Antitesi n.06Classi sociali, proletariato e lotte

Donne e lotta di classe

Per un’analisi marxista della questione femminile

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.06 – pag.21


Per affrontare il tema della condizione della donna nella società in cui viviamo, pensiamo vada messa al centro la questione di classe orientata da due principi importanti: “solo le donne possono liberare se stesse” e “l’esito della rivoluzione dipende dal grado in cui vi parteciperanno le donne”. Infatti, storicamente, solo quando le donne sono scese in campo direttamente con la lotta hanno ottenuto conquiste e diritti. Nelle rivoluzioni, fin dalla Comune di Parigi, le donne hanno segnato cambiamenti memorabili rispetto alla concezione del loro ruolo nella società.
Dobbiamo imparare a leggere la realtà e ad analizzare ogni fenomeno attraverso la lente della lotta di classe. Va fatto uno sforzo per riappropriarci e diffondere la concezione del mondo del proletariato – il materialismo dialettico [1] – cercando di correggere i danni della concezione idealista che alberga necessariamente anche tra i compagni, in quanto riflesso della società borghese nella quale tutti viviamo. Oggi questo è più che mai indispensabile dato che, nonostante la crisi che attanaglia il sistema borghese fino a metterne in discussione a tratti l’egemonia culturale, si rafforzano posizioni reazionarie, piuttosto che progressiste e rivoluzionarie.
E, attraverso questa lente, dobbiamo andare all’origine delle cose, perché solo in questo modo possono essere individuate la causa delle trasformazioni che avvengono e la direzione del movimento di trasformazione: ciò permette di intervenire in modo aderente alla realtà, per trasformarla in senso cosciente.
Affrontando la questione femminile, pensiamo vada compreso come ogni differenza – ad esempio quella di classe, di genere, di razza, tra paesi imperialisti e paesi oppressi – crei delle contraddizioni che sviluppandosi generano il movimento di trasformazione del reale. Nel loro svolgersi le contraddizioni si influenzano tra loro: si tratta di mettere al posto giusto ognuna di esse in ogni situazione storicamente determinata. Anche la questione di genere, vale a dire la differenza tra i sessi, ha un peso essenziale per analizzare e comprendere a fondo le dinamiche sociali attuali. Nella fase capitalista va vista e trattata in relazione alla contraddizione principale della società: ovvero quella tra capitale e lavoro. E questo soprattutto per provare a definire una linea di intervento di classe utile ad orientarsi come comunisti e ad agire concretamente sulle problematiche che tale contraddizione genera.
Nella lotta di classe e rivoluzionaria la contraddizione di genere ha un favoloso potenziale poiché la donna subisce il doppio, anzi il triplo sfruttamento: di genere, di classe e neocoloniale (di razza). Quando si oppone ad esso esprime un’enorme determinazione: l’emancipazione femminile è un termometro eccellente per misurare l’emancipazione di tutta la società.

Brevi cenni preistorici e storici, all’origine della questione

Il movimento comunista è stato pioniere nell’analisi della questione della donna, a partire dalla pubblicazione nel 1884 del libro di Friedrich Engels: “L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato”.
Dal testo traspare chiaramente che la condizione della donna è in relazione, nei diversi contesti storici, al modo di produzione, al ruolo che la donna stessa ha in esso e ai rapporti di produzione. Intendiamo per modo di produzione la maniera nella quale gli uomini e le donne collaborano per produrre le risorse economiche di cui hanno bisogno per vivere e riprodursi. Le forme nelle quali si associano per la produzione sono invece definite rapporti sociali di produzione. [2] Ogni rapporto di produzione è dunque caratterizzato da determinati modi di produzione che, a loro volta, derivano dai mezzi di produzione usati al grado di sviluppo raggiunto dalle forze sociali di produzione.
La divisione del lavoro tra uomini e donne risale ancora all’età mesolitica (della pietra di mezzo: età tra l’era delle culture paleolitiche e neolitiche) quando gli uomini cacciavano e le donne erano dedite alla raccolta. Questa divisione nacque dalle necessità di sopravvivenza e di riproduzione della specie. Nell’era neolitica (età della nuova pietra) vennero forgiati, con la pietra levigata, nuovi strumenti di produzione. Qui si affermò quello che comunemente è conosciuto come comunismo primitivo. Non esisteva la famiglia per come oggi la intendiamo, in quanto gli uomini vivevano in poligamia e le donne, contemporaneamente, in poliandria, facendo sì che i figli fossero comuni. Successivamente si sviluppò, pian piano, il modo di produzione agricolo-orticolo, dove non esisteva la proprietà privata: la terra era proprietà collettiva delle tribù e il ruolo della donna era centrale: fu lei a scoprire l’agricoltura e successivamente la ceramica. Non a caso, si parla di società matriarcale.
Con l’addomesticamento degli animali si sviluppò la pastorizia che instaurò, poco a poco, un nuovo modo di produzione – quello nomade-pastorale – e la proprietà privata degli animali creò una classe di proprietari di greggi. Originandosi la prima divisione in classi, le donne persero il loro ruolo centrale, vennero sottomesse nel lavoro e divennero principalmente riproduttrici di figli e cioè di servi per i padroni delle greggi.
Questo passaggio segna anche l’inizio della fine della discendenza matrilineare, passaggio necessario per trasmettere il patrimonio ai figli maschi: è il prodromo della società patriarcale, dello svilupparsi delle classi, della famiglia monogamica e della nascita dello Stato.
Nel testo di Engels troviamo una precisa analisi per comprendere appieno il ruolo della donna e quello della famiglia, visto il legame inscindibile esistente tra di esse, legame che caratterizza lo sviluppo storico dell’umanità. Emerge comprensibile e inequivocabile l’impostazione materialistica dell’analisi della storia e delle società: la famiglia monogamica – con la sua origine e il suo sviluppo – è in relazione stretta con le condizioni economiche e materiali.
Quindi, la famiglia monogamica (quella ancora oggi prevalente) si è formata nel corso della storia fondandosi non su condizioni naturali, bensì economiche, determinate dalla proprietà privata. “Fu la prima forma di famiglia che non fosse fondata su condizioni naturali, ma economiche, precisamente sulla vittoria della proprietà privata sulla originaria e spontanea proprietà comune”. [3] E ancora “In un vecchio manoscritto, elaborato da Marx e da me (Engels ndr), trovo scritto: La prima divisione del lavoro è quella tra uomo e donna per la procreazione dei figli – Ed oggi posso aggiungere: il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile…Essa fu la forma cellulare della società civile, e in essa possiamo già studiare la natura degli antagonismi e delle contraddizioni che nella civiltà si dispiegano con pienezza”. [4]
Per quel che riguarda la civiltà occidentale, il passaggio fondamentale avviene in Grecia dove, nell’età eroica, prende piede il diritto patriarcale e viene favorita, attraverso di esso, l’accumulazione di ricchezza nella famiglia. La famiglia diviene una unità economica, permettendo la formazione di una nobiltà ereditaria e della monarchia che apre la via alla schiavitù. Su queste basi si forma un’istituzione che rende stabile e legittimata non solo la divisione della società in classi, ma anche il diritto della classe dominante allo sfruttamento delle altre classi. Questa istituzione è lo Stato.
Oggi, nel capitalismo e nella sua odierna crisi nella fase imperialista, sia la famiglia che lo Stato mantengono ancora preponderante la loro funzione in fieri fin dall’origine.

La questione della donna nel capitalismo

Il capitalismo ha due facce: mette in catene e allo stesso tempo crea la classe che le romperà. Questo vale anche per la condizione femminile. L’entrata delle donne nella produzione industriale ha fornito le condizioni materiali della loro presa di coscienza e ribellione. Gli esempi sono estremamente numerosi. Portiamo qui un esempio significativo per la sua valenza storica, quello dell’8 marzo 1917 [5] (il 23 febbraio secondo il calendario giuliano allora in vigore in Russia) quando le donne della capitale – San Pietroburgo – uscirono dalle fabbriche (in cui erano entrate a milioni durante la guerra) e guidarono una grande manifestazione per rivendicare la fine della guerra, dando impulso alla rivoluzione d’Ottobre.
Analogamente riscontriamo l’importanza del ruolo della donna nella Resistenza in Italia: le donne dall’interno delle fabbriche organizzarono scioperi e sabotaggi contro il fascismo, ebbero un ruolo rilevante nel fiancheggiamento e nella solidarietà e parteciparono attivamente ai gruppi partigiani. Citiamo solo alcuni dati ufficiali: organizzate nei Gruppi di Difesa della donna 70.000; arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti 4.633; partigiane, staffette, sappiste e gappiste 35.000; comandanti e commissarie di guerra 512; deportate in Germania 2.890; fucilate e cadute in combattimento 683; ferite 1750. [6]
Inoltre, nel capitalismo, e ancor più nella sua fase imperialista foriera di guerre, la partecipazione delle donne alla lotta diviene condizione necessaria per il suo superamento.
Infatti il capitalismo ha in sé le condizioni materiali per l’emancipazione della donna perché, da un lato, la donna entra nel mondo del lavoro al di fuori della casa e, dall’altro, il progresso sociale e materiale consente di socializzare il lavoro domestico all’esterno della famiglia (accudimento e scolarizzazione dei figli, mense, creazione di forme di organizzazione e aggregazione umana diverse dalla famiglia…) anche se oggi i limiti della società capitalistica ne impediscono il pieno dispiegarsi.
Una condizione diviene però indispensabile affinché la partecipazione delle donne divenga attiva e incisiva nei cambiamenti sociali: il suo riconoscersi nella classe. Diversamente, la contraddizione di genere viene usata dal capitalismo per il suo rafforzamento. Basti guardare alla prima rivoluzione industriale quando, nell’industria tessile inglese, vi fu un massiccio impiego di manodopera femminile e le donne furono vittime privilegiate dello sfruttamento, con paghe da fame e ritmi allucinanti. Si pensi solo al fatto che i padroni di allora davano alle donne pillole di eroina, chiamata fortina da somministrare ai figli neonati perché esse potessero lavorare. Si pensi anche all’oggi: la massa delle donne che lavorano svolgono le mansioni più umili e precarie e sono soggette per prime alla disoccupazione, mentre vengono utilizzate, al pari della forza lavoro immigrata, per abbassare i salari.
Centreremo l’analisi della situazione odierna partendo dalla questione “donna e lavoro” tenendo presente che, in contemporanea e di riflesso, la condizione femminile a livello globale è differente in tutti i campi. Il diritto alla maternità in molte parti del mondo è stato ed è sotto il cappio degli aborti selettivi, del controllo delle nascite, della negazione della contraccezione e dell’aborto (20 milioni di aborti clandestini a livello mondiale, 280.000 morti da parto); su 10 abitanti in povertà 7 sono donne; i salari sono poco più della metà di quelli dei maschi; i 2/3 dell’analfabetismo colpisce le donne. [7]
Nella crisi, soprattutto relativamente al lavoro, la situazione peggiora. Il nuovo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) evidenzia che, su scala globale, la disoccupazione nel 2018, rimane ad un livello simile a quello dello scorso anno. Questo significa un ulteriore peggioramento della condizione femminile, poiché rimangono stabili le tendenze, registrate sempre dall’Ilo, per quel che riguarda la disparità di genere nel modo del lavoro.
Infatti, nel rapporto Women at work: Trends 2016, [8] esaminati i dati di circa 178 paesi, si afferma che la disparità tra uomini e donne è confermata nel tempo e non dà segni di miglioramento.
Inoltre, il Direttore Generale dell’Ilo – Guy Ryder – ha dichiarato che “Il rapporto mostra le enormi difficoltà che le donne continuano ad affrontare nel trovare e mantenere un lavoro dignitoso”.
Da questo rapporto evidenziamo alcuni dati: il divario occupazionale di genere a livello mondiale si è ridotto di soli 0,6 punti percentuali dal 1995; il 38% delle lavoratrici e il 36% dei lavoratori salariati non beneficiano di protezione sociale.
Le proporzioni per le donne raggiungono il 63,2% nell’Africa sub-sahariana e il 74,2% in Asia meridionale.
Le donne continuano a lavorare più ore al giorno rispetto agli uomini, sia nel lavoro retribuito che in quello non retribuito. La copertura pensionistica è inferiore per le donne rispetto agli uomini: la percentuale delle donne in età pensionabile che riceve la pensione è, in media, di 10,6 punti minore a quella degli uomini. Le donne sono quasi il 65% delle persone che hanno superato l’età pensionabile e non ricevono la pensione. Vuol dire che circa 200 milioni di donne (rispetto a 115 milioni di uomini) vivono senza reddito in età pensionabile.

Fonte: World Employment and Social Outlook – Trends for Women 2017. I dati sul tasso di attività e il divario relativi al 2017 sono previsioni.

Guardando invece ai dati Istat (Istituto nazionale di Statistica, Italia) rispetto al nostro paese, l’occupazione femminile ha raggiunto quasi il 49%, ma l’Italia è penultima nella classifica europea per quel che riguarda le donne. Nel rapporto annuale del 2017 sull’occupazione l’Istat afferma: “Il riavvicinamento ai valori del 2008 si deve esclusivamente alla componente femminile (+1,7 punti dal 2008 in confronto a -3,1 degli uomini), anche se l’Italia si caratterizza per un tasso di occupazione femminile più basso della media europea (48,9% contro 62,4%). Si tratta del valore più basso dopo la Grecia.” [9] Va aggiunto che al Sud la situazione femminile è la più grave. La Sicilia ha il tasso più basso di donne al lavoro, ad essa seguono la Campania (29,4%), la Calabria (30,2%) e la Puglia (32%). Se si guarda solo all’ultimo anno, l’occupazione delle donne è cresciuta di 0,8 punti in media in Italia, di 0,6 punti nella media delle regioni del Sud e di 0,9 punti in Sicilia. Mentre in Europa è avanzata di 1,1 punti.
Vediamo da questi dati come, nella crisi, il lavoro femminile venga sfruttato, al pari di quello dei lavoratori immigrati, per tamponare la caduta generale dei profitti e sia utilizzato per svolgere lavori precari e sottopagati. In questa situazione la condizione della donna, pur immessa nel mercato del lavoro, invece di migliorare, si aggrava, in quanto aumenta lo sfruttamento capitalistico. Tenuto conto che la crisi colpisce tutti i lavoratori, i salari scendono per tutti e i licenziamenti aumentano, mentre contemporaneamente vengono tagliati gli ammortizzatori sociali e i servizi, di fatto si acuisce lo stato di oppressione femminile poiché, di conseguenza, aumenta anche il lavoro delle donne non pagato. Ci riferiamo al lavoro nella famiglia: il doppio lavoro (esterno salariato e interno alla famiglia, non retribuito) diventa sempre più pesante. Il lavoro casalingo deve supplire anche al taglio dei servizi e all’aumento dei loro costi.
Il ruolo della famiglia diviene sempre più contraddittorio: da una parte “superato” e in disfacimento (più single, meno matrimoni celebrati – in Italia -17,4% negli ultimi 10 anni) ma, dall’altra, essa diviene rifugio per i giovani precari e disoccupati e centro per supplire al taglio del welfare (cura degli anziani, di malati e bambini).
Parlando di un paese a capitalismo avanzato come l’Italia, nonostante la crisi economica, sociale e culturale, finanche istituzionale abbia messo a tratti in discussione la cultura egemonica borghese tradizionale sulla famiglia, quest’ultima – monogamica e a carattere patriarcale – mantiene ancora nei fatti la sua centralità. Essa è ancora la fondamentale unità organizzativa della società capitalistica e ne permane la veste ideologica (patriarcato, sessismo, maschilismo). Contemporaneamente essa è in crisi a causa del disfacimento delle relazioni umane prodotte dal sistema vigente. Guardiamo, ad esempio alla dilatazione dell’orario di lavoro per entrambi i coniugi (per mantenere una famiglia monogamica prima mantenuta solo da un lavoratore – il maschio – oggi lavorano in due, il doppio delle ore).
Di fronte al fenomeno reale di disgregazione della famiglia, la borghesia ideologizza a sua maniera una crisi che è reale. Sono sorte perciò, in ambito borghese, sovrastrutture volte a giustificare la disgregazione sociale prodotta dal capitale che hanno il fondamento dell’individualismo e della contraddizione idealistica tra i generi, la valorizzazione del carrierismo della singola donna come veicolo di emancipazione individuale, contrapposto al femminismo sociale e politico degli anni Sessanta e Settanta.
C’è, di fronte a questa linea borghese, una reazione e un’impennata, ben visibile, della cultura del patriarcato con l’aumento dei femminicidi e della violenza sulle donne.
La sinistra borghese, anche in questo caso, usa la bandiera dei diritti come arma di distrazione di massa, offuscando le vere motivazioni della perdita dei diritti delle donne e, facendo così, alimenta la confusione dentro ai movimenti e alle lotte delle donne che sorgono in risposta alla condizioni materiali che esse vivono. Al contempo, la linea di destra della borghesia fomenta la reazione, come con la campagna per la natalità o con l’attacco alla legge 194.
Sono entrambe due linee politiche della borghesia, anch’essa stretta dalle contraddizioni prodotte dalla sua crisi epocale. Per una visione di classe va invece sottolineato che la mancanza di autonomia economica è stata ed è la base della sottomissione della donna e della mancanza di diritti. La mancanza di autonomia economica è oggi il ricatto che costringe le donne ad accettare lavori precari e sottopagati, a restare in famiglia anche controvoglia, a non poter usufruire dei diritti che sono tali solo per le borghesi, come ad esempio il divorzio.

Conclusioni

La questione donna va dunque affrontata mettendo al centro la contraddizione tra capitale e lavoro. La questione dei diritti va trattata per sviluppare la coscienza secondo cui le riforme non modificheranno mai i rapporti di produzione capitalisti, così come le conquiste saranno sempre esposte all’offensiva del nemico di classe. È un insegnamento che proviene anche dalla storia e che ben aveva esplicitato Lenin quando scrisse a proposito del diritto al divorzio: “Quanto è più completa la libertà di divorziare, tanto più chiaro risulta per la donna che la fonte della sua schiavitù domestica va ricercata nel capitalismo e non nella mancanza di diritti”. [10] 
Quindi per l’emancipazione della donna e per rivoluzionare la famiglia bisogna rivoluzionare i rapporti di produzione. Questo è l’aspetto principale, tutti gli altri aspetti che concorrono per il cambiamento rivoluzionario, come quello di genere, sono secondari. Non nel senso che non vanno considerati e che non vada agito su di essi, anzi! La lotta per i diritti può divenire una potente leva, se ha l’obiettivo di rafforzare la lotta generale della classe per mettere in discussione i rapporti capitalistici di produzione. Se non è così si finisce per fare i reggicoda alla sinistra borghese che ha fatto della politica dei diritti Lgbt il centro di tutta la sua politica “sociale” mentre, contemporaneamente, si è fatta paladina degli interessi del capitale e della grande borghesia, smantellando le conquiste delle lavoratrici e dei lavoratori, aprendo la via alle innumerevoli forme di lavoro gratuito. E, così facendo, ha spianato la strada alla reazione, cosa oramai ben visibile e sotto gli occhi di tutti con il tracollo elettorale e l’instaurazione del governo Salvini-Di Maio.
La prospettiva di rivoluzionare tutti i rapporti sociali di sfruttamento è il cuore della lotta delle donne: il centro del lavoro delle compagne e dei compagni è quello di favorire e far crescere politicamente la partecipazione delle donne nella lotta contro licenziamenti, per migliori condizioni di lavoro e di salario, contro la disoccupazione e la precarietà, per la sanità, per la casa, per tutti i servizi. È nella partecipazione alle lotte e dentro ad esse che può avvenire la presa di coscienza di appartenere alla classe, qui le donne divengono protagoniste e possono esprimere tutta la loro determinazione, contrastando e mettendo in discussione nella pratica il “primato” maschile.
Oggi, di fronte all’attacco di portata globale e sempre più accanito alla condizione delle donne e ai diritti conquistati con la lotta quando il movimento di classe era in ascesa (pensiamo alle leggi sul divorzio e sull’interruzione volontaria di gravidanza ottenute in Italia negli anni Settanta, quando la nostra classe esprimeva un rapporto di forza favorevole e fiorivano anche i movimenti delle donne), si stanno determinando nuovi movimenti a livello internazionale. Emerge, anche in Italia, un nuovo entusiasmo sulla questione di genere, soprattutto tra i giovani ed è un aspetto estremamente positivo. Facendo leva su questa positività, va rafforzata la chiave di lettura secondo cui la strada per combattere e vincere contro la sopraffazione di genere è quella di aggredire le condizioni materiali (economiche e di classe) che la determina. Il patriarcato e i diritti non sono temi a sé, ma fanno parte della questione di costruire lotte e rapporti di forza favorevoli al cambiamento generale.
Sicuramente va sostenuta l’organizzazione delle donne e ciò va fatto dentro ad una prospettiva politica unitaria di classe e non di divisione tra i generi. Porre la divisione tra i generi come principale alimenta la divisione dentro la classe: la contraddizione tra i sessi se può essere considerata antagonistica in una struttura patriarcale come la famiglia non lo è dentro alla classe. Tutti i partiti comunisti, sia storici che le esperienze rivoluzionarie più recenti in corso, anche in paesi dove la condizione della donna è enormemente arretrata (e dove sono presenti partiti comunisti maoisti) hanno al loro interno una forte componente femminile e organizzazioni specifiche di donne in una visione di prospettiva unitaria di rivoluzionamento della società borghese. Abbiamo bisogno di organismi appropriati per condurre il lavoro tra le donne. Questo non è femminismo: è la via pratica, rivoluzionaria, scriveva Lenin. [11]
Lavorare dunque per la presenza massiccia di donne nei collettivi e nelle organizzazioni comuniste, poiché il loro contributo può essere contundente nella lotta contro il capitale e per abbattere definitivamente il patriarcato e la cultura patriarcale, Lenin sosteneva che il rovesciamento dei rapporti sociali sarà possibile solo con la partecipazione di larghe masse e aggiungeva: Non è possibile però far partecipare le masse alla politica se non vi si attirano le donne. [12] 
Tutto questo avendo sempre ben chiaro in mente che la questione del rapporto tra i sessi (e della divisione del lavoro) non va affatto messa all’angolo, visto che questa contraddizione è ben presente e viva oggi anche all’interno della nostra classe, ma lo era anche prima del capitalismo. Il sistema patriarcale e la sua cultura, come accennato nella prima parte di questo articolo, è preesistente alla società capitalistica e lo sarà anche nel socialismo, come ci mostra l’esperienza storica, in particolare della rivoluzione sovietica e anche della rivoluzione cinese. La rivoluzione sovietica – come si evince dal testo La maternità e l’infanzia nell’Unione Sovietica di Rita Montagnana, (comunista che fondò nel 1922 il giornale La compagna) – portò a impensabili conquiste delle donne per quell’epoca, come ad esempio misure importanti per la tutela e la retribuzione durante la gravidanza, oltre ad asili nido e giardini d’infanzia. Parliamo di conquiste mutuate dai partiti comunisti nei paesi della rivoluzione mancata, come successe in Italia, dove vennero assunte quelle conquiste come terreno di lotta.
Anche nella rivoluzione cinese le donne ebbero un ruolo da protagoniste nella rivoluzione culturale. “La grande rivoluzione culturale e proletaria è stata un vero assalto al cielo, la prima realizzata esperienza di rivoluzione nella rivoluzione. Come diceva Mao Tse Tung, una nuova rivoluzione culturale avrà come protagoniste le donne nella famiglia e nella società…Le donne sostengono la metà del cielo – ha detto Mao – ma le donne devono conquistare la metà del cielo, ha aggiunto. La rivoluzione culturale ha avuto anche in questo campo uno dei suoi fronti politici e ideologici proprio perché le donne non avevano raggiunto la metà del cielo”. [13]
Se siamo coscienti del grande rilievo che ha la partecipazione delle donne alla lotta per il cambiamento rivoluzionario, dobbiamo rimboccarci le maniche per fare inchiesta militante sulla condizione delle donne, a partire dalla condizione di lavoro e di sfruttamento, favorendo e sostenendo ogni lotta rivendicativa e facendo crescere in tutte noi la consapevolezza che per conquistare la libertà dobbiamo partecipare attivamente alla lotta per il rovesciamento della società divisa in classi nella quale viviamo.


Note:

[1] Vedi Antitesi n° 3, p. 78 s.

[2] Vedi Antitesi n° 5, p. 63 s.

[3] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori riuniti, IV edizione, settembre 1992, p.92

[4] Ibidem p. 93

[5] 8 marzo giornata internazionale della donna: su questa data c’è molta confusione creata per svilirne il significato di classe. Questa data è stata proposta nel 1921 da Clara Zetkin nella Conferenza delle donne comuniste tenutasi a Mosca nel quadro della III Internazionale. A conclusione dei lavori viene decretato che “La Conferenza adotta la data dell’8 marzo come giornata internazionale dell’operaia, giorno della prima manifestazione delle operaie di Pietroburgo contro lo zarismo. Già nel 1910 Clara Zetkin aveva proposto la giornata della donna, ma ciò non poteva riferirsi all’incendio della fabbrica Cotton di New York nel 1908, comunemente richiamato come origine di questa scadenza. Questo poiché questo episodio avvenne il 25 marzo del 2011 quando 134 lavoratrici e lavoratori morirono nell’incendio di un palazzo di dieci piani della Triangle Shirt Waist Company. Questa proposta emerse nel 1910 nella Conferenza internazionale delle donne socialiste dalla spinta delle donne del Partito Socialista Americano incentrata sul tema del suffragio femminile. Non si trattò quindi nel 1921 di inventare la Giornata, ma di ratificarla e darle un valore di classe e internazionale.

[6] Dati tratti da http://www.storiaxxisecolo.it/index.htm

[7] I. Dati tratti da L’Atlas mondial des femmes-les paradoxes del l’emancipation, Edizioni Autrement, 2015 di Attané, C. Brugeilles, W. Rault,

[8] Donne e lavoro: Tendenze 2016. Pubblicazione dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) un’organizzazione promossa dall’Onu che si occupa di monitorare la situazione del lavoro a livello globale. Ne fanno parte 185 Stati, ha la sede principale a Ginevra.

[9] Istat, dati tratti dal rapporto annuale del 2017 sull’occupazione

[10] V. Lenin, L’emancipazione della donna, Editori Riuniti, 1970 p.40

[11] Ibidem, p.98

[12] Ibidem, p.69

[13] M.A. Macciocchi, Dalla Cina, Edizione riveduta e ampliata, Feltrinelli, 1974


Sull’emigrazione femminile

La questione di genere è strettamente connessa a quella migratoria se non altro perché una buona parte degli emigranti è donna.
L’emigrazione femminile da alcuni paesi africani (Nigeria, Camerun, Togo) molto spesso è strettamente legata ai trafficanti internazionali che costringono le donne alla prostituzione, o ad altre attività collegate, in Europa. Secondo l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) l’80% delle ragazze nigeriane giunte via mare nel vecchio continente è destinato a essere vittima di sfruttamento sessuale in Italia e in altri paesi dell’Unione Europea. Tra il 2014 e il 2016 il numero delle donne provenienti dalla Nigeria è passato da 1.500 a oltre 11 mila.
Per ciò che riguarda il continente africano nel 2017 le donne costituivano quasi la metà delle persone emigranti (47%). Il numero assoluto di donne emigranti è passato da 6,9 milioni nel 2000 a 11,6 milioni nel 2017 (fonte Economic Development in Africa Report: Migration for Structural Transformation reperibile in rete presso https://unctad.org/en/pages/ PublicationWebflyer.aspx?publicationid=2118).
In Italia, secondo i dati forniti dall’ISTAT per l’anno 2014 e per il 2015, il 52,7% della popolazione straniera residente è rappresentato da donne. Tra le nazionalità più numerose, la percentuale delle donne si attesta al 57% del totale tra i cittadini romeni, al 48,1% tra quelli albanesi, al 45,9% tra i marocchini, al 79% tra gli ucraini, al 49% tra i cinesi, al 66,1% tra i moldavi e al 73,3% tra i polacchi. Vi sono poi quelle comunità nazionali immigrate di dimensione più ridotte, ma in cui è preponderante la presenza femminile (superiore all’80%), come nel caso dei provenienti dalla Bielorussia (81%), Federazione Russa (81,7%), Uzbekistan (83,4%), Indonesia (82,5%), Kazakistan (83,3%), Repubblica Ceca (83,4%), Lettonia (85,1%), Estonia (85,2%) e Thailandia (90%). Le due principali motivazioni che inducono le donne a emigrare in Italia sono la ricerca di un lavoro e il ricongiungimento familiare, aumentato successivamente alla riduzione degli ingressi di cittadini non comunitari per ragioni di lavoro.
Le straniere sono impiegate nei servizi (957 mila), in particolare nei servizi alla persona, quindi badanti, assistenti domestiche ecc. (769 mila), ma anche nel commercio e nel settore ristorativo-alberghiero (187 mila), nell’industria (89 mila), nell’agricoltura e nella pesca con 31 mila addette.
In questo modo, le lavoratrici immigrate suppliscono alle esigenze delle famiglie italiane che subiscono le mancanze dovute ai continui attacchi alle conquiste perpetrati negli anni da governi e padroni e che hanno colpito sempre più pesantemente i settori dell’assistenza agli anziani e ai disabili. L’Italia risulta lo Stato Ocse con la più alta percentuale di attività assistenziale informale agli anziani (ovvero non gestita dall’assistenza pubblica), sia per ciò che concerne i servizi pubblici per l’assistenza a lungo termine, sia per quanto riguarda l’assistenza presso il domicilio.
Per le donne che richiedono asilo, va detto che la loro emigrazione non dipende solo dalla persistenza di guerre nei paesi d’origine, ma anche da specifiche pratiche di violenza contro le donne e patriarcale, come ad esempio gli stupri, le mutilazioni genitali e i matrimoni forzati.
In Italia, nel 2014, sono state presentate quasi 65 mila richieste di protezione internazionale e, per quanto concerne l’universo femminile, le comunità nazionali che si evidenziano per l’incidenza in base a questo genere sono quella eritrea (26,2%), quella nigeriana (25,4%) e quella somala (23,4%), mentre per le altre, la componente femminile resta inferiore al 6%.

I dati sono stati prevalentemente tratti da: https://www.superabile.it/cs/superabile/normativae-diritti/persone-straniere/approfondimenti/limmigrazione-in-italia-il-ruolo-delle-donnemigranti.html


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