Donne, razza e classe
Alcuni spunti dal libro di Angela Davis
“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.06 – pag.47
Il libro “Donne, razza e classe”, rieditato all’inizio dell’anno da Alegre, critica il concetto di donna come assunto astratto, universale e omogeneo. Al contrario, lo pone in dialettica con le contraddizioni materiali che le donne vivono, a partire da quella di classe e a seguire da quelle di genere e razza. Questo testo ci fornisce lo spunto per provare ad analizzare la condizione e il movimento delle donne oggi.
La variabile è anzitutto “di classe”
“Donne, razza e classe” è lo sviluppo di Reflections on the Black Women’s Role in the Community of Slaves: un approfondimento storico sullo schiavismo e sulla condizione delle afroamericane che Angela Davis conduce in carcere nel 1971. Sono storie di atrocità e sofferenza, ma anche di lotta e resistenza contro la schiavitù, che arrivano ad avere il parziale sostegno delle donne bianche. Queste ultime, prevalentemente della classe media e medioalta, in modo opportunistico, non vollero poi unire le loro lotte per timore di perdere i propri privilegi, rivelando profondi legami ideologici tra classismo, sessismo e razzismo.
Nel suo libro, Angela Davis ci offre uno spaccato di storia politica grazie ad un approccio marxista: affronta quindi il rapporto strutturale tra capitalismo statunitense e condizione delle donne, guardando agli effetti socioeconomici della rivoluzione industriale e alla metamorfosi conseguente creatasi nella società, nella quale le operaie sono in lotta già dalla fine degli anni Venti dell’Ottocento.
In particolare le lavoratrici tessili nel New England danno luogo a picchetti, scioperi e manifestazioni per la riduzione della giornata di lavoro a dieci ore, per tutele e aumenti salariali. Sono donne che, a differenza del passato, non hanno l’alternativa della terra perché non possiedono nulla e, da quanto emerge, sono prevalentemente ignorate, quasi quanto le donne nere, dal movimento femminista di cui Davis ripercorre le tappe.
Per il movimento femminista agli esordi, la donna era la priorità, ma evidentemente non si rivolgeva alle lavoratrici e alle schiave. Il contesto descritto, grazie alle fonti e alle citazioni, è arretrato dal punto di vista della coscienza di classe: gli operai bianchi del nord sono profondamente razzisti verso i neri e anche i più radicali abolizionisti bianchi considerano la schiavitù come un’ingiustizia, senza ammettere che il lavoratore bianco del nord (nonostante lo status di “libero”) non è diverso dal lavoratore schiavo del sud, in quanto soggetti alla stessa oppressione economica. Il movimento assume contenuti di classe non a caso, quando, date le influenze socialiste, “(…) le donne della classe lavoratrice rivendicano il diritto di voto come arma supplementare per avanzare nella lotta di classe (…) portando una nuova energia al movimento suffragista”. [1]
Ha così luogo nel testo un excursus sulle principali protagoniste di passi in avanti – o indietro – della storia delle lotte delle donne. Tra tutte, è quantomai attuale il contributo della militante Nera Lucy Parsons rispetto ai legami tra razzismo e sessismo quali questioni secondarie rispetto allo sfruttamento capitalista: “poichè i Neri e le donne, diceva Parsons, subivano lo sfruttamento capitalista non meno dei bianchi e degli uomini, tutte le energie dovevano essere dedicate alla lotta di classe. (…) Il sesso e la razza, nell’analisi di Lucy Parsons erano solamente delle circostanze esistenziali strumentalizzate dal padronato per giustificare un maggior sfruttamento delle donne e delle persone di colore”. [2]
La consapevolezza della principalità del nemico e della contraddizione capitale-lavoro cresce grazie a molte altre donne citate nel libro e spesso a noi sconosciute qui in Europa. La sindacalista, militante del Partito Comunista, Ella Reeve Bloor sosteneva che “la classe lavoratrice non avrebbe mai potuto assumere il ruolo storico di forza rivoluzionaria se i lavoratori e le lavoratrici non avessero lottato incessantemente contro il veleno sociale del razzismo”. [3] E Lulia Jackson, rappresentante Nera dei minatori della Pennsylvania, a una conferenza internazionale delle donne a Parigi nel 1934 disse che: “ Conosciamo tutte la causa della guerra: è il capitalismo e la guerra contro il fascismo è il solo mezzo per garantire una pace effettiva.”
Il contesto odierno è ovviamente differente da quello analizzato nel testo, ma è caratterizzato dal palesarsi della crisi strutturale del sistema capitalista, una crisi talmente profonda che si concretizza anche in un aumento della barbarie nei confronti delle donne: dai licenziamenti mirati ai tagli su sanità e servizi sociali, dagli omicidi agli stupri, fino all’attacco al diritto di interruzione volontaria di gravidanza (Ivg).
Quest’ultimo caso ci rimanda ad una maldestra e grottesca strategia che ciclicamente – ma sempre più sfacciatamente – tenta di sottrarre una fondamentale conquista delle donne, in nome di una natalità che oggi il governo giallo-verde vorrebbe bianca. È anche su questa questione che il libro di Angela Davis ci pare attuale, poiché pone la necessità di collocare il controllo delle nascite e della sessualità da un punto di vista di classe. A conferma del fatto che quest’ultima sia la contraddizione principale, Davis sottolinea lo scollamento tra le femministe statunitensi e le donne proletarie e sottoproletarie: “(…) le femministe enfatizzarono il controllo delle nascite come soluzione per fare carriera e accedere ai livelli più alti della formazione, obiettivi fuori dalla portata delle donne povere, con o senza contraccezione”. [4] Descrivendo la situazione antecedente alla depenalizzazione dell’aborto a New York lo scenario è tragicamente classista: circa l’ottanta per cento delle morti causate da aborti illegali riguarda donne proletarie e sottoproletarie Nere e portoricane. D’altro canto, sono le stesse che sono state sottoposte nei decenni a programmi di sterilizzazione rivolti sia a loro sia alle native americane. Dall’Eugenics Society alla legge sulla sterilizzazione forzata in 26 stati, dall’American Birth Control League fino all’American Birth Control Federation of America, le campagne sulla natalità nella popolazione nera danno luogo ad una strategia razzista di controllo della popolazione. A conferma della volontà di controllo sulle donne, l’offensiva contro l’interruzione volontaria di gravidanza si rafforza negli Usa dalla fine degli anni Settanta, unita alle politiche discriminatorie razziste. Se nel 1977 l’emendamento Hyde al Congresso sospende i finanziamenti federali alle interruzioni di gravidanza, portando molteplici legislature statali ad imitarne l’esempio, nel contempo la propaganda si volge alla natalità bianca. Infatti, “poichè le donne bianche statunitensi stavano mettendo al mondo sempre meno bambini, negli ambienti ufficiali iniziò ad aggirarsi lo spettro del suicidio della razza” [5], che purtroppo ci suona oggi familiare nei deliri di “sostituzione etnica” di alcune componenti governative nel nostro paese.
Se allora l’emendamento Hyde ha violentemente tolto un diritto alle donne Nere e native americane, oggi, a quarant’anni di distanza, in Italia assistiamo ad uno smantellamento progressivo del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Infatti, mentre quest’ultimo resta sulla carta, le percentuali di medici obiettori ne rendono estremamente precaria l’esistenza. L’obiezione di coscienza sull’Ivg è regolata dall’articolo 9 della legge 194 del 1978 e oggi la percentuale di professionisti che si rifiutano di effettuare aborti supera il 70%. “In 11 anni la percentuale dei medici obiettori è aumentata del 12%, addirittura nel Molise sono il 93% dei ginecologi”.[6] All’obiezione di coscienza si somma anche una crescita dell’agibilità delle organizzazioni ProLife come il “Movimento per la vita” che diffondono il loro veleno anche nei consultori e nelle strutture pubbliche.
“Il controllo delle nascite, la possibilità di una scelta individuale, i metodi contraccettivi sicuri, così come l’aborto se necessario, sono tutti requisiti fondamentali per l’emancipazione delle donne. (…) La più importante vittoria del movimento contemporaneo per il controllo delle nascite è avvenuta nei primi anni Settanta con la legalizzazione dell’aborto” [7] e oggi questa conquista va difesa con ogni mezzo necessario. Per farlo è indispensabile scendere in piazza come accaduto il 10 e il 24 novembre, com’è successo in occasione di presidi e iniziative di denuncia contro gli obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche, aprendo un dibattito necessario su come andare oltre la mera difesa della legge 194.
La triplice oppressione delle donne immigrate
“Durante i primi decenni del ventesimo secolo la crescente popolarità dell’eugenetica non fu affatto fortuita. Quelle teorie erano perfettamente compatibili con le necessità ideologiche del nuovo capitalismo monopolistico. Le incursioni imperialiste in America latina e nel Pacifico avevano bisogno di una giustificazione, così come l’intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori Neri nel sud e degli immigrati nel nord e nell’ovest. Le teorie razziali pseudo-scientifiche associate alla campagna eugenetica fornirono delle tragiche scuse alla condotta dei nuovi gruppi monopolistici”. [8]
Seppur in un contesto storico e sociale differente, l’ideologia razzista in Italia è oggi molto manifesta, perché legittimata più sfacciatamente dalla classe dirigente e soprattutto in quanto strumento dei capitalisti per dividere i proletari tra autoctoni e immigrati, facilitandone il controllo. Difatti, prima di qualsiasi altra cosa, occorre dipanare la nebbia che la borghesia pone di fronte ai nostri occhi, una nebbia molto spessa, fatta di pregiudizi, di razzismo, in poche parole di convinzione della superiorità “occidentale” rispetto a tutto il resto del mondo. Una nebbia che confonde la realtà, che cambia il nome alle cose, che ha lo scopo di convincere il proletariato “occidentale” a unirsi strettamente alla propria classe dominante perché la guerra imperialista serve a difendere una “civiltà superiore” o addirittura ad esportarla a popoli primitivi o abbruttiti da qualche loro componente “malvagia” (i “terroristi”, gli “integralisti”, i “dittatori”, fino ad arrivare oggi agli “scafisti”…). Ovviamente, l’ideologia della guerra imperialista viene declinata dalla classe dominante anche sul piano interno, in modo da dividere un proletariato sempre più multietnico e multiculturale, sfruttando ad esempio le differenze di religione, abitudini, stili di vita. [9]
Tornando al libro di Angela Davis e riprendendone il titolo, proviamo ad analizzare alcuni degli spunti che offre rispetto alle contraddizioni di “razza”. Ciò che emerge rispetto al movimento per il diritto di voto alle donne non è solo la mancanza di internità alla classe operaia, ma anche la profondità dei legami ideologici tra razzismo, classismo e sessismo: “adottando la risoluzione del 1893 le suffragiste stavano dicendo che se avessero avuto il potere di voto, in quanto donne bianche della classe media e della borghesia, avrebbero rapidamente soggiogato i tre elementi principali della working class statunitense: i Neri, gli immigrati e gli operai bianchi analfabeti. (…) L’ultimo decennio del diciannovesimo secolo fu un momento critico nello sviluppo del razzismo moderno, sia per il rilevante sostegno istituzionale che ricevette che per le sue giustificazioni ideologiche. Era anche il periodo dell’espansione imperialista nelle Filippine, nelle Hawaii, a Cuba, e a Portorico. Le stesse forze che cercavano di soggiogare i popoli in quei paesi erano responsabili del peggioramento delle condizioni dei Neri e dell’intera working class statunitense. Il razzismo alimentava le avventure imperialiste ed era probabilmente condizionato dalle strategie colonialiste e scioviniste”. [10] Razzismo e sessismo nell’ideologia borghese, col nuovo secolo, si consolidano: mentre i Neri vengono dipinti come barbari, si determina una visione della donna unicamente come figura materna con il solo scopo di procreare, in contrapposizione alla donna che lotta. Non è una coincidenza che le tesi razziste si associno al culto della maternità: è un altro aspetto che riscontriamo drammaticamente attuale. Tuttavia il libro ripercorre anche esempi estremamente positivi di unità tra donne bianche e Nere e tra uomini in lotta contro il sistema schiavista. Si tratta di comunità di fuggiaschi che, a centinaia, scappano dalle piantagioni attraverso la rete clandestina della “ferrovia sotterranea”, resistono all’esercito, danno luogo a rivolte, a fughe e sabotaggi, imparano a leggere e scrivere in scuole autogestite. “La storia della lotta per l’educazione delle donne negli Stati Uniti raggiunse un apice quando le donne bianche e Nere condussero assieme la battaglia contro l’analfabetismo nel sud, negli anni successivi alla Guerra civile. La loro unità e la loro solidarietà preservavano e davano conferma a una delle più fruttuose speranze della nostra storia”. [11] Sono donne che hanno resistito alle aggressioni sessuali degli uomini, hanno difeso le proprie famiglie, hanno partecipato all’organizzazione delle interruzioni dal lavoro e sono state parte integrante delle rivolte: “(…) quando sarà scritta la vera storia della lotta contro la schiavitù, in quelle pagine le donne occuperanno ampio spazio. Perché la causa degli schiavi è stata, in maniera peculiare, la causa delle donne”. [12]
Tuttavia, la fine formale della schiavitù è tutt’altro che sostanziale. Il censimento del 1890 dipinge un quadro in cui 2,7 milioni di donne Nere sono prevalentemente impiegate nei lavori domestici, nell’agricoltura e nelle lavanderie. Solo il 2,8% è collocato in fabbrica, dove svolge le mansioni più sporche e peggio retribuite. Senza contare che, col minimo pretesto, uomini e donne venivano arrestati e imprigionati, per poi essere dati in affido alle autorità, in qualità di lavoratori forzati. Continuavano gli abusi sessuali a danno delle donne Nere, gli omicidi a sfondo razziale e iniziava l’era dei “servitori domestici” con tutti i rischi connessi degli abusi da parte del “padrone di casa”. Nello stesso anno – il 1890 – in trentadue stati su quarantotto il servizio domestico era l’occupazione dominante per uomini e donne Nere. Ritroveremo dati analoghi anche all’arrivo della Seconda guerra mondiale.
Facendo un passo indietro, dal testo emerge come all’interno del movimento abolizionista le militanti leghino il tema della schiavitù all’oppressione delle donne tramite scritti, giornali, conferenze e mobilitazioni: ad esempio le sorelle Grimke (tra le prime donne abolizioniste) che “avevano una profonda consapevolezza dell’inseparabilità della lotta per la liberazione dei Neri e di quella per la liberazione delle donne, non caddero mai nel tranello ideologico di sostenere che una fosse più importante dell’altra, riconoscendo il carattere dialettico della relazione tra le due”. [13] In generale questo movimento si differenzia da quello delle suffragiste bianche di classe media, perché è in lotta contro il razzismo e soprattutto molto più interno e vicino alla classe operaia. Anche in questo senso ritorna il concetto del corpo della donna come un oggetto da controllare o da possedere a proprio piacimento, in un contesto culturale più ampio in cui il razzismo e il sessismo colpiscono tutte le donne. Mentre il “mito dello stupratore nero” scuote l’opinione pubblica statunitense, gli uomini bianchi continuano a reclamare i corpi delle Nere come un loro diritto: quando questi ultimi “si persuasero di poter stuprare le Nere nella totale impunità, la loro condotta nei confronti delle bianche non poté che risentirne. Il razzismo è sempre servito come istigazione allo stupro e le donne bianche negli Stati Uniti ne hanno inevitabilmente subito il contraccolpo. Questa è una delle modalità principali con cui il razzismo alimenta il sessismo facendo delle bianche le vittime, di riflesso, di una forma di oppressione rivolta alle loro sorelle di colore. L’esperienza della guerra in Vietnam ha fornito un ulteriore esempio di come il razzismo possa servire da legittimazione degli abusi”. [14]
Oggi come ieri, l’anonimato circonda la stragrande maggioranza degli stupri, delle violenze sul lavoro e delle aggressioni. Esse sono il riflesso della barbarie del sistema capitalista: quella violenza che si verifica sui posti di lavoro raggiunge l’apice della brutalità con l’aggressione sessuale che, oggi in una fase di arretramento della coscienza di classe e di imbarbarimento generale, permette troppo spesso un rovesciamento delle parti, mettendo la donna violata nella posizione della “colpevole”. “Non è una mera coincidenza che mentre l’incidenza degli stupri aumentava, la condizione delle lavoratrici peggiorasse visibilmente. Le perdite economiche delle donne sono così pesanti che i loro salari, in rapporto a quelli degli uomini, sono ancora più bassi di quanto non fossero già dieci anni fa. La proliferazione della violenza sessuale è il volto brutale dell’intensificazione generalizzata del sessismo che necessariamente accompagna questa aggressione economica. Il movimento contro lo stupro e la sua importante attività – dal sostegno psicologico e legale all’autodifesa e alle campagne educative – deve collocarsi in un contesto strategico che punti alla sconfitta definitiva del capitalismo monopolistico”. [15]
Nel libro la descrizione del lavoro delle donne Nere non è assolutamente così distante da quanto oggi vivano migliaia di lavoratrici madri immigrate, di nuovo a riprova di come la contraddizione principale sia quella di classe. Come si è già visto nella seconda sezione di questo numero, la disparità dei sessi (per come la conosciamo oggi) non esisteva prima dell’avvento della proprietà privata e, successivamente, il consolidamento del capitalismo industriale conduce ad una separazione tra l’economia domestica e quella orientata al profitto. Visto che la prima non genera profitto, viene considerata inferiore e affidata alle donne, dipinte come madri e casalinghe, mentre l’America preindustriale aveva conosciuto uno scenario in cui le donne erano filatrici, tessitrici, sarte, panettiere, produttrici di burro, candele, sapone, gestivano segherie, mulini, impagliavano sedie, cucivano, macellavano, lavoravano nei negozi e nelle drogherie e così via, e la sfera domestica non era quella a noi conosciuta oggi. Mentre le donne Nere negli Usa sopportano il doppio ruolo di madri e lavoratrici e una tripla oppressione in quanto Nere, oggi le tante assistenti familiari – comunemente chiamate badanti – soffrono il carico di essere lavoratrici a tempo pieno e madri distanti dai propri figli. Queste lavoratrici in Italia si collocano in una fase in cui anche il lavoro di cura – notoriamente a carico delle donne – è stato investito da cambiamenti importanti. Dalla visione “assistenzialista” a favore di chi ha un bisogno primario di cura, si è passati ad una visione di mercato, per la quale queste persone diventano “consumatori” che acquistano il servizio di cui usufruiscono. [16] Per questo si fa largo l’espressione “aziendalizzazione della cura”: nella pratica aziende – spesso quotate in borsa – aggrediscono questo settore, modificando le condizioni lavorative, la gamma e le caratteristiche dei “servizi offerti”.
Le richieste del settore della cura sono oggi largamente soddisfatte dall’impiego di donne immigrate, in primis dall’Est Europa: secondo il Dossier Statistico Immigrazione del 2017, le 739mila persone occupate come colf o badanti sono per tre quarti straniere, malretribuite, precarie e ricattate a causa del permesso di soggiorno legato all’impiego. Si tratta di un modello che non ruota solo attorno alla scelta della famiglia, ma coinvolge amministrazioni municipali, cooperative, associazioni e aziende, come PrivatAssistenza che opera su tutto il territorio italiano in modalità franchising, con incassi di oltre 50 milioni di euro nel 2016. Fra il 2010 e 2015 il numero di sedi di PrivatAssistenza è raddoppiato (da 80 a 180) arrivando a 40mila clienti. [17]
Quindi come raggiungere queste donne? E le donne proletarie emigranti in generale? Senz’altro facendo inchiesta, entrandovi in contatto, senza i pregiudizi di cui tutte siamo intrise, volenti o nolenti: conoscendo e tenendo in considerazione le differenze, la stratificazione delle esperienze e dei bisogni delle donne, le contraddizioni culturali e religiose, ma mettendo principale quella di classe. Questo è un insegnamento attuale dal libro di Davis e da praticare, in una fase in cui veniamo a contatto con colleghe, vicine e donne immigrate e in cui la carta del razzismo viene oggi giocata maggiormente per dividere i proletari emigranti da quelli autoctoni. Consci della necessità di rompere il gioco della “concorrenza della ricattabilità”, ovvero consapevoli che la condizione delle donne lavoratrici emigranti è strettamente collegata a quella di tutte le lavoratrici e lavoratori e, viceversa, che un maggior sfruttamento delle donne emigranti corrisponde a un peggioramento delle condizioni per tutte e tutti.
La lotta delle donne non è “separata”
Torniamo al titolo del libro in questione e andiamo alla sua prima parola: Donne. Veniamo quindi a sottolineare come in questo testo, dall’inizio alla fine, Davis abbia ripercorso passi in avanti – e indietro – dei movimenti delle donne negli Stati Uniti. Senz’altro emerge come i primi si siano verificati laddove le donne hanno saputo unirsi contro il nemico principale – i capitalisti – mentre i passi indietro si sono materializzati a danno delle donne proprio quando molte femministe bianche hanno mirato esclusivamente al voto, facendo gli interessi della propria classe: la borghesia. Da “Donne razza e classe” emerge però anche un altro aspetto importante: le Nere, a differenza delle donne bianche, hanno avuto molto più sostegno da parte dei loro uomini, perché più interne e vicine alla classe operaia. Quello del coinvolgimento degli uomini nelle battaglie “delle donne” è un altro aspetto attuale. Le lotte per la parità di salario, contro lo sfruttamento, per la difesa del diritto all’Ivg coinvolgono in prima persona le donne, ma riguardano anche gli uomini, dato il principio che un attacco e un arretramento su un determinato fronte nuoce poi all’intera classe. Per questo, fatte salve determinate occasioni specifiche, “separare” la lotta delle donne affinché sia di “sole donne” è quanto mai controproducente, oltre che autoreferenziale.
Oggi nessun individuo è esente dall’essere influenzato – suo malgrado – da maschilismo e razzismo, in quanto collocato nella società capitalista, con tutto ciò che ne consegue in termini di condizionamenti socio-culturali e di immaginario sessista. Un problema, questo, che negli anni e nei decenni, tante militanti si sono poste, dando luogo ad inchieste all’esterno e a momenti importanti di formazione e coscienza all’interno. Parliamo di militanti perché diamo spesso per scontato che siano estranei alle logiche sessiste, ma sull’infondatezza di questa credenza non abbiamo solo l’evidenza del nostro presente, bensì anche numerose testimonianze e inchieste più datate: un segnale temporale di quanto questa contraddizione sia un riflesso della sovrastruttura.
Infatti, molte prima di noi si sono interrogate sul perché la consapevolezza politica di tanti compagni, preparati e impegnati nella lotta, non si traduca in un’analoga coerenza nei rapporti familiari e specificatamente col sesso femminile (mogli, conviventi, colleghe, compagne di lotta). In un’indagine sociologica del 1974 su un campione di famiglie della cosiddetta “sinistra extraparlamentare” si afferma che: mentre l’operaio politicamente attivo combatte lo sfruttamento e il potere in fabbrica e nel sociale, ripropone puntualmente all’interno della famiglia lo sfruttamento individuale sulla donna. [18] A partire da questa realtà sono state svolte diverse indagini interessanti sulla condizione della donna proletaria nelle famiglie operaie. Dalle numerose interviste emerge dai lavoratori la convinzione di una certa superiorità maschile (“la loro fatica è più pesante, l’alienazione più alienante..”).
Oggi il contesto delle relazioni è differente rispetto ai decenni scorsi poiché la famiglia nucleare monogamica – che con lo sviluppo dei rapporti sociali capitalistici ha soppiantato le famiglie estese o più propriamente i lignaggi – non è più il solo modello funzionale alle esigenze politiche ed economiche della fase attuale. In questa situazione si manifestano rigurgiti evidenti di patriarcato ben incarnati dal recente Disegno di Legge del leghista Pillon. Un decreto teso a colpire i diritti dei minori e delle donne e a ristabilire i ruoli “tradizionali” di marito e moglie, rendendo la separazione più onerosa (con la mediazione familiare obbligatoria a pagamento) e più difficile per la donna. Questo è un attacco alla libertà di divorziare e come sostiene Lenin “l’assenza di questa libertà è una forma di superoppressione della donna”. [19]
Ad ogni modo, preso atto della molteplicità delle forme della famiglia e della funzionalità di quest’ultima come centro consumistico, di riproduzione e di servizi di cura, la condizione della donna proletaria continua ad essere quella di un doppio sfruttamento. Pertanto oggi è più che mai necessario che gli uomini siano coinvolti – e non volutamente esclusi – dalle lotte “delle donne”. È urgente lavorare assieme ai compagni, aprendo una riflessione – e una pratica conseguente – per contrastare la mentalità maschilista e patriarcale, affinché non trovi spazio né nella sfera pubblica né in quella privata.
Conclusioni: “Non c’è emancipazione della donna senza rivoluzione”
La cosiddetta questione di genere ha una potenzialità di massa e molte donne – giovani e meno – stanno scoprendo o riscoprendo un dibattito e un’energia tesi alla propria emancipazione. Nonostante la genuinità di base dentro ai movimenti oggi tende ancora a prevalere principalmente la tendenza ad agitare un antirazzismo e un antisessismo astratto e, conseguentemente, forze politiche borghesi di sinistra, come il Pd, tentano di infiltrarvisi all’interno, come se non fossero responsabili dei numerosi attacchi portati avanti anche contro le donne, dal Jobs Act fino al Decreto Minniti.
Anche in questo caso gli spunti del libro di Angela Davis ci tornano utili per analizzare i limiti dell’attuale movimento delle donne, al cui vertice si presentano frequentemente donne bianche di piccola o media borghesia rappresentanti di partiti riformisti che, in più di un’occasione, prestano il fianco all’ideologia dominante. Pensiamo a “Se Non Ora Quando” che, non a caso, si attiva con discontinuità e in maniera mediatica, senza un concreto percorso partecipato di costruzione, rivolgendosi solo a burocrazie sindacali o a soggettività, anziché alle masse, tentando all’occorrenza di calare dall’alto su percorsi partecipati.
Le sfide del presente non sono poche, la situazione delle donne è complessa, ma senz’altro non bisogna appiattirsi sulle iniziative riformiste scadenziste e non limitarsi alla mera presenza sul proprio luogo di lavoro, quanto piuttosto essere in primis interne come compagne tra le lavoratrici e promuovere iniziative e dibattiti rivolti alle donne proletarie. È urgente riappropriarci di un linguaggio e di momenti concreti di mobilitazione che diano spazio alla creatività e siano costruiti “con e per” la nostra classe. I referenti non sono “il movimento” o “le addette ai lavori”, ma le lavoratrici, italiane ed emigranti. Per raggiungerle è necessario diminuire l’esaltazione dei social networks e dotarsi di una molteplicità di strumenti realmente accessibili a tutte.
Questo libro ci ricorda che il rilancio della lotta, della solidarietà e dell’unità non sono parole vuote, ma la lotta delle donne va sostenuta in una prospettiva di rottura, consci che la sola emancipazione si potrà avere quando il sistema capitalista sarà abbattuto. Per questo è urgente porsi il problema di costruire rapporti di forza per un movimento proletario delle donne. “Sicuramente le condizioni di lavoro imposte dal capitalismo sono terribili. Sicuramente sono ingrate e alienanti. Ma nonostante tutto, sul posto di lavoro le donne possono unirsi alle loro sorelle, così come ai loro fratelli, e sfidare i capitalisti sul terreno della produzione” (e della circolazione delle merci). In quanto lavoratrici, in quanto militanti del movimento operaio, le donne possono generare una reale forza in grado di demolire i pilastri del sessismo, ovvero il sistema capitalistico”. [20]
L’essenza del testo è qui, in un’indicazione attualissima nella nostra quotidianità a rafforzare un approccio di classe che studi e interconnetta i rapporti di classe, genere e razza, funzionale alla pratica di lotta anticapitalista.
NOTA A MARGINE.
In questo articolo abbiamo mantenuto il vocabolo “razza”. Pensiamo che sul termine non sia assolutamente sufficiente una breve nota, ma è stato utilizzato restando fedeli al testo rieditato da Alegre. Non l’abbiamo mai declinato al plurale perché “le razze” rispetto alla nostra specie non esistono, in quanto esiste unicamente la razza umana.
Note:
[1] A. Davis, Donne razza e classe, edizioni Alegre, 2018, pag 188
[2] Ibidem, pag 200
[3] Ibidem, pag 206
[4] Ibidem, pag 263
[5] Ibidem, pag 262
[7] A. Davis, Donne razza e classe, edizioni Alegre, 2018, pag 255-256
[8] Ibidem, pag 267-268
[9] Antitesi rivista n. 1 “Crisi, Europa e guerra”
Sezione 5: Ideologia borghese e teoria proletaria Articolo: “La superiorità della civiltà europea-occidentale come maschera ideologica dell’imperialismo”
http://www.tazebao.org/superiorita-civilta-europea-occidentale-maschera-ideologica-imperialismo/
[10] A. Davis, Donne razza e classe, edizioni Alegre, 2018, pag 157-158
[11] Ibidem, pag 149
[12] Ibidem, pag 61
[13] Ibidem, pag 78
[14] Ibidem, pag 226
[15] Ibidem, pag 252-253
[16] S. R. Farris, S. Marchetti, La cura come business, Jacobin Italia, numero 1, pag 83
[17] Ibidem, pag 84
[18] L. Grasso, Compagno padrone. Relazioni interpersonali nelle famiglie operaie della sinistra tradizionale e della sinistra extraparlamentare, Guaraldi editore, Rimini-Firenze, 1974, pag 29
[19] Lenin, L’emancipazione della donna, ed. Rapporti Sociali, Milano, 1998, p. 39.
[20] A. Davis, Donne razza e classe, edizioni Alegre, 2018, pag 299