L’eterno ritorno di Keynes
“sfruttamento e crisi” da Antitesi n.05 – pag. 6
Noi possiamo confutare le singole affermazioni di Keynes, ma se rovesciamo il suo intero sistema potremmo perdere l’ultima occasione di salvaguardare il capitalismo. D. M. Lant
Introduzione
All’indomani del fallimento della Lehman Brothers del 2008 e l’inizio della cosiddetta Grande Recessione, il nome di Keynes ritornava prepotente nel dibattito pubblico. Da un lato, si schieravano coloro che accusavano le politiche keynesiane di essere la ragione della crisi, dall’altra, si ponevano coloro che vedevano in esse l’unica via, intesa anche come extrema ratio, per mitigare le conseguenze e tentare di riavviare un nuovo ciclo di accumulazione.
Di fronte alla crisi attuale, il richiamo al keynesismo non è stato appannaggio esclusivo della classe dominante. Il variegato movimento di classe di fronte all’attacco verso lo stato sociale, ha posto, come risposta, la redistribuzione verso il basso dei profitti, con la parola d’ordine del reddito di cittadinanza, la statalizzazione delle imprese “strategiche” in crisi, l’eliminazione del pareggio di bilancio in costituzione o il finanziamento statale delle opere utili alle masse, come recitava lo slogan “Una sola grande opera: casa e reddito per tutti”.
Il keynesismo sembra, quindi, una teoria economica che potrebbe mettere d’accordo un po’ tutti: da alcuni settori della borghesia monopolista sino a settori del sindacalismo di base e ai movimenti antagonisti. Una sorta di panacea, se non per tutti i mali del capitalismo almeno per buona parte di essi: essa infatti non criticando l’essenza del sistema economico, sarebbe in grado di dare prosperità al ricco quanto al povero.
Il nostro articolo punta a criticare la teoria keynesiana come antidoto alla crisi del capitalismo. Per fare questo, entreremo nel merito della natura della crisi e della tendenza al crollo del sistema economico attuale e andremo a vedere alcune delle manovre che la borghesia propone in funzione contro – tendenziale, nello specifico il Quantitative Easing (QE) della Bce e il finanziamento all’Industria 4.0.
La tesi di fondo, che andremo a sostenere, è che le teorie keynesiane hanno fornito una base teorica alla borghesia monopolista per giustificare l’ingerenza dello Stato nell’economia, un intervento contraddittorio, vista l’apologia della “libera concorrenza”, ma necessario di fronte al ciclico presentarsi delle crisi. In effetti, grazie a queste politiche, il ruolo anticongiunturale dello Stato favorisce, nel breve periodo, la realizzazione del plusvalore prodotto, ma, rispetto alla tendenza generale della crisi da sovrapproduzione di capitale, porta a un ulteriore aggravamento della stessa. In regime capitalistico, quindi, è impossibile eliminare la crisi e per eliminarla bisogna eliminare il sistema capitalistico.
Teoria keynesiana della crisi
Fu la cosiddetta Grande Depressione del 1929 – 1933 la prima gravissima manifestazione della crisi, con conseguente distruzione di forze produttive, che si sia verificata nella fase del capitalismo dei monopoli o fase imperialista. Per capire la portata di tale avvenimento, basta pensare all’abbassamento del 44% del volume della produzione industriale mondiale, respinto quindi ai livelli del 1908 – 1909 (quello americano addirittura del 64,2%, riportando la produzione ai parametri del 1905 -1906). Per dare un’immagine nitida dell’entità della crisi nei vari settori possiamo citare la demolizione di 92 altiforni negli USA, 72 in Inghilterra, 28 in Germania e 10 in Francia. Sempre negli States furono distrutti 10.400.000 acri di piantagioni di cotone e in Brasile furono gettati a mare 22.000.000 sacchi di caffè. Questi dati ci rendono una fotografia dell’epoca simile a quelle della guerra mondiale che avvenne in seguito.
Una crisi di tale portata, come possiamo vedere anche noi oggi, scuote le basi della dominazione capitalista, sicuramente perché la borghesia vede minacciato il proprio dominio nella caduta del profitto, ma soprattutto perché si acuiscono le contraddizioni tra le classi da un lato e tra le formazioni imperialiste dall’altro.
In questo contesto l’economia borghese si trova a fare i conti con le contraddizioni del proprio sistema: sia dal punto di vista pratico, per correre ai ripari a fronte di una nave che affonda e continua a imbarcare acqua; sia dal punto di vista ideologico, per giustificare quanto sia passeggera la tempesta e per affermare che, in ogni caso, la nave sulla quale si naviga è la migliore possibile.
Gli economisti borghesi inizialmente tendevano a negare la possibilità delle crisi economiche nelle società capitaliste. Dalla metà del XIX° secolo in poi, invece, dovettero riconoscerne l’esistenza. Essi iniziarono ad addebitare la causa delle crisi a degli elementi accidentali, discolpando in questo modo il sistema capitalistico. Dal loro punto di vista, quindi, bastava eliminare tali accidenti per tornare a proclamare a gran voce il mito di eterna prosperità del sistema.
Il ciclo di crisi del 1929 – 1933, proprio a causa della sua intensità, spazzò via tutte le chiacchiere sullo sviluppo del capitalismo senza crisi e sulla sua capacità di autoregolarsi, rendendo urgente il bisogno di una “nuova teoria” che salvasse la borghesia. Perciò Keynes può essere definito il più sincero difensore del capitalismo nella fase imperialista.
Secondo l’economista inglese le crisi sono determinate da tre elementi fondamentali: 1) le tendenze del consumo 2) l’efficienza marginale del capitale e 3) la preferenza per la liquidità. Per spiegare, in maniera sintetica, il significato di queste tre “leggi psicologiche” partiamo dalla prima. Keynes, come già altri autori in precedenza, individua nel potenziamento del desiderio di risparmiare, in seguito all’aumento dell’occupazione e delle entrate. L’incremento di quest’ultimi viene destinato in misura sempre minore al consumo e in misura sempre maggiore al risparmio, determinando che i bisogni dei beni di consumo non vengano soddisfatti.
La seconda legge, invece, indica come causa della crisi le aspettative di futuri guadagni del capitalista. L’efficienza marginale del capitale è il rapporto quantitativo tra i ricavi previsti e i costi di capitale addizionale. La legge dell’efficienza marginale indica che: in una situazione nella quale i vari fattori restano immutati (capitale fisso, ecc) più aumentano gli investimenti, più si prospetta una diminuzione dell’efficienza marginale. Il capitalista quindi, smette, di fronte alla diminuzione dell’efficienza marginale al di sotto del saggio d’interesse, di investire.
L’ultima riguarda, invece, la tendenza psicologica che fa scegliere la forma monetaria per detenere le ricchezze. La moneta viene preferita data la sua mobilità, in quanto consente di aumentare il consumo, operare speculazioni e prevenire i pericoli.
Da queste tre “leggi” Keynes fa derivare la sua teoria della crisi che si può sintetizzare così: “parallelamente all’aumento dei redditi cresce il consumo, ma non così velocemente come aumentano i redditi e, di conseguenza, con l’aumento dei redditi si accentua la propensione ai risparmi. Al tempo stesso la propensione agli investimenti non cresce tanto rapidamente quanto la propensione ai risparmi e viene a formarsi quindi un eccesso non impiegato, ciò si manifesta sotto forma di non piena occupazione e di non completo utilizzo delle risorse materiali”. [1]
Si può notare come la teoria keynesiana in realtà, non ha nulla di rivoluzionario, ponendosi in
continuità con il filone sottoconsumista dell’economia borghese iniziato da Malthus. L’autore inglese, più che andare alla ricerca delle cause che identifica nella sfera della circolazione, pone maggiormente l’attenzione su come risolvere questa contraddizione, tanto seria da non poter essere eliminata. Ciò che differenzia Keynes dagli autori precedenti sta nel riconoscere l’incapacità del capitalismo di regolarsi da sé e nel cercare qualcosa, che operi da fattore esterno al mercato, che riesca a tamponare e addirittura sconfiggere la crisi.
Bisogna sottolineare come il keynesimo, in quanto teoria, e il modello keynesiano, come prodotto, si affermano in rapporto allo sviluppo tecnologico dell’epoca e alla conseguente evoluzione dell’organizzione e della struttura produttiva. L’elaborazione di Keynes era resa possibile dalla nascita del Fordismo. La produzione fordista, con la catena di montaggio e quei nuovi metodi di lavoro inaugurati dall’industria automobilistica e poi esportati negli altri settori, dà inizio alla produzione dei beni di consumo di massa, alla massificazione della classe operaia e di conseguenza al consumo di massa. Quest’evoluzione nella struttura produttiva determina che la massa salariale della classe operaia diviene volano della circolazione del capitale. Il modello keynesiano, basato sul sostegno della domanda aggregata attraverso la politica fiscale e la spesa pubblica, si inserisce in questo contesto; così come il declino dello stato keynesiano e lo smantellamento delle politiche welfaristiche vanno lette in dialettica con la fine del modello fordista e l’introduzione del toyotismo.
Per comprendere il carattere reazionario della teoria keynesiana bisogna chiarire il compito che si prefigge. Il problema non è solo cercare una via d’uscita alla crisi, ma sviluppare una “politica della crescita” tale da raggiungere non solo la stabilità nella congiuntura critica, ma anche dei saggi più o meno stabili dello sviluppo economico. Questo obiettivo è spinto soprattutto alla luce dell’esperienza socialista sovietica e dalla paura che, di fronte alle crisi del capitalismo, il proletariato punti a disfarsi una volta per tutte dei padroni, della fame e della miseria da loro generata. Per questo motivo Keynes è di fatto il teorico, sul piano economico, della controrivoluzione preventiva, proprio perché la sua elaborazione mira a “risolvere” le contraddizioni intrinseche del capitalismo dei monopoli. Non a caso tali progetti “anti – crisi” ottennero una vasta diffusione dagli USA alla Germania nazista, in Inghilterra, Francia e, a gradi diversi, divennero il fondamento della politica economica di tutti gli stati imperialisti.
Ma quale può essere questa forza extracapitalista, che opera in senso anticongiunturale al presentarsi ricorrente delle crisi? La risposta Keynes la trova nello stato borghese, nelle politiche monetarie di basso interesse, nell’emissione di denaro in eccedenza alle esigenze di circolazione. Partendo dal presupposto che la natura della crisi sia di realizzazione dei profitti (ovvero domanda che non soddisfa l’offerta), lo Stato, tramite le sue riserve (tasse e prestiti ottenuti con l’emissione dei titoli di Stato) controbilancia la domanda sollevando i profitti, infondendo ottimismo negli investitori e riavviando un nuovo ciclo espansivo. Le riserve statali vengono in questo modo utilizzate per finanziare servizi pubblici e commissionare opere pubbliche al capitale produttivo privato, aumentando così direttamente la domanda di mezzi di produzione e l’occupazione della forza lavoro. Di conseguenza aumenta anche la massa dei redditi che imprimono la crescita alla domanda dei beni di consumo e, indirettamente, alla produzione dei macchinari necessari alla loro produzione. Il problema di Keynes, quindi, era calcolare il volume di investimenti che permetteva allo Stato di influire sulla congiuntura per prevenire il disordine ciclico del processo di riproduzione. A tal scopo formulò il concetto di moltiplicatore: una formalizzazione matematica del fatto che un dato volume di investimenti stimola la creazione di merci e di servizi maggiore per valore rispetto al valore degli investimenti.
La teoria keynesiana sembra aver trovato la soluzione ai mali cronici del capitalismo: nel breve periodo le politiche che ne derivano determinano la realizzazione del plusvalore prodotto, aumentando l’occupazione e stimolando la domanda sia dei beni di consumo che dei mezzi di produzione.
Un esempio di questa capacità è fornito dai dati della tanto decantata ripresina nel contesto economico attuale: “del terzo quadrimestre 2017 che contemplano rispetto al secondo: crescita del PIL a 0,4%, +5,9% gli investimenti, valore delle società non finanziarie prossime ai valori precrisi, esportazioni in crescita costante, propensione al risparmio in crescita. Quest’ultimo, tra l’altro, va a incrementare i Piani Individuali di Risparmio, Pir, previsti dalla penultima legge di bilancio quali strumenti per dirottare il risparmio verso le piccole e medie imprese e che nel 2017 vi hanno messo a disposizione ben 10 mld di euro. A ciò si aggiunge il tanto decantato milione di posti di lavoro creati dal Jobs Act.” [2] Tralasciando la natura dei posti di lavoro creati, è chiaro che la ripresina attuale è il prodotto del drenaggio in corso di capitali pubblici verso i privati: il super e iper – ammortamento per l’acquisto di macchinari Industria 4.0, l’esenzione fiscale sulle nuove assunzioni, la detassazione dei premi di produzione, il QE della Bce, ecc. La ripresina è il prodotto di un’economia drogata dal ruolo dello Stato e delle banche centrali che intervengono di fronte alla crisi strutturale. Queste politiche, stanno solo aggravando le contraddizioni, nel medio – lungo periodo, sulle quali si manifesterà in maniera ancora più profonda la crisi stessa. Ricordiamoci che la crisi del 1929 – 1933 perdurò fino al secondo conflitto imperialista mondiale e che, solamente sulle ceneri delle forze produttive distrutte, si poté riavviare un nuovo ciclo di accumulazione.
Certo, si potrebbe obiettare che fintantoché lo Stato svolge questo ruolo anticongiunturale, investendo a favore dei privati, tutto potrebbe filare liscio. La prima contraddizione però con la quale si scontra il modello keynesiano è la limitatezza delle entrate fiscali dello Stato. Da una parte, queste ultime non possono, oltre ad una certa misura, gravare sui profitti, perché accentuerebbero le difficoltà che incontra la valorizzazione del capitale. Dall’altro, non possono, oltre sempre una certa misura, attingere dai redditi da lavoro, pesando quindi sulla riproduzione della forza lavoro e alimentando tensioni salariali. Non possono nemmeno attingere in maniera eccessiva sulla circolazione (iva, accise, ecc.), perché, rincarando il costo delle merci, metterebbero un freno alla realizzazione dei profitti. In questi anni, infatti, abbiamo visto come la borghesia al governo gioca al gioco delle tre carte per far quadrare i conti: spostando il denaro pubblico a disposizione da una parte all’altra, operando sempre più profonde spendind review, tagliando da un lato per finanziare dall’altro. Questa contraddizione è ormai cronicizzata in tutti gli stati imperialisti, i quali si portano dietro un debito pubblico enorme, che ne limita ulteriormente il campo d’azione.
La contraddizione principale, però, è un’altra ed è data dall’errato presupposto per cui la crisi avvenga nella sfera della circolazione, come insufficienza di consumi. Nel capitalismo e in modo ancora più forte nella fase imperialista, la crisi è solo ed esclusivamente di sovrapproduzione di capitale. Il problema non è che viene prodotto troppo plusvalore, che non riesce a realizzarsi sul mercato, ma al contrario, il plusvalore è troppo poco in rapporto alle esigenze di valorizzazione del capitale accumulato.
Questa contraddizione è immanente al modo di produzione capitalistico, in quanto scaturisce dalla competizione dei capitalisti per accumulare il maggior profitto possibile, ed emerge in maniera dirompente con la crisi. Il punto centrale è il tasso di profitto e la sua caduta tendenziale, caduta determinata dall’aumento della produttività dei macchinari, quindi dal rinnovo del capitale fisso e dalle innovazioni tecnologiche. Negli Usa, dal dopoguerra in poi, “la produttività aumenta da 28 milioni di dollari per lavoratore nel 1947 a 231 milioni di dollari nel 2010 mentre i lavoratori per mezzi di produzione diminuiscono da 75 nel 1947 a 6 nel 2010. Siccome solo il lavoro produce valore, una ipotesi che può essere dimostrata empiricamente, una quantità sempre maggiore di prodotto contiene un valore sempre minore”. [3]
La caduta tendenziale del saggio di profitto non ha un carattere rettilineo, bensì si impone attraverso aggiustamenti e periodici rialzi, in un movimento ciclico, scandendo le varie fasi: crisi – ripresa – prosperità – sovrapproduzione – crisi e depressione. I cicli, nella fase imperialista del capitale, tendono a essere sempre più brevi, sempre più fitti e sempre e sempre più violenti. Questo perché, ad ogni ciclo, le contraddizioni si infittiscono: le crisi, infatti, non sono la semplice ripetizione del ciclo precedente, ma ne sono una versione più acuta, carica di una maggior quantità di contraddizioni.
Partendo da questo presupposto, il sottoconsumo è un fenomeno conseguente della crisi di sovrapproduzione, è uno dei modi in cui la crisi si manifesta, ma non ne è la causa. Ne consegue che, per il capitalismo, l’unico modo per avviare un nuovo ciclo di riproduzione è un aumento del plusvalore estratto (ovvero l’aumento del saggio di sfruttamento) da un lato e, dall’altro, lo sviluppo della capacità del capitale più produttivo di impadronirsi delle quote di mercato dei capitali concorrenti. Questo comporta necessariamente la distruzione di una quota di capitali “più deboli”, sui quali la crisi deve essere scaricata, oltre ovviamente che sulla classe operaia. Ogni volta che il capitale riesce a ripartire con un nuovo ciclo pone le basi per il nuovo crollo. Ad ogni ripresa il capitalista, uscito “vincente” dalla crisi, estende la propria base produttiva: questo per la comparsa di nuovi sbocchi per la valorizzazione del capitale. Questi nuovi sbocchi possono essere: geografici (penetrazione in ambienti non capitalistici o dove è stata distrutta la forza produttiva), nuovi settori di produzione (progresso tecnologico), o fette di mercato conquistate in base ai rapporti di concorrenza. La guerra contro i popoli e la guerra inter – imperialista per la ripartizione del mondo sono la risultante necessaria dello scontro tra formazioni capitaliste per l’uscita dalla crisi nel vicolo cieco del capitale.
Le politiche keynesiane, pur ottenendo benefici nel breve periodo, di fatto peggiorano la crisi. L’introduzione forzata di investimenti pubblici aggrava le condizioni della valorizzazione insufficiente che ne determina la sovraccumulazione. Queste stesse politiche, incrementando la domanda, risultano insufficienti rispetto alla quota di capitale complessivo che risulta sovraprodotta e che deve essere necessariamente distrutta per la ripresa del ciclo di riproduzione.
L’incapacità delle politiche keynesiane di far uscire il sistema dalla crisi non né inficiano la popolarità e l’aurea da extrema ratio. D’altronde ai capitalisti interessa salvare i propri profitti nel breve periodo, nel lungo periodo siamo tutti morti. Dal dopoguerra ad oggi, l’economia borghese ha criticato, anche aspramente, la teoria keynesiana, dando vita a diverse nuove scuole di pensiero: il monetarismo, il neo – liberismo, la sintesi neoclassica, ecc. Lo scontro dei diversi indirizzi dell’economia politica borghese e le reciproche invettive mostrano la gravità della crisi delle concezioni borghesi, l’esaurimento delle riserve teoriche, lo smarrimento di fronte all’acutizzarsi della crisi del sistema capitalistico.
L’elemento che accomuna queste diverse teorie borghesi è l’aver spazzato via il mito del laissez faire del sistema e la sua capacità di autoregolazione, bandiera della scuola classica. Ad oggi, la necessità di una forza terza che regoli, anche solo formalmente, i rapporti tra i monopoli e il mercato, che investa a favore dei capitalisti, che incentivi i consumi, che regoli i tassi d’interesse e quant’altro, è un dato stabile. Anche il neo – liberismo, che rappresenta ideologicamente un ritorno al laissez faire, non nega la necessità di controllo, da parte di organismi terzi, della quantità di moneta in circolazione per evitare l’inflazione o di un sistema di regole che limiti il potere dei monopoli.
Il keynesimo ha fornito al capitalismo la strumentazione concettuale e operativa per utilizzare lo Stato come agente anticongiunturale di fronte all’avvitarsi della crisi. Un ruolo ormai assodato in qualsiasi scuola economica borghese. Se, da un lato, il ripresentarsi della crisi nella metà degli anni ’70 ha spazzato via il modello di Stato keynesiano, dall’altro, quella che possiamo definire strumentazione keynesiana rimane parte integrante dell’armamentario strategico della borghesia imperialista.
Draghi e il keynesimo monetario
Ad oggi si sono registrate principalmente due fiammate di aggravamento della crisi nella sfera finanziaria. La prima, detta “crisi dei sub – prime”, è iniziata a metà del 2006 negli Usa e ha avuto il suo apice con la bancarotta di storici istituti bancari come la Lehman Brothers (15 settembre 2008); la seconda è la “crisi dei debiti sovrani” tra il 2010 e il 2011 che ha come epicentro il debito sovrano greco (come aggravamento della crisi esplosa nel 2009) e che si estende prima a Irlanda e Portogallo e successivamente a Spagna e Italia. In risposta all’esplosione della prima bolla finanziaria la Bce, così come la Fed e le altre banche centrali, dà avvio a una serie di “misure non convenzionali”, orientate a fornire liquidità al sistema bancario a bassi tassi di interesse e per durate più lunghe del normale. L’obiettivo è rassicurare il mercato sulla solvibilità degli istituti di credito, far diminuire i tassi di interesse nel mercato interbancario e ripristinare le condizioni di ripresa del credito.
Il nome di queste misure è Enhanced Credit Support (sostegno al credito rafforzato) e sono definite “misure non convenzionali”, in quanto vanno oltre il normale approvvigionamento di liquidità. La Bce diminuisce quindi il tasso di interesse (si tratta del MRO Main Refinancing Operations, ovvero il tasso di interesse con il quale le banche prendono in prestito soldi dalla Bce) che passa dal 4.25% dell’ottobre 2008 all’attuale 0%. [4] In sostanza viene concessa tutta la liquidità che le banche desiderano a un tasso prefissato. Dato che le banche per avere liquidità devono dare titoli a garanzia del denaro ricevuto, la Bce, oltre ad azzerare i tassi di interesse, aumenta il rating dei titoli considerati accettabili come contropartita. Inoltre, tramite un accordo con la Fed, assicura la liquidità in dollari alle banche che si trovano a restituire prestiti nella medesima valuta e sono in difficoltà a farseli prestare da altre banche. Infine, la Bce avvia un piccolo Quantitative Easing (QE) acquistando per 60 miliardi nel 2009 e altri 40 nel 2011 i covered bonds, ovvero le obbligazioni attraverso cui le banche raccolgono prestiti a più lungo termine, per “rivitalizzare” questo segmento dei prestiti interbancari.
La Bce, in questa prima fase della crisi, ha agito da “prestatore di ultima istanza” evitando la corsa agli sportelli ed evitando il fallimento a catena degli istituti creditizi. Lo scopo di queste prime misure è sintetizzabile nella logica del rafforzamento della liquidità bancaria a scopo precauzionale.
Tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, le misure intraprese da tutte le banche centrali portano a un miglioramento dell’aspettativa di ripresa globale, tale per cui la Bce pensa addirittura di far rientrare le “misure non convenzionali”. La doccia fredda, peraltro annunciata da tempo, arriva con lo scoppio della “crisi dei debiti sovrani”, in primis quello greco, ma a seguire si estende a quelli delle altre formazioni dell’aggregato europeo più colpite in generale dalla crisi. Alla base di questa nuova manifestazione della crisi sul piano finanziario è l’insolvibilità del debito pubblico contratto da questi paesi verso i creditori. La Bce, ovviamente, torna sui suoi passi e rinuncia al rientro delle misure straordinarie andando, invece, a rafforzarle con misure di salvataggio ad hoc per la Grecia e a seguire per Irlanda e Portogallo. Inoltre, lancia Security Market Program (Smp) con l’acquisto di oltre 200 miliardi di titoli di stato dei paesi colpiti, per la metà italiani, con l’obiettivo di frenare lo spread degli stessi. Sempre su questa strada, dal 2014, la Bce vara dei nuovi e più profondi QE, con l’acquisto di titoli privati e di titoli di stato. Parliamo dell’immissione, secondo uno studio della Bundersbank, di oltre 2.300 miliardi [5] di euro sul mercato che pur con una diminuzione da 80 a 60 miliardi al mese dal 2017, continua a tutt’oggi. L’obiettivo è sempre lo stesso: aumentare la massa monetaria con iniezioni di liquidità per favorire la domanda aggregata. In questo caso, però, avviene un passaggio, se non di rottura, quantomeno di discontinuità con la politica monetaria precedente. Il QE rappresenta, infatti, una politica monetaria di tipo espansivo che in qualche modo si oppone, pur dovendo trovare una sintesi, con la linea tedesca della Bundersbank.
I keynesiani più duri criticano aspramente l’utilità di queste manovre. Essi ne lamentano la debolezza e in qualche modo l’ipocrisia, visto che, a differenza di quanto fatto dalla Fed o dalla banca centrale del Giappone, la Bce non acquista i titoli sul mercato primario, cioè direttamente dagli organi emittenti (i ministeri del Tesoro dei singoli Stati), ma sul mercato secondario, che si identifica con le grandi banche della zona euro. In questo modo l’effetto ottenuto è principalmente quello di aumentare la liquidità delle banche, le quali guadagnano dal differenziale tra i prestiti a costo zero della Bce e gli interessi pagati dallo Stato. Inoltre, l’acquisto dei titoli di stato è fatto, in minima parte, direttamente dalla Bce, mentre la stragrande maggioranza degli acquisti è a carico delle banche centrali nazionali (Banca d’Italia, di Francia, Bundersbank, ecc.), che si assumono anche i rischi di un possibile fallimento degli stati debitori. Infine gli acquisti non vengono fatti selettivamente sulla base del livello di crisi delle singole formazioni, bensì in modo proporzionale alle quote di capitale detenute dai singoli stati nella Bce. Paradossalmente la Germania, capofila dei paesi capitalisticamente più strutturati d’Europa, trae maggiori benefici da quest’operazione rispetto alla Grecia. Altro aspetto che i keynesiani mettono in luce è l’assenza di un piano di investimenti europeo a corredo del QE, per cui la liquidità è destinata a rimanere potenzialmente funzionale alla domanda ma effettivamente ferma nei depositi.
Per quanto i keynesiani più duri possano criticare il QE e le mosse di Draghi, esse sono espressione di una politica di keynesismo monetario. Come già detto, l’aumento della massa monetaria, con l’intento di stimolare la domanda aggregata, rientra in quest’ottica: l’azione anticongiunturale, sul piano finanziario, di una <<terza forza>> che opera fuori dai suoi “limiti convenzionali” per limitare e per invertire la rotta della crisi. Nell’aggregato europeo questa misura ha trovato maggiore difficoltà a imporsi a causa dell’opposizione della formazione tedesca capeggiata dalla Bundersbank, la quale ha sempre osteggiato misure espansive, spingendo invece per quelle di taglio e riduzione della spesa pubblica dei paesi a rischio insolvenza. La sintesi tra la linea tedesca e le misure della Bce è ben visibile nel ricatto verso i paesi da “salvare”, i quali per accedere ai fondi europei devono garantire il massacro delle conquiste sociali e la svendita dei servizi pubblici nei rispettivi paesi.
A prescindere dai limiti di queste misure proprie dell’aggregato europeo, il keynesismo monetario ha come contraddizione principale il fatto di non modificare le condizioni della crisi di sovrapproduzione, ma anzi di aggravarle. Il punto centrale, infatti, delle ultime ondate di crisi, sia quella dei “sub – prime” e sia quella dei “debiti sovrani”, è che hanno origine dalla stessa base materiale. Entrambe sono il prodotto dell’indebitamento, privato nel primo caso e pubblico nel secondo. Un fenomeno collegato al tentativo di stimolare artificiosamente la domanda di fronte alla crisi di sovrapproduzione della metà degli anni ’70, iniziata con la fine del periodo di crescita e prosperità post- seconda guerra mondiale. Sono le stesse politiche keynesiane dell’epoca ad aver creato le condizioni di un ritorno al keynesismo nella fase attuale, o meglio: sono le stesse contraddizioni del capitalismo, che le politiche anticicliche non riescono a eliminare, facendole riemergere di volta in volta con sempre maggiore violenza.
La crisi finanziaria, iniziata nel 2006, è una manifestazione della crisi di sovrapproduzione specificatamente legata alla stretta creditizia, laddove i creditori vedono i propri debitori incapaci di pagare. L’insolvenza è solo un fattore di conversione della crisi in crisi finanziaria e del suo aggravamento, nella misura in cui l’indebitamento pubblico non riesce più a rifinanziarsi o quando l’indebitamento privato, nel tentativo di superare gli ostacoli che la sovrapproduzione incontra nella sfera della realizzazione, va oltre i limiti della solvibilità per forzare lo sviluppo del credito al consumo.
La propensione “soggettiva” al risparmio, di cui parla Keynes, ha una base “oggettiva” nella caduta tendenziale del saggio di profitto ed è questa che spinge il capitale a trasmigrare dalla sfera produttiva a quella finanziaria, attirato dalle rendite e dall’apprezzamento dei titoli generati dal minor saggio generale di profitto. Più si apprezzano i titoli e più è forte l’attrazione che questi esercitano sui capitali in cerca di valorizzazione, più l’offerta di capitali in cerca di investirsi finanziariamente aumenta, più questo fa aumentare la domanda e il prezzo dei titoli. Tramite questo meccanismo autoespansivo si alimenta la “bolla” finanziaria pronta a esplodere.
Le crisi finanziarie non fanno altro che mettere in luce la crisi dell’economia reale, la quale ha la sua radice sempre e comunque nella caduta del saggio di profitto. È questa caduta in ultima analisi il fattore che rende “eccessivo” il debito e “insufficiente” il credito, determinando la difficoltà di garantire il primo e di erogare il secondo.
Tornando a Draghi e al QE possiamo dire che queste politiche danno ossigeno all’economia, con iniezioni di liquidità utili a stimolare la domanda aggregata funzionale alla realizzazione del plusvalore prodotto. L’antidoto, in questo caso, ottiene come effetto, nel breve periodo, quello di accompagnare gli stati e le banche nella tempesta del mercato, garantendo un porto sicuro per gli investitori, sia dell’eurozona che extra – euro, tale da ridurre le fughe di capitali e il consequenziale effetto domino devastante. Il ricorso a questi antidoti, però, dimostra l’incapacità del mercato finanziario di sopravvivere senza un intervento esterno che lo sostenga con misure non convenzionali. Inoltre, ha prodotto l’ampliamento della quantità di moneta presente sul mercato finanziario che deve diventare capitale, la quale entra a far parte della base materiale sulla quale si svilupperà la prossima bolla finanziaria.
L’Industria 4.0 e la tendenza al crollo
Come abbiamo ampiamente detto nell’articolo, la borghesia si scontra ciclicamente con la caduta tendenziale del saggio di profitto, determinata dall’aumento della produttività dei macchinari, quindi dal rinnovo del capitale fisso e dalle innovazioni tecnologiche. Questo determina che il plusvalore prodotto è troppo poco in rapporto alle esigenze di valorizzazione del capitale accumulato. Il come si manifesta la crisi di volta in volta è secondario rispetto alla sua base materiale che si trova appunto nel continuo rinnovo del capitale fisso.
Nelle ultime leggi finanziarie il governo ha deciso di finanziare in maniera cospicua l’ammodernamento dei macchinari di industrie e imprese. Un ingente quantitativo di soldi che passa dalle casse pubbliche alle tasche dei privati con l’obiettivo di aumentare la produttività, investendo sull’automazione e nell’Industria 4.0. La normativa prevede: un impegno stimato per lo Stato di circa 8,2 miliardi spalmato però in 10 anni in termini di cassa. I primi effetti relativi agli investimenti effettuati nel 2018 si faranno sentire nel 2019, per 903 milioni totali tra iperammortamento al 250% per i beni tecnologici, superammortamento al 140% per i software, superammortamento ridotto al 130% per tutte gli altri beni strumentali “tradizionali”. La relazione tecnica stima poi un effetto finanziario di 1,7 miliardi nel 2020, 1,5 miliardi nel 2021, 1,3 miliardi nel 2022 e altrettanti nel 2023, 848 milioni nel 2024, 341 milioni nel 2025, 54 milioni nel 2026, 139 milioni nel 2027, 39 milioni nel 2028. In totale saranno 17 miliardi di euro.
Le stime si basano su di una ricognizione degli investimenti annui che potrebbero essere effettuati: circa 16,8 miliardi in beni tecnologici, 3,3 miliardi in software e 93,5 miliardi in altri beni strumentali. [6]
I soldi messi sul piatto per l’Industria 4.0, assieme alla decontribuzione sulle nuove assunzioni, stanno determinando la tanto osannata “ripresina”. Il governo uscente Gentiloni si è potuto vantare di aver diminuito la disoccupazione e di lasciare al governo entrante un’economia sulla strada dell’uscita dalla crisi. L’Industria 4.0 viene presentata unanimemente come la panacea dei mali del capitalismo italiano. “Nuove macchine, nuova automazione, più produttività” sono gli slogan ripetuti dalla stampa borghese e anche purtroppo dai bonzi sindacali, che girano per le fabbriche a spiegare agli operai che bel futuro avranno davanti. D’altra parte non manca chi favoleggia della fine del lavoro e di una società dove i robot producono e noi possiamo passare il tempo come più ci aggrada, stipendiati dal reddito di cittadinanza. Ma, appunto, queste sono favole, la realtà nel sistema capitalista è che l’innovazione tecnologica coincide con l’aumento del saggio di sfruttamento e con l’espulsione di manodopera in eccesso dovuta alla disoccupazione tecnologia. In soldoni si lavorerà sempre peggio e quando e se il lavoro si riuscirà a trovare. [7]
L’aspetto che ci interessa approfondire in questo paragrafo è il rapporto tra rinnovo del capitale fisso e crisi del capitalismo. La competizione tra capitalisti spinge all’introduzione di nuovi mezzi di produzione che incorporano sempre più tecnologia. L’obiettivo è aumentare l’efficienza del processo produttivo, in poche parole ottenere più produzione a parità di capitale investito. Queste tecnologie, come “l’internet delle cose”, leitmotiv dell’Industria 4.0, sono pensate per rimpiazzare i lavoratori con i mezzi di produzione. Ne deriva che il capitale investito in mezzi di produzione aumenta rispetto al capitale investito in forza lavoro: in altri termini abbiamo un aumento della composizione organica del capitale.
Il nodo centrale è che solo il lavoro crea valore: di conseguenza meno forza lavoro impiegata significa meno plusvalore prodotto. Il tasso medio di profitto cade, inesorabilmente, non perché il lavoro diventa meno produttivo, ma, al contrario, perché diventa più produttivo. La conseguenza è che una minore quantità di plusvalore è incorporata in una maggiore quantità di valori d’uso.
L’elemento sostanziale della crisi è contenuto in questo punto. Da questo passaggio fondamentale deriva l’impossibilità logica, per il capitalismo, di esistere (a causa delle sue contraddizioni intrinseche) oltre un certo grado di sviluppo delle forze produttive. Il capitalismo si fonda sullo scambio di forza lavoro con capitale. Tuttavia, lo sviluppo delle forze produttive che lo stesso capitalismo promuove come propria necessità, erode questa premessa. Composizione organica crescente e saggio di profitto decrescente raggiungono il punto dove la valorizzazione risulta insufficiente rispetto al capitale accumulato. Punto in cui cessa l’incremento della massa dei profitti ed è da qui che genera e precipita nella crisi. La caratteristica specifica dell’attuale fase storica è che questa contraddizione diventa sempre più irrisolvibile e sempre più esplosiva. Le capacità di sopravvivenza dell’attuale fase storica si stanno esaurendo, il capitalismo tende a morire.
L’Industria 4.0, in quanto tale, rappresenta, da un lato, una prerogativa essenziale per i capitalisti italiani nella concorrenza con le altre formazioni, ma, al contempo, spinge inesorabilmente ad approfondire la base materiale della crisi stessa per i motivi di cui sopra. Il governo investendo nel rinnovo del capitale fisso della borghesia nostrana, sta sul lungo periodo scavando la sua stessa fossa.
Non bisogna dimenticare, comunque, che la tendenza al crollo del capitalismo non significa che esso crollerà da sé in maniera meccanica, anzi. La tendenza al crollo è un movimento a spirale determinato dalle contraddizioni intrinseche del capitalismo, ma si tratta, appunto, di una tendenza che si scontra con delle cause antagonistiche che la contrastano, addirittura in alcuni casi annullandola. Il capitalismo non può morire senza essere rimpiazzato da un sistema superiore e quindi senza che intervenga la soggettività di classe.
Keynesismo e movimento di classe
In questi anni, di fronte alle politiche di taglio della spesa pubblica, il movimento di classe ha risposto con una linea che possiamo definire “redistributiva”. Invece di puntare il dito contro le cause fondamentali della crisi, ha cercato di proporre delle riforme che fossero contrapposte alla politica di tagli e proponessero, in opposizione, politiche di supporto ai redditi più svantaggiati. Da “Noi la crisi non la paghiamo!” si è passati alla parola d’ordine del “reddito di cittadinanza”, di base o universale, a seconda dei promotori. È importante sottolineare come questa parola d’ordine non viene fuori dalle lotte dei lavoratori, che resistono alla crisi, e chiedono di poter lavorare con un salario decente e senza vedere i propri diritti calpestati, quanto invece dalle forze soggettive del variegato movimento di classe.
Il pagamento di un reddito da parte dello Stato viene presentato dai suoi sostenitori come uno strumento volto a superare la precarietà e la disoccupazione galoppante. Non solo, la base teorica di questo strumento si ritrova in concetti quali “giustizia redistributiva”, “liberazione dal ricatto del lavoro” o addirittura “riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale”. [8] Di fatto, nessuno dei suoi estensori va a intaccare o mettere in discussione le cause delle diseguaglianze, della precarietà e soprattutto della crisi. Non a caso la questione del “reddito di cittadinanza” è entrata a pieno titolo nel dibattito della stessa borghesia, cosciente della disoccupazione tecnologica che produrrà l’Industria 4.0 e dell’effetto di depressione del mercato interno dovuto alla tendenza al ribasso dei salari. Infatti, lo stesso economista neo – liberalista Milton Friedman è stato uno dei principali sostenitori, a dimostrazione di come questa misura non riguardi tanto un rilancio dei consumi, quanto, invece, la gestione delle contraddizioni sociali, che scaturiranno con il nuovo salto tecnologico o comunque dell’endemica e sempre più grave precarietà e disoccupazione.
Le contraddizioni insite in questa proposta sono da ricercare fondamentalmente in due domande: chi paga il reddito di cittadinanza? E chi ne trae beneficio?
Alla prima domanda la risposta che possiamo tendenzialmente dare è molto semplice: i lavoratori, sia quelli della formazione capitalista dove il supporto al reddito viene elargito, sia, soprattutto, i lavoratori delle formazioni capitaliste dominate. Va sottolineato, infatti, che le politiche keynesiane e in generale il welfare – state sono perlopiù possibili nei paesi del centro imperialista, finanziati dai sovraprofitti estorti ai paesi dominati. Ciò costituisce la base economica sulla quale la borghesia imbastisce il collaborazionismo di classe con i settori del proletariato che ricevono le briciole dalle scorrerie dei padroni nel mondo. Ad esempio, la ricetta del “reddito di cittadinanza” è storicamente applicata in paesi dal notevole peso imperialista globale, quali l’Inghilterra e la Francia.
Rispetto ai lavoratori della formazione capitalista dove esso viene elargito, è chiaro che il reddito di cittadinanza è parte del valore da essi prodotto e viene redistribuito ad altri proletari che, più o meno temporaneamente, si trovano nella condizione di non produrre valore lavorando. Il problema è, dunque, da dove questa ricchezza sociale viene drenata: se viene presa e ridistribuita a danno della rendita e del profitto del grande capitale (ad esempio con la leva fiscale) o se viene, invece, semplicemente deviata a danno della condizione sociale dei lavoratori e delle masse in generale, per lenire la condizione della loro parte più colpita dalla crisi. Se, tanto per fare un esempio, si taglia la sanità pubblica per distribuire quelle stesse risorse ai disoccupati sotto forma di reddito di cittadinanza, si continua a giocare al massacro generale del proletariato, ma mettendo un’illusoria toppa laddove il buco è troppo largo.
Con gli attuali rapporti di forza tra le classi, possiamo dire che tendenzialmente il reddito sociale, di cittadinanza o come vogliamo chiamarlo, rischia di essere un istituto a costo zero per la grande borghesia e realizzato tramite un travaso di ricchezza sociale per linee interne allo stesso proletariato, dagli attivi ai disoccupati.
Per quanto riguarda il beneficio, possiamo dire che il reddito sociale potrebbe in concreto finire per andare a detrimento del salario. Infatti, un qualsiasi reddito elargito dallo Stato, sia esclusivo rispetto al salario, sia affiancato al salario, spingerebbe la struttura salariale al ribasso. Un effetto, questo, che produrrebbe anche il salario minimo garantito. Infatti, questi strumenti assumerebbero il ruolo di indici della riproduzione minima del lavoratore, che il padrone deve garantire, andando tendenzialmente a schiacciare verso il basso i salari. Nel caso addirittura si trattasse di un reddito di sostegno al salario, si andrebbe a coprire e a garantire maggiori quote di lavoro non pagato al capitalista. Solo laddove questo reddito impedisse al lavoratore di accettare impieghi a salario miserrimo o il lavoro in nero, allora esso potrebbe produrre conseguenze sociali generalmente positive per la classe. Concretamente, però, bisognerebbe che tale reddito superasse quantomeno le paghe più basse sul mercato, cosa piuttosto difficile, visto lo stesso effetto livellante svolto da tale elargizione di Stato, di cui poco sopra dicevamo. Perdipiù, il reddito sociale viene elargito, nei sistemi di welfare state che lo adottano, a fronte dell’obbligo del disoccupato di accettare gli impieghi imposti dagli uffici che lo erogano, estorcendo così il consenso a farsi assumere a condizioni contrattuali bassissime.
Se, da un lato, è comprensibile la tensione a proporre dei “programmi minimi” che migliorino le condizioni di vita delle masse; dall’altro, bisogna tener conto della natura del sistema capitalista, evitando quindi di proporre nuove ricette keynesiane che spingono il proletariato verso il collaborazionismo di classe. In questo senso, la linea dei comunisti deve essere quella di sostenere le lotte economiche del proletariato, portandovi però la propria visione politica che va oltre e contro l’economicismo, facilmente traducibile in keynesismo nelle politiche o nelle promesse della classe dominante, e ponendo la questione del superamento del sistema capitalista.
Conclusioni
In questo articolo abbiamo cercato di tirare una linea di demarcazione netta tra la visione borghese della crisi, ovvero come crisi di realizzazione o crisi del consumo, e la visione marxista, come crisi da sovrapproduzione. Abbiamo cercato anche di evidenziare come la teoria keynesiana non sia in grado di risolvere la crisi, ma, semmai, sfruttando l’azione dello Stato o di altri attori terzi come le banche centrali, riesce ad arginare i danni e dare boccate d’ossigeno a un sistema agonizzante.
Il keynesismo non ha la capacità di invertire la rotta della crisi ma può solo posticiparla, creando al contempo le condizioni per un suo riemergere più forte e più violento, come vediamo soprattutto in questa fase. L’antidoto, quindi, oltre ad essere inefficace sul lungo periodo, acuisce ulteriormente le contraddizioni, creando le basi per crisi ancora più profonde e ancora più devastanti, non solo per il capitale, ma anche per le condizioni di vita dei proletari. Il keynesimo è di fatto la teoria sul piano economico della controrivoluzione preventiva: sia quando è sostenuta dalla borghesia per rafforzare il ruolo anticongiunturale dello Stato nella crisi, sia quando è agitata all’interno del movimento di classe, in quanto spinge verso la collaborazione di classe tra la borghesia e il proletariato.
Abbiamo visto come, per la teoria marxista della crisi, l’aspetto fondamentale è la contraddizione tra forza produttiva e rapporto di produzione. La contraddizione è questa: più la produttività del lavoro aumenta, più il capitale espelle lavoro. La caduta tendenziale del saggio di profitto è l’espressione di tale contraddizione. Questa contraddizione è un elemento essenziale del sistema capitalista e quindi anche della fase attuale del suo sviluppo. Nell’attuale fase storica questa contraddizione diventa sempre più irrisolvibile e sempre più esplosiva. Le capacità di sopravvivenza del capitalismo si stanno esaurendo, il capitalismo tende a morire. Ma, come abbiamo già detto, non può morire senza essere rimpiazzato da un sistema superiore e quindi senza che intervenga la soggettività di classe. Senza questa soggettività il capitalismo si rinnova per effetto degli agenti antagonistici alla sua tendenza al crollo, ad esempio distruggendo con la guerra una quantità sufficiente di capitali tale da riavviare un nuovo ciclo di accumulazione.
L’unica condizione affinché ciò non accada è il ruolo della soggettività nella distruzione del capitalismo. Solo il socialismo può oggettivamente rappresentare una via d’uscita dalla crisi. Solo il socialismo può risolvere la contraddizione insanabile tra capitale e lavoro, rappresentando l’unica reale antitesi. In regime capitalistico è impossibile eliminare le crisi, per eliminarle non resta che eliminare il sistema capitalista.
Note
[1] Ja. Pevzner, Il capitalismo monopolistico di stato, Edizioni Progress, p. 37
[2] http://www.tazebao.org/note-sulla-fase-politica-inverno-2017-2018/
[3] Guglielmo Carchedi, L’esaurimento dell’attuale fase storica del capitalismo, reperibile su https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/8750-guglielmo-carchedi-l-esaurimento-dell-attuale-fasestorica-del-capitalismo.html
[4] dati presi da https://www.euribor.it/tasso-bce/
[5] https://it.reuters.com/article/topNews/idITKCN1B51E3-OITTP
[7] Vedi Antitesi n.3 “Comunisti: imparare dal passato, agire nel presente, trasformare il futuro (prima parte)”
Sezione 2: Classi sociali, proletariato e lotte
Articolo “Dalla frammentazione della classe, all’unità del politico”
http://www.tazebao.org/classi-sociali/
[8] http://contropiano.org/documenti/2017/04/04/potenzialita-limiti-del-reddito-base-090567
Il keynesimo militare
Con questo termine si definisce il ruolo benefico della spesa militare pubblica su tutta l’economia. Lo Stato agisce da investitore di ultima istanza nei confronti dell’industria bellica, che per effetto del moltiplicatore keynesiano, determina l’aumento dell’occupazione, dei salari e dei consumi. Per Keynes, infatti, le guerre, come qualsiasi altra opera pubblica, sevono ad accrescere la ricchezza e far uscire il paese dalla crisi. Questo discorso è bene espresso anche nel recente Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa, approvato nel 2015. L’industria della sicurezza e difesa costituisce un pilastro tecnologico, manifatturiero, occupazionale, economico e di crescita senza eguali per il “Sistema Paese” […] contribuisce allo sviluppo tecnologico attraverso programmi e investimenti in ricerca e sviluppo e, più in generale, alla crescita economica attraverso effetti diretti, indiretti e indotti sul PIL nazionale e sulla creazione di posti di lavoro qualificati; – contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione, favorendo i nostri rapporti di collaborazione con altri Paesi1.Propaganda della borghesia a parte, la spesa pubblica verso gli armamenti e l’industria bellica non ha come obiettivo principale quello di rilanciare l’economia stimolando la domanda, bensì è parte integrante delle politiche imperialiste. È una scelta obbligata nello scontro tra potenze per la spartizione del mondo. Nella fase di crisi del capitalismo, per cui ogni forza in campo combatte per la vita o la morte della propria economia. Su quest’obiettivo strategico tutta la borghesia conviene favorevolmente sull’indebitamento pubblico. Nè è un esempio la Francia, la quale dopo gli attentati, ha invocato la libertà della spesa in armamenti al grido: il patto per la sicurezza prevale sul patto di stabilità. L’Italia, dal canto suo, ha spostato da tempo alcuni capitoli del Documento di Economia e Finanza (Def) dalla voce “spesa” a quella “investimenti”, portando a circa 64 milioni di euro al giorno il costo della macchina bellica, cifra che è destinata ad aumentare.
1 https://www.difesa.it/Primo_Piano/Documents/2015/04_Aprile/LB_2015.pdf