica, caricandola di compiti e responsabilità che non le sono formalmente propri, come ad esempio il dibattito sulla costruzione del partito o quello dell’unità della classe in senso politico. Il problema sorge quando il momento immediato è rivestito di ideologia, cioè pretende di essere sostanzialmente politico pur negando formalmente di esserlo. Espressione di questo errore, tipico dei sindacati di base, è quello di dare all’economico, alle rivendicazioni economiche, contenuto e valenza politica generale, senza mettere in discussione i rapporti di potere in questa società. Ad esempio, nello stilare i punti per la convocazione di scioperi generali (che talvolta hanno solo scopo autorappresentativo), di fatto si formula un programma politico di contrapposizione generale ai padroni e ai loro governi, attuabile probabilmente solo con un rovesciamento dei rapporti di forza tra le classi sul piano del potere politico. Oppure altro esempio in tal senso possono essere i generosi appelli all’unificazione delle lotte. Se da un lato vediamo il positivo che viene espresso in queste proposte, ovvero il voler essere più forti e combattivi contro il nemico di classe, dall’altro ne vediamo il limite profondo di considerare l’unità come somma quantitativa delle esperienze di lotte che sono disseminate nel paese.
All’interno di questa visione si esprime l’essenza della concezione economicista per cui lo scontro di classe trova risoluzione nell’accumulazione di rapporti di forza funzionali a strappare terreno agli interessi della borghesia senza però mettere in discussione la questione del potere da un punto di vista strategico. Secondo noi la questione dell’unità non si pone come unificazione delle lotte, ma come unità della classe nella lotta per il potere, che storicamente (e attualmente) per i comunisti passa dalla costruzione del partito rivoluzionario come avanguardia per contendere il potere alla classe dominante.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo provato a sintetizzare la nostra visione su sindacato e sindacalismo: l’analisi proposta è il prodotto della nostra pratica nei posti di lavoro e del nostro intervento nel movimento operaio. Secondo noi i comunisti devono capire come nella propria condizione concreta lavorare nel sindacato o nei sindacati evitando di cadere nel lavorare per il sindacato. Con questo non significa tirarsi indietro dal lavoro anche di costruzione di strutture sindacali dove questo è necessario allo sviluppo della lotta di classe. Ma ciò che deve essere chiaro è che i comunisti lavorano nel sindacato per evidenziare i limiti che questo, in quanto struttura riflessa degli attuali rapporti di produzione, ha rispetto alla rivoluzione e all’abbattimento di questa società.
Il nostro compito è essere al fianco e alla testa degli operai in lotta, ma con l’idea di sviluppare degli embrioni di lotta e dibattito ideologico necessari nella fase attuale alla costruzione del soggetto rivoluzionario, il nostro obiettivo è conquistare le masse, a partire anche dal terreno della lotta economica, alla lotta per il socialismo e l’abbattimento della società borghese. Questo deve essere il faro che ci muove nel lavoro di massa.
Nel concreto questo lavoro oggi trova espressione nella costruzione di momenti funzionali a questi obiettivi, alla lotta ideologica contro le tendenze economiciste e riformiste, che chiaramente non avrà come referente l’intera classe operaia, ma soprattutto i suoi reparti più avanzati, i suoi elementi più coscienti e determinati. La scelta quindi, tra sindacato confederale o sindacato di base ad esempio, deve essere operata per noi comunisti alla luce di quanto detto sopra e cioè scegliendo in base alla posizione maggiormente funzionale al rapporto con la classe e con i suoi elementi più avanzati. Una scelta valutata in definitiva in base alla propria condizione e pratica concreta.
Noi pensiamo che dobbiamo sforzarci di muoverci nella direzione di far crescere la classe principalmente da un punto di vista qualitativo-politico più che quantitativo-rivendicativo. Ben consci che quantità e qualità sono in dialettica e che senza l’una non si sviluppa l’altra.
La lotta economica può trovare sviluppo rivoluzionario solo attraverso la lotta politica e, perchè ciò avvenga, è necessaria la lotta ideologica, l’elemento coscienza: “la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l’operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società subisce per l’esistenza nel suo seno di antagonismi irriducibili”. [7] Per questo motivo non ci può essere passaggio lineare e spontaneo in termini di coscienza o in termini di strumenti organizzativi, ma solo salti, passaggi di rottura, nei quali conta il ruolo dell’avanguardia comunista nel raccogliere attorno a sè la parte più avanzata del proletariato, la quale si politicizza, si organizza e si dota di strumenti altri rispetto a quelli adottati fino a quel momento. Ma tutto ciò parte semplicemente anche dal coltivare e sviluppare la spinta di interrogarsi sul piano politico che comunque le masse operaie e lavoratrici elaborano spontaneamente. È chiaro che questa spinta non è politica proletaria e rivoluzionaria, che per costruire in tal senso è necessario l’elemento cosciente comunista, ma le basi del lavoro di massa risiedono comunque nel rapportarsi agli interrogativi, nelle proposte e nelle questioni che il movimento delle masse pone. Già discutere di politica con i lavoratori è svolgere lotta ideologica. Organizzare la discussione di lavoratori e dirigerla in senso politico-generale, facendole acquisire una dimensione pratica anche minima (volantini, opuscoli, incontri…) è dimensione base della lotta politica. Se ci pensiamo bene, il Partito Bolscevico nacque, nelle sue fondamenta, dall’incontro di una componente d’avanguardia politica con i circoli operai sparsi in tutta la Russia e visto l’esito, trarne ispirazione può essere un primo passo.


Note:

[1] Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845, reperibile su
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1845/situazione/index.htm

[2] https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/11/13/carbonia-scontri-e-tensione-tra-operai-alcoa-e-forze-dellordine/412305/

[3] Vedi Antitesi n° 6, pp. 21 ss.

[4] Lenin, Sugli scioperi, in Quaderni di Rivoluzione, 2001, p. 20

[5] Gramsci, Il partito comunista e i sindacati, 1922,
http://www.bibliotecamarxista.org/ gramsci antonio/il partito comunista e i sindacati.htm

[6] Vedi glossario: CORPORATIVISMO, p. 52

[7] Gramsci, Per una preparazione ideologica di massa,
http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cg/mdcg7d26-001436.htm


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