Aiutiamoli a casa loro?
Le nuove frontiere avanzate dell’imperialismo in Africa
“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.06 – pag.34
L’immigrazione massiccia di proletari in fuga dalla miseria, dal saccheggio sistematico delle risorse, dalle guerre, dalla barbarie, perpetrati dall’imperialismo nei paesi dominati e controllati, è una conseguenza della crisi del sistema capitalista a livello internazionale e dunque del peggioramento delle contraddizioni economiche, sociali e politiche che i popoli del pianeta sono costretti a vivere.
Il fenomeno dell’immigrazione rappresenta una realtà globale, che coinvolge milioni di persone (circa 260 milioni) e non solo diretto dai paesi più poveri dell’Africa e dell’Asia o del sud America verso i paesi capitalistici più sviluppati, ma anche all’interno delle stesse aree di provenienza.
In particolare, l’emigrazione di migliaia di proletari dall’Africa è effetto della politica coloniale e neocoloniale delle principali potenze imperialiste (Usa, Francia, Inghilterra, Italia, Cina) di rapina delle innumerevoli materie prime presenti nel continente africano (petrolio, uranio, oro, diamanti ecc.) e di appropriazione delle terre (land grabbing). La trasformazione dell’agricoltura in questi paesi imposta dall’imperialismo ha visto la depredazione delle terre più fertili sotto il controllo delle multinazionali delle sementi e delle macchine agricole, comportando il cambiamento delle produzioni per l’autosussistenza alimentare in monocolture per l’esportazione, gestite direttamente dalle multinazionali imperialiste. Nell’ultimo decennio si è rafforzato il fenomeno del land-grabbing, il furto delle terre africane perpetrato dai tradizionali paesi imperialisti come Usa e Inghilterra e ora anche dalla Cina, che riguarda circa 60 milioni di ettari, 40 circa nell’Africa sub-sahariana. [1]
La voracità della predazione imperialista si è aggravata con la crisi e la conseguente lotta per la ripartizione delle risorse e dei mercati mondiali da parte delle principali potenze imperialiste, il che produce anche il ricorso a guerre per procura e a destabilizzazioni politiche e militari nei paesi da saccheggiare ed aggredire. L’esodo di milioni di uomini e donne è frutto inoltre della devastazione ambientale che il sistema di produzione capitalistico produce nei paesi oppressi, con l’alterazione degli equilibri naturali legati alle produzioni agricole autoctone, la deforestazione per lo sfruttamento dei suoli, la desertificazione causata anche dal surriscaldamento globale nonché l’avvelenamento permanente dei territori e delle acque, come avviene ad esempio nel Delta del Niger ad opera delle multinazionali petrolifere.
La gestione emergenziale che viene data nella propaganda borghese dei flussi migratori che coinvolgono migliaia di proletari, in special modo dall’Africa, sta portando ad un intervento più massiccio in quell’area da parte dei governi europei, per una rinnovata politica neocoloniale. Oltre ai paesi con un passato coloniale e neocoloniale più consolidato come la Francia, anche l’Italia e l’Ue nel suo complesso stanno intervenendo in aree prima di non loro specifica competenza. Con l’obiettivo di spostare il confine dell’Europa all’interno dell’Africa nell’area del Sahel, a sud della Libia non ancora pacificata e quindi non ancora in grado di rispondere complessivamente agli interessi imperialisti.
In un’intervista dell’allora sottosegretario agli esteri del governo Renzi, Mario Giro, si affermava che “l’Africa è la nuova frontiera, in senso stretto e in senso lato. In senso stretto perché le nostre frontiere si sono allungate, soprattutto a sud visto il caos in Libia e l’instabilità diffusa in tutta la sponda meridionale del Mediterraneo. Adesso siamo strategicamente interessati a capire cosa succede nel Sahel: con l’aumento dei flussi migratori è qui che si concentra la nostra attenzione. Il presidente Renzi ha individuato l’Africa come nuova direzione per la diplomazia della crescita italiana e come nuovo obiettivo per l’internazionalizzazione del nostro paese”. [2]
E così poco prima delle elezioni dello scorso marzo 2018, nonostante le camere sciolte, il governo Gentiloni ha urgentemente deciso di ridimensionare le truppe italiane dispiegate in vecchi teatri come Afghanistan e Iraq, in favore di nuove missioni in Africa nella zona del Sahel, con l’approvazione della missione Misin in Niger, paese dell’Africa occidentale facente parte del G5 Sahel (che comprende Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger) creato nel 2014 con l’obiettivo di contrastare le forze jihadiste che minacciano la stabilità politica dell’area rispondente agli interessi imperialisti ed in cui è già operativa la missione Onu Minusma.
Con questa missione il governo italiano si gioca un’importante partita di riposizionamento imperialista inviando 470 soldati, 130 mezzi terrestri e due aerei (il costo complessivo per il 2018 è stato di 50 milioni di euro). Il Niger è ricco di materie prime come uranio, petrolio, gas naturale, diamanti, oro e altro ancora. Areva, colosso energetico francese presente nel paese dagli anni cinquanta, nonostante il recente crollo del prezzo mondiale dell’uranio, continua ad estrarre qui un terzo del fabbisogno delle centrali nucleari di Francia, mentre oltre l’80 per cento della popolazione locale non ha accesso all’elettricità. Nella capitale Niamey e nella regione di Agadez, dove si concentrano i principali giacimenti d’uranio e di altre risorse, sono dispiegati anche mille soldati statunitensi. Africom, il comando Usa in Africa, sta rafforzando la propria presenza in Niger con la costruzione di una base aerea ad Agadez da 100 milioni di dollari, mentre droni armati MQ-9 Reaper con un’autonomia di 1500 chilometri, decollano dalla base di Niamey.
La missione italiana in Niger (120 effettivi nel primo semestre del 2018) è dislocata nella capitale Niamey e, in misura maggiore, nella remota regione settentrionale di Agadez, più precisamente nel fortino di Madama, base controllata dai francesi a circa 100 chilometri dal confine sud della Libia. Capofila dell’interventismo nel Sahel è la Francia: con l’operazione Barkhane del 2014 che ha visto il bombardamento di aree del Mali e con 4 mila uomini, caccia, droni e basi sparse dalla Mauritania al Ciad, l’Eliseo fa sentire il peso di decenni di relazioni privilegiate con le ex colonie dell’Africa occidentale nel tentativo di mantenere la leadership in una regione in cui nuovi attori, come Cina, India e Sudafrica, cercano di espandersi.
Negli ultimi tempi, il paese è finito al centro dell’interesse delle potenze imperialiste principalmente per la sua posizione geografica. Collocato nel cuore della fascia sahelo-sahariana è il principale crocevia dei traffici che transitano nella regione: droga, armi ed esseri umani, soprattutto, ma anche valuta, macchine, sigarette, medicinali e altri prodotti contraffatti che attraversano i porosi confini. A seguito dei precedenti interventi imperialisti in Libia (2011) e Mali (2013) questa regione è caratterizzata da una forte instabilità dei governi locali corrotti al soldo dell’imperialismo e che hanno sottoscritto a Marrackech lo scorso dicembre il Global Compact dell’Onu, partecipando alle operazioni di controllo e repressione per fermare gli emigranti in cambio dei fondi predisposti per quelle nazioni che aderiscono all’accordo.
Servo delle decisioni dei paesi imperialisti e rispondendo a ciò che prevede la sottoscrizione del governo nigerino al Global Compact, il presidente Issoufou ha imposto delle leggi di criminalizzazione delle migrazioni chiudendo parzialmente la regione di Agadez, antica “Porta del deserto”, rendendo il viaggio dei subsahariani di passaggio nel nord del Niger ancora più pericoloso, lungo e costoso. Una degenerazione delle condizioni umanitarie per gli immigrati in transito che non sta portando ad un contenimento delle partenze, bensì all’aumento dei dispersi nel deserto. Morti silenziose stimate fra due e tre volte superiori a quelle nel Mediterraneo (circa 3000 ogni anno). Con queste leggi repressive varate dall’“europeo” Issoufou, pienamente in linea con le altrettante misure che stanno approntando i vari governi europei, si criminalizzano fortemente tutti gli attori coinvolti nel tentativo di viaggio degli immigrati: da chi fornisce un mezzo di trasporto a chi ospita le persone in viaggio, prevedendo pene detentive o sanzioni altissime per chiunque favorisca l’ingresso e l’uscita nel Niger.
Questa politica repressiva risponde pienamente alle necessità dell’imperialismo di controllo dell’area perché, oltre alla predazione delle materie prime, il controllo dei flussi migratori in funzione delle necessità del sistema capitalista, rappresenta l’obiettivo di costituire una sorta di valvola che si apre e si chiude, e quindi fa arrivare più o meno immigrati nei paesi occidentali, in base alle necessità di manodopera del capitalismo europeo. Inoltre, tante più barriere vengono create al flusso migratorio, più frontiere e più controlli sono da superare per i candidati all’immigrazione, quante più la merce della forza lavoro sarà acquistabile a prezzi stracciati dai padroni europei a proletari immigrati stremati da sofferenze inenarrabili, disposti a qualsiasi condizioni di impiego piuttosto che dover ritornare nei gironi dell’inferno da cui sono fuggiti. Se ci pensiamo bene la forza lavoro è l’unica merce che tanto più viene pressata nel suo circolare e vendersi in un dato paese, quanto più sarà disponibile a buon prezzo, vista la condizione di permanente ricattabilità dei suoi venditori, i proletari immigrati. Lo ha dimostrato più di vent’anni di legislazione italiana in materia di immigrazione, con il ricatto del permesso di soggiorno legato al posto di lavoro, posto a base della Bossi-Fini e delle normative ad essa precedenti (Turco-Napolitano e Martelli).
Inoltre, sotto la facciata delle dichiarazioni dei governi italiani in merito agli interventi in Africa, di controllo dei flussi migratori nell’accezione del governo Gentiloni, di lotta all’immigrazione clandestina in quella del governo Salvini, sta invece l’interesse dell’imperialismo italiano di ritagliarsi un ruolo e un intervento importante in un’area sempre più strategica ma anche sempre più instabile, come gli scarsi frutti della conferenza sulla Libia che si è svolta nel novembre scorso a Palermo stanno a dimostrare. Ed in questo intervento emerge un conflitto sempre più acuto rispetto agli altri attori imperialisti presenti nell’area, principalmente rispetto all’imperialismo francese. Scontro evidente ancora una volta in Libia, con l’Italia che sostiene il governo di Tripoli e la Francia quello di Tobruk.
La politica razzista e le campagne d’odio contro gli immigrati, che con il governo gialloverde Conte-Salvini-Di Maio stanno raggiungendo livelli inaccettabili per i proletari coscienti, si dimostrano ottimi paraventi per nascondere le mire neocoloniali del nostro imperialismo agli occhi delle masse popolari, sempre più immiserite nella crisi del sistema capitalista e bombardate a tappeto dalla propaganda salviniana, razzista e fascista.
Con lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, coniato da Bossi, fatto proprio dal governo Renzi e cavallo di battaglia di Salvini, si vogliono ivece nascondere i reali interessi di dominio nell’area africana e perpetrare una politica di neocolonialismo che spoglierà e deruberà ulteriormente le popolazioni africane, accentuandone ancora di più le contraddizioni economiche e le necessità di sopravvivenza anche con l’emigrazione. Così come si vuole giustificare il sistema di repressione dei flussi migratori che in Libia ha portato all’apertura di campi di concentramento gestiti dalle autorità compradore locali: una pratica che Salvini ha preso in eredità dal precedente governo piddino e in particolare dal suo predecessore al ministero degli interni, il boia Minniti.
È interesse della borghesia mantenere la gestione emergenzialista dell’immigrazione, sia per poter avere il controllo della manodopera necessaria al sistema di produzione nelle differenti fasi della crisi (la valvola che si apre e chiude e fa arrivare più o meno immigrati di cui parlava più sopra), sia come contenuto di propaganda per continuare nella politica di divisione e frammentazione del proletariato e della classe operaia, per impedire che la rabbia delle masse popolari per il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro si rivolga contro il vero nemico: i padroni.
Inoltre con la differenziazione tra immigrati profughi di guerra ed immigrati economici fatta da parte dei padroni italiani e dei loro servi al governo, si vuole approfondire la divisione tra gli stessi proletari immigrati, selezionandoli all’origine, alimentando il circuito affaristico e concentrazionario della cosiddetta accoglienza e nascondendo le conseguenze di decenni di politica di rapina e sfruttamento attuata dai governi imperialisti europei, dapprima con la politica di colonialismo diretto e negli ultimi decenni con la politica di indipendenza formale dei paesi africani, ma di sostanziale dipendenza economica diretta ai paesi imperialisti. Come se sfruttamento economico, ambientale e guerra non siano tutte conseguenze degli assetti globali di potere imperialista e non siano fenomeni strettamente legati e consequenziali uno all’altro.
L’unica soluzione possibile è contrastare questa politica razzista e fascista opponendosi ad ogni progetto di intervento militare nell’area, foriero di ulteriori contraddizioni e di inasprimento della tendenza alla guerra imperialista ed al neocolonialismo, battendosi e praticando l’unità tra tutti i proletari, indipendentemente dai paesi di provenienza, per l’indipendenza dei popoli. Anche l’antifascismo militante assume un ruolo centrale di mobilitazione poiché rappresenta un terreno di scontro reale contro le politiche imperialiste e contro la propaganda e la mobilitazione reazionaria che le classi dominanti stanno incentivando a piene mani.
La lotta contro il razzismo non è questione umanitaria, ma è questione di lotta concreta contro la guerra imperialista e contro i reazionari che usano questo veleno per dividere i proletari.
Note:
[2] AA. VV. Limes, rivista italiana di geopolitica, n° 12/2015 – Africa il nostro futuro, p. 103.