Antitesi n.06Sfruttamento e crisi

Sul protezionismo

La guerra commerciale è parte della guerra imperialista

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.06 – pag.6


“Gli Usa stanno aprendo il fuoco sul mondo”. Così recitava, a inizio luglio, il comunicato del ministero del commercio della Cina, in riferimento ai dazi varanti da Trump contro Pechino. Effettivamente, le misure protezioniste varate dall’attuale presidenza degli Usa hanno decisamente rappresentato una svolta nelle relazioni economiche internazionali, aggravando la contraddizione tra potenze imperialiste, in primis quelle tra Washington e Pechino, e ponendo in discussione come non mai negli ultimi decenni la concezione globalista e liberoscambista del capitalismo.
Infatti, secondo l’ideologia neoliberista, affermatasi a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso come ispiratrice delle agende economiche delle principali potenze imperialiste, la libera circolazione di merci e capitali aldilà delle frontiere degli Stati è alla base dello sviluppo capitalistico mondiale e delle singole nazioni. Si tratta di un dogma che rientrava in quella sorta di “pensiero unico” liberista diventato definitivamente egemone sopratutto dopo il crollo dell’Urss e l’affermazione degli Usa come incontrastata potenza globale. In realtà, il liberoscambismo rientrava in una svolta delle strategie economiche capitalistiche, resa necessaria dalla fase di crisi apertasi all’inizio degli anni settanta e al fallimento, nel contrastarla, delle politiche keynesiane. [1] Attraverso la libera circolazione di merci e di capitali a livello globale, abbattendo limiti, tariffe e regolamentazioni, la borghesia  imperialista si riproponeva il conseguimento di più ampi margini di valorizzazione del capitale, conquistando nuovi mercati, nuova forza lavoro e aprendo spazi alla circolazione finanziaria, via via più deregolamentata, per ottenere remunerazione fittizia dei capitali nella fase in cui il plusvalore e il profitto nell’economia reale tendevano a cadere.

Il protezionismo alle origini del capitalismo

Non sempre, però, il liberoscambismo ha contrassegnato il procedere dell’economia capitalistica. Fin dagli albori del capitalismo, la libera circolazione di merci e capitali si è alternata a misure per limitarla, di modo che i capitalisti di un singolo paese (cioè una singola formazione capitalistica nazionale), potessero tutelare i propri profitti a danno degli altri. Misure che, nell’interesse di tali capitalisti, venivano prese dalle autorità politiche statuali con norme in campo fiscale, per appesantire con tasse il prezzo di alcuni prodotti importati, o con altri strumenti legislativi, fiscali, finanziari e politici (sanzioni) che comunque limitavano l’acquisto di prodotti provenienti dall’estero. Possiamo dunque dire che il protezionismo è una politica economica utilizzata da una determinata formazione capitalistica, ma anche da un’unione di diverse formazioni (come è attualmente il caso dell’Ue), per tutelare una propria fetta di mercato, quantomeno quella interna ai confini nazionali, falsando la concorrenza con interventi a vario livello per garantirsi maggior profitto a scapito di un altra fazione capitalistica. Tali strumenti generalmente consistono in imposizioni di limiti doganali e tasse a merci in entrata (protezionismo diretto), ma possono consistere di fatto anche in misure indirettamente tese a sostenere il capitale interno e nazionale rispetto a quello estero (protezionismo indiretto), come ad esempio livellamenti salariali o politiche monetarie, finanziarie o aiuti di Stato. In questi ultimi casi si può dire che i confini del protezionismo sono labili e incerti rispetto sia al monetarismo [2] che al keynesismo.
Le giustificazioni ideologiche del protezionismo possono essere le più varie, dalla sicurezza dello Stato alla salute pubblica, e talvolta le sue finalità non si limitano al piano strettamente commerciale, ma toccano la necessità delle singole fazioni di borghesie di mantenere il primato in taluni campi strategici (ad esempio, oggi, in quello delle telecomunicazioni e dell’intelligenza artificiale).
Le radici del protezionismo stanno nella affermazione stessa del capitalismo, in quella che Marx chiamò “accumulazione originaria” [3] e quindi nell’epoca di transizione tra feudalesimo e capitalismo denominata mercantilismo e in particolare nel corso del diciottesimo secolo. “Il sistema protezionistico fu un mezzo artificiale per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi di produzione e di sussistenza delle nazioni, per accorciare forzatamente la transizione dal modo di produzione antico a quello moderno. Gli Stati d’Europa si disputarono la paternità di questa invenzione e, dopo essersi messi al servizio dei fabbricanti di plusvalore, non si limitarono per questo a tartassare il proprio popolo, indirettamente con i dazi protettivi, direttamente con i premi d’esportazione, ecc., ma nei paesi posti sotto il loro dominio distrussero violentemente ogni industria; così, per esempio, la manifattura della lana irlandese è stata distrutta dall’Inghilterra”. [4] Dunque, il protezionismo consistette, nella fase dell’accumulazione originaria, in uno strumento di sostegno al nascente grande capitalismo industriale, a spese delle masse popolari e delle nazioni oppresse. Lo Stato, anche attraverso la leva protezionistica (dazi, limiti alle importazioni, sostegno alle esportazioni…) si mise al servizio del nascente capitalismo per radicarlo, solidificarlo e imporre il potere (cioè il profitto) della propria borghesia nazionale sul mercato interno ed esterno.
Il protezionismo accompagnò l’esordio del sistema capitalista, ne costituì una culla irrinunciabile data la sua intrinseca debolezza in quel frangente: ma non tardò a ripresentarsi in tutti i momenti di culminante debolezza, anche laddove il capitalismo era giunto a piena maturità e nella sua fase putrescente, quella del monopolismo imperialista. Nella storia del capitalismo troviamo fasi di prevalenza del protezionismo e altre di prevalenza del liberoscambismo, a seconda delle condizioni oggettive generali e delle diverse strategie economiche e politiche che le borghesie dominanti mettono in atto.
Ovviamente non è detto che protezionismo e liberoscambismo si escludano in termini assoluti, essendo due variabili praticabili su fronti diversi anche dalla stessa classe dominante o da un loro aggregato. Ad esempio, la borghesia francese guidata da Napoleone, nel primo decennio del secolo diciannovesimo, puntò a unificare, tramite il libero scambio, i mercati europei come fattore di integrazione delle diverse classi dominanti nell’impero francese, praticando però uno stretto protezionismo verso il rivale strategico costituito dall’impero britannico.
Questo alternarsi di liberoscambismo e protezionismo nella storia del capitalismo e rispetto alle singole formazioni economicosociali-politiche (i singoli Stati che rappresentano le rispettive classi capitaliste dominanti), va compreso anche e sopratutto in relazione alla legge dello sviluppo ineguale e del suo operare globale. Tale legge, formulata compiutamente da Lenin, afferma che il sistema capitalista mondiale genera inevitabilmente delle gerarchie di sviluppo economico tra le nazioni, a causa fondamentalmente dei cicli economici di ascesa e crisi/declino che contraddistinguono il modo di produzione borghese nelle singole formazioni e principalmente della concorrenza tra di esse, della divisione internazionale del lavoro e dell’instaurarsi di rapporti di oppressione e saccheggio tra nazioni, come avviene da parte dei paesi imperialisti rispetto ai paesi oppressi. A seconda della posizione occupata nell’economia mondiale e dei rapporti di forza sul complessivo piano economico – politico – militare, ogni classe dominante, per mezzo del proprio Stato, tende ad adottare ora politiche liberoscambistiche, ad esempio per entrare nel mercato altrui, ora politiche protezioniste, quando prevalgono gli interessi a blindare le proprie posizioni di mercato.

Il protezionismo nella fase imperialista

Proseguendo nel percorso storico, possiamo considerare il secolo diciannovesimo come quello di definitiva espansione internazionale del capitalismo e dunque di adozione generale del liberoscambismo. A partire dalla fase di crisi che si determinò dal 1873, le politiche protezionistiche ritornarono all’ordine del giorno, specie per quanto riguarda gli Usa e gli allora neonati Stati unitari dell’Italia e della Germania. In particolare, nel nostro paese, l’adozione di politiche protezionistiche fu un campo fondamentale per compattare la classe industriale del nord con quella latifondistica del sud, costituendo il blocco dominante del capitalismo italiano. Una politica che accentuò la rottura con la Francia, collocando definitivamente la grande borghesia italiana, che aveva capeggiato il processo di unificazione statuale, come soggetto autonomo nella lotta per la prevalenza nei mercati. Senza il protezionismo il capitalismo italiano non avrebbe mai potuto sviluppare un relativamente forte settore siderurgico e metalmeccanico concentrato nel nord con gruppi come Ansaldo e Breda, e contemporaneamente, con i dazi sui prodotti agricoli di importazione, rafforzare il potere dei latifondisti al sud, costituendo così il tallone di ferro della classe dominante italiana tra industriali settentrionali e proprietari terrieri meridionali.
Gli Stati di recente formazione, tra cui l’Italia, dovettero ricorrere al protezionismo per rafforzare la propria struttura capitalistica e farsi spazio nel sistema capitalistico mondiale, data la condizione di sviluppo ineguale di partenza a vantaggio delle potenze già affermatesi come Francia e Inghilterra.
Infatti, la crisi avviatasi nel 1873 segnò il passaggio dalla fase del capitalismo classico a quello monopolista ed imperialista e fu proprio lo strutturarsi del mercato mondiale in monopoli in lotta reciproca per la sua spartizione a determinare l’adozione di ricette protezionistiche. Se quest’ultime, nel breve periodo, determinarono la protezione delle industrie nazionali dai concorrenti esteri, nel lungo periodo esse non riuscirono a venire a capo della tendenza alla caduta del saggio di profitto, intrinseca al sistema di produzione capitalistico, né a prevenire la sovrapproduzione di capitali su scala nazionale e globale. [5] Anzi, i reciproci limiti posti al flusso di merci e capitali aggravarono complessivamente tali tendenze e contribuirono allo scontro interimperialista che dominò la prima parte del secolo ventesimo, con la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Nel frattempo, nelle principali potenze imperialiste, erano sorte ideologie e sistemi politici, come il keynesismo e il fascismo, che giustificavano il protezionismo a salvaguardia del capitale nazionale, mentre le commesse di Stato a favore del settore bellico determinarono la ristrutturazione, la rifunzionalizzazione e l’ampliamento dell’industria capitalistica: la guerra imperialista non fu solo sbocco della crisi, ma strumento di ridefinizione della struttura e del sistema di produzione nel suo complesso.
Solo sulle macerie della seconda guerra mondiale, nella fase di accumulazione capitalistica positiva grazie all’immane distruzione di capitali conseguente al conflitto, si aprì una fase internazionale di generale ritorno al libero scambio. Va detto che tale fase, oltre ad avere motivazioni economiche, si inaugurava anche sulla necessità di stabilire definitivamente il predominio dell’imperialismo Usa sui restanti paesi capitalisti e sui paesi oppressi del tricontinente Asia-Africa-America Latina, anche in funzione antisovietica e anticomunista. Fu così che nel 1947 venne firmato il cosiddetto accordo generale sul commercio e sulle tariffe, meglio conosciuto con l’acronimo inglese di Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) al quale aderirono inizialmente 135 paesi fra cui l’Italia.
Pressoché contemporaneamente, nel vecchio continente, le borghesie imperialiste di Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Lussemburgo e Belgio diedero vita al processo di unificazione che portò dapprima ad un’area di libero scambio, la cosiddetta Comunità Economica Europea, e poi all’attuale Unione Europea, determinata anche in senso politico e giuridico. Se da un lato il processo di unificazione europea venne portato avanti come necessariamente liberoscambista tra i paesi aderenti, dall’altro esso si configurò fin da subito come potenzialmente volto a porre limiti verso il commercio con i paesi extracomunitari, sia per la convenienza dello scambio intracomunitario sia per vere e proprie decisioni politiche, come avvenne ad esempio dal 1998 con l’imposizione della moratoria sul mais, il cotone e la soia Ogm made in Usa. Ovviamente, tale processo subì una qualificazione più profonda con l’adozione della moneta unica, l’euro, con un unico governo monetario-finanziario riservato alla Banca Centrale Europea.

La fase della “globalizzazione”

Nel 1995 il Gatt divenne Organizzazione Mondiale del Commercio, meglio conosciuta con l’acronimo inglese di Wto (World Trade Organization) e vi aderirono 164 paesi, mentre altri 22 assunsero la posizione di osservatori, per arrivare così a coprire il 95% dello scambio globale. Il Wto rappresentò uno sviluppo rispetto al Gatt perché non costituì un semplice accordo, ma un’organizzazione atta a promuovere il libero scambio tra i suoi membri, sulla base delle trattative concluse tra i paesi e, inoltre, era diretta a svolgere il ruolo ufficiale di organo risolutore di eventuali discordie in materia commerciale. Tanto per fare un esempio, nel 2003, fu la pronuncia del Wto che spinse l’allora presidente Usa, George Bush, a retrocedere sui dazi imposti sulle importazioni di acciaio annunciati l’anno prima: una maldestra anticipazione di quanto, come vedremo, sta avvenendo attualmente svolto dalla presidenza Trump.
Infatti, la fondazione del Wto segnò uno dei passaggi fondamentali della fase della cosiddetta globalizzazione, durata quantomeno due decenni a cavallo tra il secolo ventesimo e quello ventunesimo. Per “globalizzazione” intendiamo una fase nella quale la compenetrazione tra le economie nazionali, in primis a livello finanziario e in secundis a livello mercantile-produttivo, era arrivata al massimo livello. Giunsero infatti a pieno sviluppo mondiale le condizioni connaturanti l’imperialismo, ovvero:
1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche
”. [6]
Il pieno sviluppo dell’assetto imperialista nelle vesti della globalizzazione venne consentito da determinati fattori economico-produttivi e politici. Tra i primi vanno ricordati lo sviluppo delle forze produttive attraverso l’informatica, l’adozione del modello toyotistico, la multinazionalizzazione dei monopoli e la finanziarizzazione.[7] Tra i secondi l’implosione del blocco sovietico [8], il retrocedere del movimento di decolonizzazione e il tendenziale unipolarismo dell’iniziativa politico-militare globale in mano agli Usa. Il libero scambio rappresentava il rapporto ideale, nella relazioni tra Stati, per lo sviluppo della cosiddetta globalizzazione e la cultura neoliberista, promossa in campo economico e politico sopratutto dagli Stati Uniti, tese a imporsi come dominante, mettendo all’angolo o fagocitando la socialdemocrazia, il keynesismo o visioni di tipo statalista-nazionalista della destra fascista.
L’aspetto fondamentale di questo scenario era (ed è) quello della crisi del capitalismo che, a partire dall’inizio degli anni settanta del secolo scorso, aveva ripreso a manifestarsi, con l’esaurimento della fase di accumulazione positiva seguita alla seconda guerra mondiale. A differenza delle precedenti fasi di crisi, ad esempio quella apertasi nel 1873 e quella che culminò nel 1929, quella attuale si è strutturata sui fattori nuovi di cui dicevamo poc’anzi: innovazione produttiva attraverso l’informatica, toytismo, multinazionalizzazione dei monopoli, finanziarizzazione, nonché su uno scenario politico globale con profondi mutamenti, in primis il crollo dell’Urss e del campo socialista. La tendenza alla crisi del capitalismo si è dunque intrecciata con fattori tendenzialmente contrari, cioè in grado di lenire l’aggravarsi delle contraddizioni di fondo del sistema. Ad esempio, la finanziarizzazione dell’economia, che rappresenta l’applicazione piena del libero scambio a livello finanziario, monetario e borsistico, ha permesso una valorizzazione speculativa e parassitaria della massa crescente di capitali sovraprodotti, che non riuscivano cioè a trovare valorizzazione nella sfera della produzione reale. Oppure, tramite l’ulteriore sviluppo della multinazionalizzazione della produzione, i monopoli riescono da un lato ad investire capitali laddove ottengono il massimo di profitto, ricercando la manodopera a più buon prezzo, e contemporaneamente ad ammansire il proletariato dei paesi imperialisti, ricattandolo con le delocalizzazioni e la pressione di un crescente esercito industriale di riserva, anche importato con le migrazioni di massa.
La globalizzazione, come massima espansione e compenetrazione del sistema imperialista mondiale in termini quantitativi e qualitativi, rappresentò dunque la sintesi tra la crisi del capitalismo e i fattori che agivano in controtendenza al suo pieno manifestarsi ed aggravarsi. Il liberoscambismo non poteva che accompagnare come prassi e insieme di regole comuni questa espansione, anche perché in parte quest’ultima si riduceva ad un aggravarsi della contraddizione tra paesi imperialisti e nazioni oppresse tramite la rapina neocoloniale (come nei trattati di libero scambio) o ad una ridefinizione di gerarchia interimperialista (ad esempio nell’Ue, con il predominio tedesco). La massima espansione e compenetrazione del sistema imperialista mondiale, però, si realizzò sopratutto per la crescita di nuovi poli capitalistici, le cosiddette “potenze emergenti”, che progressivamente iniziarono a erodere il primato delle vecchie potenze imperialiste (che possiamo identificare con i paesi del consesso G7) fino a formare un tentativo di blocco mondiale alternativo, i cosiddetti Brics, acronimo formato dalle iniziali dei più importati nuovi competitori, e cioè Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nell’ambito della loro ascesa tali paesi, sopratutto la Cina, riuscirono a implementare una politica tesa a utilizzare e approfittare dell’espansione del commercio internazionale, utilizzando gli investimenti diretti esteri dei paesi imperialisti come base per ampliare le forze produttive nazionali, per condurre un processo di accumulazione capitalistica interna e per trovare nei mercati delle tradizionali potenze imperialiste sbocchi commerciali sempre più vasti. Tali politiche furono possibili fondamentalmente grazie a blocchi di potere interni che garantivano indipendenza sostanziale dagli Usa, dai paesi Ue e dal Giappone, cioè delle sovrastrutture aderenti ai progetti di strutturazione imperialista delle classi dominanti o di loro fazioni. Un esempio ne sono i revisionisti cinesi che, a differenza dell’ultima dirigenza sovietica – quella di Gorbacev e Eltsin – perseguirono una linea di indipendenza dagli Usa e di tendenza a contendere a quest’ultimi la supremazia mondiale[9]. Uno dei mezzi utilizzati dai governi dei Brics per garantire una loro ascesa indipendente nel sistema economico mondiale fu proprio applicare delle limitate ma efficaci politiche protezioniste, perlopiù indirette, come ad esempio la svalutazione della moneta cinese per rendere più concorrenziali le merci. Tutte queste condizioni si incrociarono con la necessità dei paesi imperialisti, in controtendenza al procedere della crisi, di rastrellare crescenti quote di plusvalore investendo i capitali laddove il costo del lavoro era più basso e la composizione organica era meno elevata. [10] All’alba del nuovo secolo la Cina era divenuta la “fabbrica del mondo”: le sue esportazioni di merci nel solo anno 2000 praticamente quintuplicavano, passando dal valore di 250 miliardi dollari a quello di 1218 miliardi, piazzandola al secondo posto dopo la Germania.
Il rapporto tra il decadente imperialismo statunitense e l’ascendente imperialismo cinese si configurò come simbiotico nel passaggio tra i due secoli, come unità di opposti sul piano economico volta a lenire le diverse contraddizioni che li connaturavano e per impedirne l’aggravarsi sul terreno della crisi. Questo passaggio apparentemente positivo della cosiddetta globalizzazione si basò concretamente su tre passaggi. Il primo consistette nel ruolo preminente che i capitali statunitensi, in forma di investimenti diretti esteri, rivestirono nel produrre il gigantesco processo di accumulazione in Cina, successivo alla reintroduzione del capitalismo nel paese ad opera della dirigenza revisionista. [11] Il secondo è che le merci prodotte in Cina trovarono effettivamente mercato di sbocco negli Usa, sostanzialmente senza che vi fossero frapposte barriere protezionistiche, tanto che Pechino divenne il principale partner commerciale degli Stati Uniti, oltre che dell’Ue e del Giappone. Il terzo fu l’accettazione da parte di Washington, come conseguenza di tutto ciò, del surplus commerciale a vantaggio della Cina, che iniziò a esportare verso gli Usa molto più di quello che importava, ottenendo in cambio non solo lo sfruttamento del proletariato cinese con gli investimenti diretti, ma anche il finanziamento del proprio stratosferico debito pubblico. Infatti, dall’inizio del secolo attuale, la Cina iniziò, grazie alle ingenti riserve valutarie in dollari accumulate nel processo poc’anzi illustrato – stimate in più di 61 miliardi già nel 1995 – ad acquistare titoli del tesoro statunitense. Nel 2000 ne possedeva già 60 miliardi, ma la cifra si sarebbe rivelata in ascesa esponenziale. Una politica resa possibile, da parte statunitense, grazie al ruolo assunto dal dollaro come moneta adottata nelle transazioni a livello mondiale, il che consente di mantenere alti livelli di debito evitando contemporaneamente derive inflazionistiche, essendo la propria moneta riserva di valore a livello mondiale.

La “globalizzazione” in crisi e il ritorno del protezionismo

L’affermarsi delle potenze emergenti rappresentava la punta di un iceberg nel processo di globalizzazione imperialista che evolveva secondo la legge dialettica della negazione della negazione, cioè contraddicendo la premessa fondamentale da cui era nato: il predominio statunitense. Il massimo sviluppo della produzione e circolazione intercapitalistica mondiale aveva sempre di più diversificato i centri direzionali e le frazioni di capitale che ne beneficiavano o che comunque entravano in concorrenza per spartirsi una torta sempre più ristretta, tanto che gli analisti economici affermavano che “Nel 2006 sono cambiati i motori dell’espansione mondiale. La crescita del prodotto negli Stati Uniti è rallentata, passando da un tasso annuo di oltre il 4% nei primi due trimestri 2006 a circa il 2% nella seconda metà dell’anno e all’1 e 1/4% nel primo trimestre 2007. Al contempo, la crescita della domanda si è intensificata o consolidata nella maggior parte delle altre economie avanzate, compresi area dell’euro, Giappone, Regno Unito e Canada. L’incremento della domanda interna ha continuato ad avere un ruolo importante anche nelle principali economie emergenti dell’Asia, dell’Europa centrale e orientale e dell’America latina”. [12]
Le contraddizioni intrinseche alla fase della globalizzazione tesero ad aggravarsi sempre di più, a partire dalla fine del 2006, con lo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime statunitensi, che dimostrò quanto può essere destabilizzante la discrasia tra sovraprofitto finanziario e valore realmente prodotto. L’interventismo statale in economia, tanto vituperato fino ad allora dai neoliberisti, ritornò ad essere all’ordine del giorno – quantomeno negli Usa – con la presidenza Obama che decise di salvare dal collasso attraverso soldi pubblici i grandi gruppi automobilistici General Motors e Chrysler.
Non è un caso che il 2006 è anche l’anno del fallimento del cosiddetto “Doha Round” nell’ambito del Wto, ovvero del negoziato per promuovere ulteriormente il commercio mondiale, in particolare mettendo ufficialmente e definitivamente al bando ogni ipotesi di misure protezionistiche in ambito agricolo. Oltre a tale punto, la rottura riguardò anche i prodotti industriali e la liberalizzazione dei servizi e finì per rendere impossibile un’intesa viste le divergenze tra Usa, paesi Ue, India e Cina. Tale conflitto all’interno del Wto era il risultato di nuovi rapporti di forza a livello mondiale, con i paesi del G7 che iniziarono a retrocedere a tendenziale vantaggio delle potenze emergenti e in particolare della Cina, come dimostrano chiaramente i grafici di seguito.

Dunque il concorrere dell’aggravarsi sia della crisi sia della concorrenza interimperialista determinò la condizione per cui, oltre al succitato riemergere del keynesismo, si iniziò a porre in dubbio il dogma liberoscambista, dominante fin dagli anni ottanta.
La prima manifestazione di questa svolta fu l’aumento dei trattati di libero scambio bilaterali, a detrimento dei trattati di libero scambio multinazionali come quelli istitutivi della Comunità Europea o come il Nafta tra Messico, Usa e Canada. Ad esempio, in Asia orientale fino al 2000 gli accordi commerciali bilaterali erano due; dal 1996 al 2000 crebbero per arrivare a 32 e tra il 2001 e il 2007 arrivarono a 38. Il modello dei trattati bilaterali, infatti, consente alle singole borghesie dominanti nei due paesi di aver maggiore controllo delle ricadute dell’integrazione economica, di stabilire un chiaro rapporto di gerarchia generale o per singoli settori economici, di determinare una divisione del lavoro definita e contemporaneamente di tagliare fuori i concorrenti esterni a tale rapporto bilaterale.
La Cina, ad esempio, ha costruito la sua espansione capitalistica nell’area asiatica sulla base di trattati bilaterali e regionali, come quello firmato con l’Associazione delle nazioni dell’Asia sud orientale (meglio conosciuta con l’acronimo in lingua inglese Asean). Il suo esempio ha fatto scuola per i propri concorrenti in quel continente, come Giappone, India, Corea del Sud e per gli stessi Stati Uniti di Trump, che hanno rinegoziato il trattato con Seul firmato nel 2012 e, lo scorso anno, hanno concluso un accordo di libero scambio con Tokio.

“American First!” da Obama a Trump

Il 2009 segnò la formalizzazione del ritorno del protezionismo nell’agenda legislativa degli Usa. Con l’American Recovery and Reinvestment Act, la presidenza Obama andò ad imporre la clausola “buy american” che obbligava, per lavori pubblici e in materia di edilizia, l’utilizzo di acciaio e di beni industriali prodotti negli Stati Uniti. Contemporaneamente, veniva avviato un piano di stimolo all’economia, che prevedeva un pacchetto anti-crisi da 787 miliardi.
Dall’altra sponda dell’Atlantico non stettero a guardare. In particolare, keynesismo e protezionismo la fecero da padroni nelle politiche seguite dai vari esecutivi europei rispetto al settore automobilistico, tradizionalmente il cuore industriale di ogni paese imperialista e il più esposto alla crisi.
Ad esempio in Spagna, nello stesso anno, il governo varò il Plan de Competitividad, con 800 milioni di prestiti agevolati al settore automobilistico, 600 dei quali distribuiti tra il 2012 e il 2014. In Gran Bretagna, i prestiti e le garanzie al settore vennero quantificati in 2,3 miliardi di sterline. In Francia, la Peugeot ottenne dall’esecutivo un finanziamento da 3 miliardi. In Germania, la torta venne divisa principalmente tra Volkswagen, Opel e Skoda, che si spartirono, dal 2009 al 2010, 5 miliardi di euro. Misure che vennero varate nonostante i formali paletti dell’Ue, che dovrebbero impedire aiuti di Stato e storture del mercato nei paesi aderenti. In tale quadro, va inoltre rilevata la particolarità della posizione italiana, con la Fiat che, dopo decenni di prebende pubbliche, sotto la guida di Marchionne, portò avanti un processo di multinazionalizzazione, approdato nel 2014 all’acquisto della Chrysler statunitense, contribuendo a saldare ancora di più i destini dell’imperialismo italiano a quello degli Usa e conducendo a livello aziendale un attacco frontale alla classe operaia, che sarà poi modello per il jobs act di Renzi.
Altro passaggio di sviluppo della tendenza protezionista, seppur in forma indiretta, furono le politiche espansive in campo monetario e finanziario avviate dalla Fed statunitense, con l’iniezione sui mercati di 40 miliardi di dollari al mese dalla fine del 2009 al 2013 inoltrato: una bolla valutaria che, tra l’altro, determinò nel 2010-11 l’ondata inflattiva e il conseguente aumento dei beni di prima necessità contro le quali si scatenarono le rivolte nel mondo arabo.
L’esempio della Fed statunitense avviò quella che, dal 2012 in poi, venne definita come “guerra valutaria”, ovvero l’adozione in diversi paesi di politiche che, attraverso misure relative al costo del denaro o in campo tributario, praticavano di fatto il protezionismo indiretto delle proprie merci, rendendole più competitive sui mercati una volta svalutata la moneta nazionale. Ad esempio, lo yen giapponese, nel biennio 2012-2013, perse il 22% del proprio valore grazie al piano di acquisto di titoli di Stato da parte della banca centrale, che a tal fine immise 10 mila miliardi di yen. La Francia, nello stesso periodo, decise di procedere con l’aumento dell’iva e gli sgravi alle imprese francesi, in modo da abbattere la concorrenza estera. Tali misure riguardarono anche il lavoro, come nella Spagna di Rajoy, dove l’iva venne coperta a livello pubblico così come i contributi da versare per i dipendenti, per i padroni che avessero assunto disoccupati spagnoli, con il risultato di rendere più competitive, con tali sgravi sui costi di produzione, le merci prodotte internamente piuttosto che i prodotti di importazione. Tagli radicali ai tassi d’interesse furono decise dalle banche centrali di Perù, Turchia e Brasile, dove peraltro i governi della sinistra borghese imposero anche limitazioni agli investimenti esteri. In Cina si festeggiò il capodanno nazionale, che nel 2013 cadeva il 10 febbraio, con l’iniezione di 72 miliardi di renminbi. Infine, nel marzo 2015, il presidente della Bce Draghi riuscì, spezzando le resistenze degli imperialisti tedeschi interessati ad un euro forte e fautori dell’austerità finanziaria, ad avviare il cosiddetto quantitative easing, cioè l’acquisto, con liquidità emessa appositamente, dei titoli delle banche commerciali dell’eurozona. Una politica finanziaria esauritasi appena nel dicembre 2018.
Alla fase della guerra delle valute, seguì quella delle azioni giudiziarie utilizzate per colpire i concorrenti commerciali, inaugurata nel settembre del 2015 con lo scoppio dello scandalo dieselgate, ovverosia dell’inchiesta da parte dell’Agenzia statunitense per la protezione ambientale a carico della Volkswagen, accusata di manomettere il livello di emissioni dei propri autoveicoli, in modo da farli apparire come compatibili con la normativa in vigore negli Usa. Si trattò di un colpo che ha provocato qualcosa come 25 miliardi di perdite al gruppo monopolista tedesco, con un crollo immediato delle vendite del 24,7% negli Usa, 30 mila esuberi dichiarati fino al 2020 e mezzo milione di autovetture di cui le autorità statunitensi hanno imposto il riacquisto dai clienti, con relativo risarcimento.
Allo scandalo dieselgate seguirono altre inchieste finalizzate a colpire i concorrenti economici. A partire dal 2016 iniziarono a entrare nel mirino dell’Ue i monopoli statunitensi della cosiddetta new economy, con Google, Apple e Amazon posti sotto inchiesta per abusi di mercato e violazioni fiscali e multati pesantemente, tanto da provocare l’intervento del governo Usa, con dichiarazioni politiche in loro difesa. E ancora, a novembre 2018, con l’arresto da parte delle autorità giapponesi di Carlos Ghosn, amministratore delegato della Renault e fino ad allora presidente della Nissan, si arrivava all’estremo dello scontro tra il gruppo monopolista francese, che controlla la casa automobilistica giapponese dagli anni novanta, e il capitale nipponico, che vuole ritornarvi a dettar legge. Infine, nel dicembre scorso, l’arresto da parte delle autorità canadesi, su richiesta statunitense, di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria di Huawei, monopolio cinese delle telecomunicazioni, accusata di violare le sanzioni all’Iran. Provocazione alla quale la Cina ha risposto con l’arresto di tre cittadini canadesi con accuse di spionaggio e di attentare alla sicurezza nazionale: una chiara ritorsione dopo che Pechino aveva minacciato gravi conseguenze per l’incarcerazione di Wanzhou, poi liberata su cauzione.
Successivamente all’aprirsi della fase delle grandi inchieste a scopo protezionistico, si inserì il fallimento dei trattati liberoscambisti, che segnò l’inizio dell’era di Trump. Stiamo parlando del Ttip, Transatlantic Trade and Investiment Partnership, che avrebbe dovuto unire in un’area di libero scambio Usa e Ue, e del Tpp, Trans Pacific Partnership, il quale sarebbe invece dovuto sorgere nell’area pacifica, abbattendo le barriere commerciali tra Usa, Australia, Brunei, Perù, Giappone, Canada, Cile, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Singapore e Vietnam.
Trump, in effetti, già in campagna elettorale aveva svolto una polemica aspra contro il liberoscambismo e una volta arrivato al potere, con le elezioni del 2016, fece andare a monte sia il Ttip sia il Tpp. Secondo la linea di ridefinizione strategica dell’imperialismo statunitense perseguita dall’attuale presidente, gli Usa possono riconfermarsi come potenza economica mondiale solo se riescono a riequilibrare l’enorme deficit commerciale che hanno con il resto del mondo, pari a 800 miliardi nel 2016, riportando quindi la produzione di valore e plusvalore, nel settore industriale e dunque dell’economia reale, in patria. Riequilibrandosi in tal senso, gli Usa sarebbero, quantomeno in parte, riusciti ad arginare la costante tendenza alla finanziarizzazione del proprio capitalismo, che aveva già portato allo scoppio della bolla speculativa a partire dal 2006, e avrebbero arginato l’enorme debito pubblico che nel 2018 è stato stimato a 21 mila miliardi di dollari, con una crescita 36 volte più rapida del pil.
Fin dall’inizio di questo secolo, infatti, il progressivo declino dell’egemonia yankee si era legato a pesanti deficit commerciali con il resto delle potenze industriali, in particolare Germania, paese capofila dell’Ue, Giappone e Cina. Nel 2006, gli Usa superarono la Francia come mercato di esportazione delle merci prodotte in Germania. Tra il 1999 e il 2016, il deficit commerciale statunitense verso l’eurozona è passato da 27 a oltre 146 miliardi di dollari, di cui solo 65 verso la sola Germania. Con il Giappone il deficit commerciale a sfavore degli Usa era stimato nel 2017 a 56,6 miliardi di dollari. Ma anche con altri paesi che avrebbero dovuto essere coinvolti nel Tpp le cose non andavano meglio, come con il Messico, il Vietnam, la Corea del Sud, la Malaysia, con i quali gli Usa avevano rispettivamente, nel 2016, un deficit pari a 63, 31, 27 e 17 milioni di dollari. Si capisce come, due trattati che avrebbe dovuto, secondo il progetto iniziale della borghesia imperialista yankee, rappresentare l’apogeo dell’influenza economica statunitense sul mondo, si sarebbero rivelati, quantomeno sul piano della bilancia commerciale, un boomerang per gli Usa.
Per quanto riguarda Pechino, va subito affermato un dato: degli 800 miliardi di deficit Usa, 500 sono a favore della sola Cina, la quale peraltro è la maggior detentrice di debito pubblico statunitense, con una quota pari circa a 1200 miliardi. Inoltre si tratta di una potenza in piena espansione economica a livello mondiale, retta da un governo che non è sottoposto, in virtù di alleanze politiche e militari, all’influenza statunitense, come lo sono altri concorrenti come la Germania e il Giappone.
Nel procedere del nuovo secolo sono arrivate a piena maturazione le contraddizioni che il processo di globalizzazione, poc’anzi illustrato, ha prodotto relativamente alla compenetrazione tra il decadente imperialismo statunitense e l’ascendente imperialismo cinese. Non solo il deficit commerciale e l’indebitamento a svantaggio del primo, ma anche la capacità del secondo di diventare da importatore a esportatore di capitali. Basti pensare che già nel 2013 il saldo tra investimenti ricevuti in patria e investimenti effettuati all’estero era positivo per 2 mila miliardi di dollari per la Cina, mentre per gli Usa lo stesso saldo era negativo per più di 4 mila miliardi. Tuttora la Cina è, ad esempio, il primo investitore internazionale in Europa, specie nell’area mediterranea, dove finiscono il 10% degli investimenti esteri cinesi.
Questo ci porta a discutere il protezionismo nella sua forma più pura, ovvero l’imposizione di dazi ai prodotti commerciali importanti, che hanno l’obbiettivo di impedire la valorizzazione dei capitali investiti all’estero a favore di quelli investiti in patria o di prelevarne, a favore del fisco nazionale, una parte di plusvalore, sotto forma appunto di tributi per le merci in entrata. Nel 2018, gli Usa hanno deciso una sovratassa del 10% per 5475 prodotti cinesi e fabbricati in Cina (alluminio, acciaio, chimici, tessili ed elettronici), che nel 2019 dovrebbe salire al 25%. Il valore complessivo di tale imposizione dovrebbe arrivare a quasi 400 miliardi di dollari. Pechino ha risposto con dei controdazi su 5200 prodotti made in Usa che valgono complessivamente 60 miliardi di dollari, sui 130 miliardi di importazioni statunitensi nel 2017. Nell’ambito del G20 di Buenos Aires, tenutosi il 30 novembre e il primo dicembre scorsi, Stati Uniti e Cina sono arrivati ad un accordo di cosiddetta tregua che congela nuovi rincari di tariffe per tre mesi, tempo nel quale si dovrebbe compiere una trattativa complessiva: ma ovviamente le nuove scintille sul caso di Meng Wanzhou non fanno promettere nulla di buono.
A riprova del fatto che la presidenza di Trump intenda complessivamente rinnovare la posizione statunitense nei mercati globali, vi sta il fatto che egli non ha solo imposto dazi al nemico strategico cinese, ma anche agli alleati Ue, con l’annuncio, l’8 marzo scorso, di nuove tariffe su prodotti in acciaio e alluminio provenienti dall’estero e quindi dirette sopratutto contro gli esportatori europei. A tale decisione è seguita la reazione europea, con il varo di due regolamenti comunitari, nei mesi successivi, con la previsione di dazi a escalation progressiva negli anni, dal 10% al 50%, su duecento prodotti statunitensi. A tali schermaglie, è seguito, nel luglio 2018, un accordo tra Trump e Juncker, presidente della Commissione Europea, che punta a evitare l’applicazione delle misure da entrambe le parti, con l’eccezione delle automobili, con l’impegno europeo ad acquistare più soia e gas dagli Usa, ad aumentare l’interscambio nei settori chimici, farmaceutici e dei servizi e a procedere, di comune accordo, alla riforma del Wto.
Anche per quanto riguarda il continente americano, il vento rinnovatore di Trump si è fatto sentire, attraverso la rinegoziazione del North Atlantic Free Trade Agreement (Nafta) tra Usa, Messico e Canada, con un nuovo accordo commerciale denominato United States – Mexico – Canada Agreement (Usmca). L’intesa riforma completamente il Nafta, facendo prevalere l’interesse Usa alla protezione della propria industria nazionale. Limitandosi ai contenuti principali in materia di industria automobilistica, questa riforma prevede che solo i prodotti realizzati per il 75% nei tre paesi possa essere commercializzato nell’area di libero scambio e che il 40% del valore delle macchine e il 45% del valore dei furgoni devono essere realizzati in fabbriche che paghino salari di almeno 16 dollari l’ora, per evitare le delocalizzazioni in Messico. In caso di sforamento di tali parametri scattano dazi doganali e, in ogni caso, vengono stabilite delle quote di esportazioni massime per ogni singolo paese. L’Usmca inoltre limita, rispetto al Nafta, il potere delle corti arbitrali internazionali nelle controversie tra Stati e multinazionali che investono all’estero: una misura che finisce per ampliare la sovranità dei primi a scapito delle seconde, voluta da Trump per scoraggiare l’esportazione di capitali fuori dai confini Usa. Particolare, infine, è la clausola che impone ad ogni Stato di sottoporre agli altri due eventuali accordi commerciali con Cina, Cuba o Corea Democratica, con facoltà, in caso di firma, di recedere dall’Usmca in caso di dissenso su tale accordo. Un chiaro ricatto yankee per limitare l’influenza cinese in America e isolare ancora di più due regimi che non si piegano ai diktat degli yankee e difendono le conquiste del socialismo.
Queste mosse di politica estera da parte di Trump non possono essere lette, del resto, solo sul piano strettamente economicocommerciale, ma anche su quello strategico politico-militare. Il ritorno della produzione industriale in patria, il reshoring, che il protezionismo ovviamente incentiva, significa riappropriazione di quote di capitale fisso e intellettuale in campi quali la siderurgia, la meccanica, la tecnologia robotica e informatica che non possono essere lasciate in mano ad una potenza, come la Cina, che aspira, e oggettivamente si orienta in tal senso, a contendere l’egemonia mondiale agli Usa. Basti vedere come questo paese si sia sviluppato autonomamente dagli Usa nella new economy, con monopoli come Alibaba, Tencent, Weibo, Wechat che nel gigante asiatico hanno soppiantato Google, Amazon e Facebook. Ma anche come attualmente Pechino stia tallonando gli Usa nella quota mondiale di brevetti, generandone il 20% contro il 23% statunitense.
Possiamo dunque distinguere due piani strategici dell’amministrazione Usa rispetto alle politiche protezionistiche. Strettamente connessi, entrambi sono derivati dalla dialettica tra la crisi del sistema di produzione capitalistico e la necessità per gli Usa di conservare la propria egemonia in tale crisi. Il primo, di medio periodo, è quello di colpire gli avversari/concorrenti sul piano del recupero di quote di valore e plusvalore in patria, stante la contraddizione di un processo di globalizzazione che è insito nella fase imperialista, ma che rischia di rovesciarne i rapporti di forza globali, aumentando progressivamente, come è già avvenuto, la quota di valorizzazione capitalistica in mano ai paesi cosiddetti emergenti. Il secondo è quello di lungo periodo, che accumula forze del complesso imperialistico militar-industrialetecnologico richiamandole in patria e contemporaneamente punta ad un nuovo protagonismo bellicista proprio in Estremo Oriente, in funzione di accerchiamento anticinese (pressione sulla Corea Democratica, militarizzazione del Mar Cinese Meridionale, appoggio all’espansionismo giapponese e al secessionismo di Taiwan). [13]
Il grido America First! suona come l’evidenza sempre più nitida che l’imperialismo Usa tende a trascinare l’umanità intera verso il baratro della guerra imperialista come soluzione alla propria crisi di egemonia e, fondamentalmente, alla crisi dell’interno sistema capitalista.
D’altronde, che il piano della guerra imperialista sia strettamente legato al protezionismo non è solo una verità storica, ma trova conferma su tutti i fronti di scontro internazionale anche oggi. Poniamo il caso delle nuove sanzioni varate da Trump contro l’Iran. Se da un lato è vero che, nel mirino statunitense, vi sia la posizione indipendente della Persia nel quadrante mediorientale, dall’altro è altrettanto vero che esse rappresentano anche un attacco ai rivali economici degli Usa, se pensiamo che, dopo la fine dell’embargo con l’accordo firmato da Obama, il 27% dell’export petrolifero iraniano è comprato dalla Cina e il 20% dall’Ue e che verso quest’ultima, nel biennio 2016-2017, le esportazioni da Teheran erano cresciute del 31,5%. [14]

Alcune considerazioni finali

Il protezionismo è dunque una tendenza reale nel capitalismo attuale; il suo determinarsi è fondamentalmente legato alla crisi e principalmente alle velleità statunitensi di difendere il proprio primato economico mondiale, messo a dura prova dai deficit commerciali. Inoltre, il suo sviluppo è dialetticamente connesso al processo di guerra imperialista che sta sempre di più rivestendo le relazioni globali.
Si tratta comunque di una tendenza che si colloca in un mare magnum capitalistico ancora saldamente legato alle dinamiche sviluppate nell’epoca della cosiddetta globalizzazione, poiché ovviamente la dimensione naturale del capitalismo nella fase imperialista è quella della produzione globalizzata. A questa tendenza, nella quale il protagonismo statunitense è principale, rispondono controtendenze, nelle quali l’iniziativa è invece nelle mani dei concorrenti degli Usa, in primis Cina e Ue. Per quanto riguarda la prima, la Nuova Via della Seta è un chiaro progetto strategico di penetrazione imperialista mondiale, dalla Cina all’Africa passando per l’Eurasia, alla quale gli Stati Uniti, nonostante il protezionismo dell’amministrazione Trump, stanno tentando di rispondere promuovendo l’Indo Pacific Economic Vision, un piano di investimenti e di esportazioni da 113 milioni di dollari nell’area sostanzialmente toccata da quello che doveva essere il Tpp.
Il punto dolente per gli Usa è che, se da un lato la strategia protezionista di Trump coglie una contraddizione grave sul piano economico dello sviluppo dell’imperialismo Usa – ovvero quella del deficit commerciale – dall’altra essa può sul lungo periodo rivelarsi controproducente. Oltre alle ricadute dei contro-dazi, sul piano finanziario vi è il rischio che la Cina non sostenga più il debito statunitense, visto che già quest’estate Pechino ha iniziato la vendita di titoli del tesoro yankee finora detenuti nel proprio “portafoglio”. Così come si profila lo spettro di un progressivo abbandono del dollaro nelle transazioni internazionali in ritorsione alle virate isolazioniste di Trump. Una prospettiva che Russia e Cina hanno recentemente caldeggiato quantomeno nei loro scambi bilaterali, ponendo così strategicamente in discussione il predominio mondiale yankee sul piano finanziario-commerciale e destabilizzandone lo stesso piano interno, perché il debito pubblico statunitense sarebbe ingestibile, ad esempio in termini di inflazione, qualora la moneta nazionale non costituisse più l’obbligata riserva di valore mondiale.
Peraltro, Trump si è rivelato pienamente globalista nel promuovere una detassazione interna e una nuova stagione di deregolamentazione in campo finanziario e borsistico, a conferma che la finanziarizzazione del capitale continua ad essere perseguita come necessità oggettiva dettata dalla crisi di valorizzazione sul piano dell’economia reale e che nessun “sovranista” si sogna di mettere in discussione la circolazione di capitali, apogeo del parassitismo capitalistico. Inoltre, la divisione internazionale del lavoro consente facilmente di aggirare le tariffe sui beni importati: basti pensare ad esempio che i monopoli automobilistici europei che hanno stabilimenti negli Usa invece di esportare oltre Atlantico i loro prodotti possono ampliare in loco la produzione e vendere quanto prodotto in Europa nel mercato cinese. Così come gli importatori statunitensi di acciaio possono rivolgersi alla Corea del Sud, esente da dazi, in modo da evitare i produttori cinesi. E infatti, dall’entrata in vigore dei nuovi dazi di Trump, il deficit complessivo statunitense è paradossalmente aumentato!
Il discorso rispetto all’Ue ci riguarda strettamente da vicino: la crescita delle tendenze sovraniste nei singoli Stati, che ha avuto il suo apice nella Brexit, contraddice una politica estera dell’Ue ancora ufficialmente ispirata al liberoscambismo, che, ad esempio, ha risposto all’affossamento da parte di Trump del Ttip con la firma, nel 2017, del trattato di libero scambio con il Canada (il Ceta) e nel 2018 con il Giappone. Trattasi, in ogni caso, di trattati bilaterali le cui conseguenze generali, dal punto di vista macroeconomico, appaiono meno rilevanti di quelle previste per il Ttip. L’Ue vive due contraddizioni: il libero scambio al proprio interno talvolta va a scontrarsi con gli interessi delle borghesie dominanti nei singoli paesi e, contemporaneamente, il proprio progetto di mercato unificato va a scontrarsi con i progetti egemonici esterni, in questa fase sopratutto degli Usa di Trump. La prima contraddizione viene ideologicamente e strategicamente interpretata nello scontro tra i sovranismi nazionalistici del gruppo di Visengrad, degli attuali governi italiano, austriaco, di Len Pen in Francia ecc. ecc. e il globalismo europeista sostenuto dall’asse tedesco – francese e dal tradizionale ceto politico del Partito Popolare e del Partito Socialista. Il sovranismo pretenderebbe di farsi carico degli interessi delle singole borghesie dominanti ma, per la debolezza del loro peso economico specifico, per i legami sussistenti tra di esse e le loro corrispettive europee, per le contraddizioni che un processo di disintegrazione dell’Ue aprirebbe per ognuna di loro, spesso il suo ruolo si rivela più di ridefinizione dell’egemonia ideologica in senso nazionalistico sulle masse popolari che realmente antieuropeo. Il retromarcia, veramente poco sovranista, sulla finanziaria da parte del governo Conte ne è stata la prova.
La seconda contraddizione invece, si inserisce nello scontro tra la linea attualmente dominante nell’Ue (asse tedesco – francese) e l’assedio di Trump, che punta ad un’Europa disgregata per linee nazionali, ancora più facile preda economica e politica degli Usa: non a caso i gruppi sovranisti europei guardano alla cosiddetta “internazionale nera” di Bannon, già ideologo del presidente Usa. Questo scontro intercapitalista sul terreno di un continente sul quale si riaffaccia lo spettro della recessione, si dialettizza sul piano della guerra imperialista: non è un caso che, a partire dall’elezione di Trump, Germania e Francia stiano continuamente premendo per la costituzione di una difesa comune europea.
Per quanto riguarda la nostra classe, il proletariato, va detto che il protezionismo, come ricetta ideologica ed economica, tende inevitabilmente ad essere agitato da settori della classe dominante per trovarvi una rinnovata egemonia. L’immagine di Trump che firma i dazi su acciaio e alluminio con a fianco dei metalmeccanici statunitensi è emblematica in tal senso. Siamo davanti al riproporsi tragico della truffa del “capitalismo nazionale”, già storicamente caro ai fascisti, che vuole legare i destini della classe operaia a quella dei propri padroni “nazionali” in nome del comune nemico straniero. Si tratta della stessa fuffa che in Italia diffondono e radicano i locali sovranisti, in primis l’attuale governo Conte. Ad esempio, il ministro del lavoro Di Maio ha cercato il consenso della classe operaia inserendo nel cosiddetto “decreto dignità”, uno dei primi provvedimenti del governo, la norma che colpisce con sanzioni i padroni che delocalizzano, pur avendo ricevuto finanziamenti pubblici. Tanto rumore per nulla, visto che le delocalizzazioni, purtroppo, stanno tuttora continuando a lasciare centinaia di operai senza lavoro. E negli Stati Uniti di Trump, nonostante tutta la demagogia distribuita da quest’ultimo, le cose non vanno meglio: basti vedere ai 14.700 licenziamenti annunciati a novembre 2018 da General Motors, con la chiusura di 4 fabbriche in territorio statunitense, nell’Ohio e nel Michigan.
Si può dire di più: il capitalismo nella versione protezionista presenta lo stesso conto di sfruttamento e rapina del capitalismo nella versione liberista. L’aumento di prezzi conseguente alla tassazione, i licenziamenti nei settori colpiti dai provvedimenti protezionistici, l’inflazione conseguente alle svalutazioni commerciali, ecc. tutte le misure protezionistiche fanno ricadere i loro effetti, diretti e indiretti, sul proletariato internazionale e sulle sue singole frazioni nazionali, che pagano con le proprie condizioni di vita le guerre economiche combattute dai padroni e dai loro governi.
Il veleno sciovinista va combattuto in ogni sua espressione, in tutte le illusioni che sparge e nelle barbarie razziste e guerrafondaie che alimenta e prepara in forme sempre più estese. L’autonomia e la lotta del proletariato e delle masse popolari sono le sole condizioni che ci permettono di difendere le nostre condizioni di vita: il compito dei comunisti è costruirne le condizioni, sostenendo le lotte che si sviluppano, radicandosi tra i settori operai che si mobilitano, costruendo nuovi quadri interni alla classe.


Note:

[1] Vedi Antitesi n° 5, pp. 6 ss.

[2] Si tratta di teorie di natura borghese che pongono come principale, nell’analisi economica, il governo della quantità di moneta posta in circolazione dalle banche centrali.

[3] Vedi K. Marx, Il capitale, Newton, 1996, pp. 514 ss.

[4] Ivi, p. 544.

[5] Vedi Antitesi n° 5 p. 65 s

[6] https://www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/capitolo7.htm

[7] Per la nozione di toyotismo vedi Antitesi n° 3 pp. 19 ss. Per comprendere la multinazionalizzazione dei monopoli vedi
Antitesi n° 1 pp. 26 ss.

[8] Vedi la sezione uno di Antitesi n° 3 e n° 4

[9] Sul revisionismo in Cina vedi Antitesi n° 2, pp. 24 ss.

[10] Sulla nozione di composizione organica
Antitesi n° 3 p. 77.

[11] Sul punto vedi, ad esempio, Giuriato F., L’evoluzione degli investimenti diretti esteri in Cina: sviluppo, ruolo e impatto del capitale estero sull’economia del paese ospite, 2013, Università Ca’ Foscari Venezia, http://dspace.unive.it/handle/10579/3728.

[12] Relazione annuale della Banca dei Regolamenti Internazionali 2007 p. 16, https://www.bis.org/publ/ arpdf/ar2007i2.pdf.

[13] Trump si pone in tal senso in stretta continuità con il suo predecessore Obama. Vedi Antitesi n° 2 pp. 65 ss.

[14] Coville T., Il peso delle sanzioni sulla stabilità dell’Iran, in Limes, rivista italiana di geopolitica n° 7/2018, Gedi gruppo editoriale Spa, pp. 235 ss.


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