Dalla difesa del territorio alla lotta contro la guerra imperialista
“imperialismo e guerra” da Antitesi n.05 – pag.25
Con questo articolo andremo ad analizzare il rapporto tra le lotte per la difesa del territorio e quella contro la guerra imperialista. Lo faremo anche facendo intervenire direttamente i protagonisti di queste lotte, sottoponendo loro alcune domande.
Nell’ultimo decennio lo sviluppo del capitalismo si può definire catastrofico. Il suo carattere intrinseco di ricerca di profitto a tutti i costi causa la crescita senza limiti della rapina a danno dei lavoratori e dell’ambiente, nonché la rovina di interi popoli e l’estensione delle guerre di conquista. Questa sua caratteristica non discende dalla cattiveria dell’uomo o dai governi più o meno reazionari che si susseguono, ma accompagna naturalmente l’incedere del capitalismo. Il capitale, infatti, per far fronte alla crisi irreversibile di sovrapproduzione, richiede sempre maggior sfruttamento del lavoro per aumentare il plusvalore necessario alla sua valorizzazione e sempre più spesso, nelle contraddizioni del mercato mondiale, la concorrenza tra diversi gruppi capitalistici si tramuta in conflitto militare. È una strada obbligata e può essere bloccata solo ponendo fine al suo sistema.
Più che mai nella fase storica odierna viene messo a nudo come i rapporti di produzione imbriglino le forze produttive [1] , indirizzandole tendenzialmente verso la reazione e la barbarie, cioè ad essere piegate agli interessi della borghesia imperialista. I rapporti di produzione borghesi piegano tutte le forze produttive alla valorizzazione capitalistica: i lavoratori arretrano quasi allo schiavismo, la scienza viene finalizzata sempre più alla ricerca in campo bellico e repressivo e le risorse naturali vengono depredate. Questa situazione ha incrementato la nascita di movimenti popolari e di massa contro progetti di opere utili agli interessi del capitale, anche solo speculativi, e rovinose per quelli delle masse popolari. Il movimento No Tav ha fatto scuola e la forza della sua resistenza, contro la quale lo Stato ha condotto una vera e propria guerra, non è andata dispersa ma ha ottenuto dei risultati. L’inutilità rispetto ai bisogni umani di un’opera come l’alta velocità in Valsusa l’ha ammessa lo Stato stesso, ad esempio con il testo, datato 10/11/2017, della Presidenza del Consiglio intitolato “Verifica del modello di esercizio per la tratta nazionale lato Italia – Fase 1 – 2030” nel quale, rispetto agli argomenti degli oppositori del Tav, si dice: “Non c’è dubbio che molte previsioni fatte 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali della Ue, siano state smentite dai fatti”. [2]
Altri movimenti popolari sono sorti dopo quello No Tav, dal No Muos al No Tap e ha preso nuovamente vigore il movimento contro le servitù militari in Sardegna.
Questi movimenti non hanno origine e non si sviluppano sulla contraddizione principale del sistema nel quale viviamo, quella tra capitale e lavoro, e non hanno come loro caratteristica la direzione dei lavoratori. Essi sono la risposta all’impatto che le opere producono e questa risposta modifica lo stato di cose presenti attraverso la lotta condotta nei territori, sia rallentandone la realizzazione sia trasformando le relazioni sociali, modificando e unendo i diversi settori di classe colpiti nella loro vita, nel loro ambiente e nelle condizioni di lavoro.
Sono movimenti progressisti e contrastano oggettivamente i progetti della borghesia imperialista sul piano del dominio economico-politico-militare, che potremmo definire strategici.
Ed è per questo che i comunisti, in particolare oggi con l’impellente necessità di far crescere un movimento contro la guerra imperialista a fronte della sua sempre più veloce avanzata, devono attrezzarsi per condurre all’interno di questi movimenti un serio lavoro politico.
Esiste un rapporto ineludibile tra questione territoriale/ambientale e l’opposizione alla guerra: lo sviluppo della guerra modifica il territorio e dunque i rapporti sociali che lo attraversano.
È questo rapporto che andiamo qui ad indagare, ritenendo importante intervenire sulle contraddizioni create dagli interventi del capitale sotto la spinta della crisi e della tendenza alla guerra imperialista, con l’obiettivo di incanalare le mobilitazioni verso la messa in discussione del sistema che le genera.
Andiamo dunque ad analizzare la questione riguardo al Tap, al Muos e agli insediamenti militari in Sardegna e, di seguito, ad esaminare lo stato attuale delle lotte facendo parlare i protagonisti, compagni interni a queste lotte. Ad essi Antitesi ha posto alcune domande con lo scopo di comprendere meglio il contesto in cui queste lotte si sviluppano, le prospettive e il legame tra opposizione alla devastazione ambientale e opposizione alla guerra imperialista.
Il Trans Adriatic Pipeline (Tap)
Il testo che segue ci può aiutare a capire meglio il progetto del Tap e le contraddizioni internazionali nella quali va inquadrato.
“A partire dal Tap (Trans Adriatic Pipeline), seguendo il fitto snodarsi delle condotte che trasportano il gas, si disegna, sotto i nostri occhi, la rete di interessi, a volte affini a volte antagonisti, che legano tra loro i diversi paesi imperialisti e le multinazionali del settore. E anche lo svilupparsi dei conflitti che accompagnano lo scontro di tali interessi quando la politica segue la via delle armi.
Infatti, il nuovo gasdotto Tap, costituirebbe il terzo e ultimo segmento del Southern Gas Corridor, una via del gas promossa dall’Ue in quanto concorrenziale rispetto ai progetti russi. L’Europa, praticamente priva di risorse, è dipendente dalle importazioni di gas che arrivano dalla Russia quasi per il 70%. Questo cordone ombelicale negli anni si è fatto sempre più soffocante per le classi dominanti europee, sopratutto con lo svilupparsi delle contraddizioni che vedeva man mano sempre più delinearsi l’antagonismo tra Bruxelles e Mosca. Si è fatta, quindi, sempre più impellente l’esigenza di smarcarsi da un’arma di ricatto così efficace e capace di condizionare la politica estera dei paesi dell’Unione Europea.
Il gasdotto transadriatico è uno dei progetti energetici che rientrano nel cosiddetto Corridoio meridionale del gas, definito dalla Commissione Ue “un’iniziativa importante per portare le risorse di gas del Mar Caspio e dell’Asia centrale sui mercati europei”. L’opera parte quindi al confine tra Grecia e Turchia, proseguendo verso ovest il tragitto del Trans Anatolian Pipeline (Tanap), che trasporta il gas naturale dell’Azerbaigian. Si snoda quindi in tre paesi, Grecia, Albania e Italia, per oltre 800 chilometri, di cui un centinaio nell’Adriatico. In Italia, il Tap si radica in Salento, nel comune di Meledugno, con un tratto di 8 chilometri sulla terra ferma, mentre la condotta sottomarina nelle acque territoriali italiane misurerà 25 chilometri. Da Meledugno il gasdotto si riallaccia alla rete nazionale di Snam rete Gas a Mesagne, in provincia di Brindisi, attraverso un altro condotto di 56 km che costruirà Snam stessa. Attraverso quest’ultimo il gas azero verrà distribuito agli altri mercati europei, in particolare in Austria e in Europa centrale.
Secondo quanto descritto nel progetto, il tratto italiano del gasdotto dovrebbe avere una portata di 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno, con la possibilità di un aumento di portata nel futuro fino a 20 miliardi di metri cubi. Il costruttore è il consorzio svizzero Tap, i cui azionisti sono al 20% la Socar (Azerbaigian), la Bp (Gran Bretagna) e la Snam (Italia), al 19% la Fluxys (Belgio), al 16% Enagas (Spagna) e al 5% Axpo (Svizzera).
Per quanto riguarda la Russia, la sua forza come fornitrice di gas all’Europa sta anche nel tentativo di monopolizzare le vie di rifornimento, sia sulla direttrice orientale (Balcani e Ucraina) sia su quella nordica. Il Nord Stream, inaugurato nel 2011, collega la Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Successivamente, il gas arriva nel centro Europa trasportato dal gasdotto Opal. Attualmente è in fase di realizzazione il progetto Nord Stream2, che dovrebbe raddoppiare la capacità di questo gasdotto nordico.
Si è delineata così, una contraddizione tra gli interessi specifici dell’imperialismo tedesco e quelli complessivamente intesi dell’Unione Europea. Gli interessi tedeschi rispetto a Nord Stream ci fanno meglio comprendere, nella sua complessità e contraddittorietà, la politica della Germania rispetto alla questione ucraina, esplosa negli ultimi anni in maniera sempre più virulenta, come lotta per la ripartizione del paese tra Ue e Usa da una parte e Russia dall’altra. Merkel è stata chiaramente dalla parte dei golpisti di Kiev fin da principio, allineandosi con gli Usa e schierandosi in prima fila nella pressione sulla Russia perché demorda dall’influenza sul paese confinante. Contribuendo ad accendere lo scontro con Mosca sul fronte ucraino, la Germania ha perseguito anche lo specifico interesse di destabilizzare quella via di transito del gas in Europa per rafforzare Nord Stream, il cui raddoppio venne deciso nell’estate del 2015.
E, dopo i recenti scontri tra Trump e Merkel, il Nord Stream è entrato anche nel mirino degli Usa, che lo vedono come un potenziale fattore di unitarietà tra imperialismo russo e imperialismo tedesco. Il senato statunitense, infatti, ha votato nuove sanzioni contro la Russia, che colpiscono anche gli investitori nel progetto Nord Stream 2. Una nuova sfida a Mosca, ma sopratutto un atto di rottura con gli alleati tedeschi.
E, a tal proposito, tornando al Tap, possiamo notare come, pur essendo proclamato come progetto strategico dell’Ue, non vi siano presenti capitali tedeschi, proprio perché la Germania vede con timore la prospettiva che l’Italia diventi una piattaforma per il passaggio del gas dalle regioni del Mediterraneo all’Europa, puntando invece a mantenere il proprio ruolo strategico attraverso il Baltico.
La Russia ha inoltre in cantiere il progetto Turkish Stream che, dopo aver visto una battuta d’arresto in seguito all’abbattimento del caccia russo, oggi vede una nuova accelerazione. Si tratta di un gasdotto che, partendo dal territorio russo attraverserebbe il Mar Nero arrivando nella Turchia europea e da qui risalirebbe i Balcani, per rifornire l’Europa, ovviamente senza toccare l’Ucraina. Di fatto, il Turkish Stream rappresenta il raddoppio della linea metaniera del Blue Stream ed è la risposta di Mosca al siluramento, da parte di Washington, del South Stream. Quest’ultimo, promosso da Gazprom e da Eni e poi dalla tedesca Wintershall e dalla francese Edf, doveva, aggirando l’Ucraina, portare il gas russo attraverso il Mar Nero, la Bulgaria, la Serbia, l’Ungheria fino a raggiungere la Slovenia, l’Austria e l’Italia. Tale progetto veniva bloccato nel 2014 dalla Bulgaria, su pressione dello Zio Sam, all’indomani dell’apertura del fronte ucraino.
Il Tap è ideato proprio in antagonismo al Turkish Stream: se in entrambi la Turchia, con annesso l’ingombrante Erdogan, gioca da punto nodale, il primo vuole escludere o quantomeno limitare l’approvvigionamento dalla Russia mentre il secondo lo rafforzerebbe. Così come entrambi, Turkish Stream e Tap, si pongono in competizione e in contraddizione sia con la via ucraina, più caldeggiata dagli Usa, e sia con il Nord Stream, russo-tedesco. Eni, come abbiamo visto con Blue Stream, prova a ritagliarsi la sua fetta anche in campo avverso, stringendo rapporti con una Russia verso la quale l’imperialismo italiano, pur aderendo alle campagne di guerra della Nato, usa sempre opportunistici guanti di velluto. Ma è chiaro d’altra parte che con il gasdotto Tap, l’imperialismo italiano e dunque i monopolisti del cane a sei zampe, puntano ad esercitare un ruolo di punta per l’intera Ue, addirittura alternativo alla Germania. Va detto che il valore strategico del Tap quale fattore di emancipazione europea dal gas russo rischia comunque di essere messo in discussione proprio dall’intesa russo-turca sul Turkish Stream e dall’imprevedibilità di Erdogan, sempre più ostile all’Ue. Cosa succederebbe, infatti, se Ankara decidesse di allacciare il gasdotto Turkish Stream alla linea Tap verso l’Italia, nel caso, in cui, ad esempio, il South Stream balcanico fosse definitivamente affossato? Si tratterebbe, ovviamente, di un pesantissimo smacco per l’Ue, che si ritroverebbe ancor di più accerchiata dalla potenza energetica russa a causa di un progetto ideato per sottrarvisi.
Alla partita poi si aggiunge progetto EastMed, uno o più tubi per portare le risorse di gas dell’est Mediterraneo in Europa, attraverso Cipro e Grecia. Il progetto è stato argomento del vertice tenutosi a Roma i primi di marzo tra il ministro dello sviluppo economico Calenda e il suo omologo israeliano. La volontà da parte sionista di lanciare il progetto dell’hub del gas del Mediterraneo dimostra cambio di passo nella strategia di Tel Aviv, che mira ad accaparrarsi un ruolo da protagonista, a spese ovviamente dei palestinesi a cui vengono rapinati anche i giacimenti di gas al largo di Gaza, nella partita mediterranea dell’energia, in competizione con l’Egitto, detentore del super giacimento Zohr. Ma anche il Libano reclama la sua parte della torta, tanto che lo scorso gennaio il ministro dell’energia e delle risorse idriche libanese ha annunciato l’approvazione di due decreti per lo sfruttamento delle risorse energetiche specificando rispetto alle risorse contese con Tel Aviv di essere disposto a utilizzare tutti i mezzi a disposizione per difendere i propri diritti sulle risorse. E il fattore del gas naturale non poteva mancare nell’ultimo fronte caldo apertosi in Medio Oriente, quello tra Arabia Saudita e Qatar. La base reale, sul piano economico, delle accuse saudite all’emirato di intelligenza col nemico iraniano è infatti quella dello sfruttamento congiunto, da parte di Doha e Teheran, del più ricco giacimento sottomarino di gas del pianeta, quello del North Dome/South Pars, nel Golfo Persico.
All’interno dell’intricato quadro delineato, l’Italia ha un ruolo sempre più centrale: tendendo a farsi più difficoltose, con lo sviluppo delle contraddizioni interimperialiste, le vie del gas nell’est Europa, traballando persino quelle settentrionali e visto, infine, il caos libico, il gas dovrà sempre più passare per la porta mediterranea orientale e il Tap va propriamente in tal senso”. [3]
Se questi sono i progetti e le contraddizioni del capitale riguardo al progetto Tap, esso deve fare i conti anche con gli interessi delle masse popolari del Salento che si sono mobilitate con forza per opporvisi.
Cerchiamo ora di capire a che punto è la lotta con delle domande a un compagno che partecipa a questa lotta.
D- Ci puoi dire se e come il movimento di lotta/resistenza in corso sta trasformando lo stato presente delle cose?
R- La lotta contro Tap pur avendo riscontrato, da marzo dell’anno scorso ad oggi, momenti diversificati di partecipazione a volte di massa, a volte di ristrette avanguardie, non ha mai chiuso per ferie, nemmeno durante la stagione estiva. Ed ha veramente trasformato la situazione ed i rapporti tra la popolazione.
Spesso, quando talvolta iniziava a serpeggiare lo scoramento, c’era sempre chi incoraggiava infondendo ottimismo e speranza. Ma era soprattutto la partecipazione popolare della gente di Melendugno che, quando iniziava a serpeggiare l’amarezza per il procedere dei lavori, d’un tratto prendeva voce occupando spazi e dicendo la sua. Sì, è proprio così. Qui si lotta tutti insieme, uniti, e quando il nemico avanza si cerca in tutti i modi di fermarlo.
E non è mai passata, veramente, la distinzione fra buoni e cattivi. Qua siamo tutti e tutte dentro al Movimento No Tap, dai rappresentanti istituzionali ai compagni più radicali dell’area antagonista. Ma il progetto Tap, supportato dallo Stato e dai suoi strumenti repressivi, ultimamente, ha segnato qualche punto a suo vantaggio. Sono, infatti, proseguiti i lavori, anche se si è cercato di rallentarli per quanto è stato possibile ed i compagni e le compagne di lotta sono stati/e bravissimi/e. Nonostante la repressione: le denunce e i fogli di via ormai non si contano, non era mai successo, da noi. Ma non abbiamo desistito, non abbiamo gettato la spugna né la getteremo mai!
Questo, dunque, il quadro della situazione: da un lato la volontà di Tap e dello Stato di portare a buon fine i lavori del mafiodotto e, dall’altro, la resistenza contro quest’opera costosissima, inutile per noi, “strategica” solo per gli interessi del capitale. Pericolosa, messaggera di morte per la deturpazione del paesaggio, della fauna e della flora palustre nonché della flora sottostante ai fondali marittimi di San Foca. E per deturpazione del paesaggio intendo anche la trasformazione dei nostri territori sempre più militarizzati: recinzione con reti metalliche altissime del “cantiere”, munite di videocamere, presenza costante armata degli uomini della sicurezza privata “Alma Roma” nonché di cellulari di polizia e carabinieri a protezione del ”lavoro sporco” all’interno del “cantiere”; posti di blocco dei carabinieri, della polizia, della guardia di finanza, ovunque nel territorio di Melendugno; auto civetta che sfrecciano velocissime a scorta di camion e di betoniere che pretendono di lavorare anche di notte, nonostante questo non sia previsto dalle autorizzazioni rilasciate dal ministero né da eventuali deroghe del comune. Ma a questa immagine del potere fa da contrappasso un’altra, quella della lotta. Le nostre auto non temono i posti di blocco e sono loro ad essere circondati fin quando non li cacceremo via. Né temiamo più i fogli di via o le denunce: forse prima ma, oggi, non più. Siamo i difensori della nostra terra e da questa battaglia ne usciremo a testa alta.
Se da una parte Tap, lo Stato, il potere dimostrano di essere tutt’uno, dall’altra ci hanno fatto un bel regalo: ci hanno permesso di aggregarci, di organizzarci, cementando le file della solidarietà!
E non è un caso che anche alcuni sindaci della zona non ci abbiano mai lasciati soli, di sicuro non lo hanno fatto per motivi elettorali. Nessuno di loro si è candidato nella prossima tornata elettorale nonostante corteggiamenti vari.
Da un lato, quindi, gli interessi del capitale, delle multinazionali, della borghesia imperialista, dall’altro gli interessi di una popolazione che difendendo sé stessa difende i diritti di tutti e sempre di più prende coscienza dell’importante ruolo che, assieme ad altri movimenti in Italia e non solo, sta giocando contro le politiche imperialiste di massacro dei popoli e di sfruttamento delle risorse del pianeta
D- Qul’è la composizione di classe della lotta, quale classe è maggioritaria e/o dirige la resistenza?
R- Sono soprattutto i giovani, i disoccupati, le lavoratrici ed i lavoratori precari nelle marine di San Foca durante i mesi estivi che, assieme a laureati ed insegnanti, sono in prima fila, le avanguardie della lotta. Unitamente – e giammai in seconda fila – alle “mamme No Tap” ed a non pochi gestori di esercizi di ristorazione balneare, sempre più decisi e determinati nel vincere questa battaglia. A questo proposito va citato lo sciopero generale tenutosi a Melendugno nel dicembre scorso che ha visto tutto il paese completamente chiuso. “La nostra dignità non ha bisogno di un territorio militarizzato a servizio di Tap” stava scritto sui manifesti, con riferimento alla creazione di una vasta “zona rossa” attorno al cantiere Tap, nella quale è inibito transito e accesso a chiunque, esclusi i proprietari di abitazioni e terreni con pass forniti dalla prefettura di Lecce. Allo sciopero di Melendugno hanno partecipato anche gli studenti delle scuole del paese, negozianti, dipendenti di vari uffici, amministratori, commercianti e cittadini dei paesi limitrofi.
Questa lotta è una battaglia innanzitutto di civiltà, di rispetto dell’ambiente, di difesa degli interessi dei lavoratori della terra, di tutela degli abitanti, di lotta contro la mafia, di controinformazione sugli intrallazzi famigliari fra Erdogan e Tap, di solidarietà con la lotta dei curdi contro la politica criminale del governo turco e dei suoi alleati, di solidarietà militante con i perseguitati politici nell’Azerbajan che collabora con l’Europa ed ha fatto pressioni – anche illegittime – sulle istituzioni europee con lo scopo di sbloccare gli ultimi prestiti per la realizzazione del Tap. [4]
Quanti passi ha fatto questa lotta! Lotta che dura da 6 anni e che, per i primi cinque, ha visto soltanto, caparbio più di un mulo, un pugno di uomini e donne. Grazie ai compagni per la battaglia che hanno iniziato, per quanto hanno saputo donare, per le lacrime amare inghiottite, per tutti gli insegnamenti. Oggi quei compagni non sono più soli, sono tanti i giovani, anche giovanissimi che, pur quindicenni, sono già identificati e portati in questura, ma restano comunque sempre in mezzo a noi. È loro il futuro, ma è un nostro dovere trasmettere gli insegnamenti che vengono dal passato. Importante farli crescere e non prevaricare e imparare a decidere collettivamente per rafforzare la nostra unità. È questo il senso del Presidio La Peppina.
D- Quali sono le forme di lotta e organizzazione?
R- Il Presidio La Peppina può essere considerato una forma di lotta e assieme di organizzazione. Poi ci sono le assemblee pubbliche, i cortei non autorizzati, le manifestazioni, i presidi e i blocchi stradali. Le forme di lotta sono le più disparate e vanno da iniziative di boicottaggio dei lavori, compresi i danneggiamenti a camion e betoniere, alla violazione della zona rossa. Ci sono state molte forme di denuncia delle complicità delle ditte e contestazioni dei politici asserviti al progetto, fino alla contestazione di massa di Confindustria favorevole al gasdotto. Non sono mancate le mobilitazioni in solidarietà a coloro che per aver partecipato alla lotta sono finiti nelle maglie della repressione. Si può dire che il popolo salentino, in massa, non ne vuole sapere del Tap e la forza della sua lotta, nelle sue varie forme, si rispecchia anche nella assemblea dei sindaci che, nel dicembre scorso, ha formalizzato il suo no all’approdo del gasdotto. Questa decisione è stata trainata dai comuni nei quali la lotta è più forte che hanno espresso la contrarietà senza se e senza ma, sintetizzata nello slogan “né qui né altrove”. Sono i comuni di Melendugno, Vernole, Calimera, Martano.
D- Esiste a livello di coscienza e/o anche solo di informazione la consapevolezza che esiste un rapporto tra le opere e lo sviluppo attuale dell’imperialismo che è quello della tendenza alla guerra?
R- Come ho detto sopra, sempre di più sta crescendo la consapevolezza del rapporto che lega le grandi opere come Muos, Tav e Tap allo sviluppo dell’imperialismo ed alla sua inevitabile tendenza alla guerra.
Certo la maggior parte dei compagni e delle compagne di lotta del movimento No Tap non proviene da precedenti esperienze di lotta, ma ha buone gambe su cui marciare ed una volontà indistruttibile su cui poggiare i propri passi per battere il Tap e tutti i suoi servi.
Il Mobile User Objective System (Muos)
Il Muos (Mobile User Objective System) di Niscemi (Cl) è un sistema di telecomunicazioni satellitari Usa per trasmettere ordini e informazioni per azioni militari in qualsiasi parte del mondo.
Esso è descritto all’interno dell’Usaf Unmanned Aircraft Systems Flight Plan 2009-2047 (piano di volo dei velivoli senza pilota 2009-2047), un documento dell’aeronautica militare degli Usa che definisce gli obiettivi strategici e le linee guida da perseguire prossimi 30 anni. Le tappe programmate: il 2020 vedrà la progressiva sostituzione dei cacciabombardieri e degli intercettori con gli aerei senza pilota; nel 2030 i droni saranno teleguidati in sciame da un gruppo di tecnici militari; nel 2047 gli attacchi convenzionali, chimici, batteriologici e nucleari saranno decisi da sofisticati computer che riprodurranno artificialmente l’intelligenza umana.
La Sicilia farà da apripista a questo piano. Sigonella, con la sua stazione aerospaziale, è così candidata a divenire la capitale mondiale dei droni, i velivoli-spia “Global Hawk” e quelli di attacco missilistico “Predator” e “Reaper” che sono arrivati segretamente anni fa e già utilizzati per le azioni di guerra in Siria, Libia, Corno d’Africa, Uganda, Mali, Congo, Yemen, Iraq, Afghanistan, Pakistan e anche contro coloro che attraversano il Mediterraneo per sfuggire alle guerre imperialiste, al caos e alla miseria.
A Niscemi, al centro di una riserva naturale, è ufficialmente operativo, da fine 2016, uno dei quattro terminali terrestri, a livello mondiale, di telecomunicazioni satellitari Usa per trasmettere ordini e informazioni per operazioni militari ai caccia, a unità navali, a sottomarini, ma soprattutto a droni.
Il terminale Muos di Niscemi è composto da tre antenne paraboliche dal diametro di 18,4 metri per le trasmissioni verso i satelliti geostazionari e due trasmettitori elicoidali in banda Uhf (Ultra High Frequency), di 149 metri d’altezza, per il posizionamento geografico. Mentre le maxi-antenne trasmettono con frequenze che raggiungono valori compresi tra i 30 e i 31 GHz, i due trasmettitori elicoidali avranno una frequenza tra i 240 e i 315 MHz. Onde elettromagnetiche che penetrano la ionosfera e i tessuti di ogni essere vivente. Tali antenne si aggiungono a quelle precedentemente localizzate nel sito militare, ovvero le Naval Radio Transmitter Facility (Nrtf) specificatamente rivolte alla comunicazione con i mezzi navali.
“Con la realizzazione delle nuove antenne si verificherà un incremento medio dell’intensità del campo in prossimità delle abitazioni più vicine pari a qualche volt per metro rispetto al livello esistente, con un incremento del campo nettamente superiore” – “C’è poi il rischio di effetti acuti legati all’esposizione diretta al fascio emesso dalle parabole in seguito a malfunzionamento o a un errore di puntamento. In questi casi verrebbero provocati danni gravi e permanenti alle persone accidentalmente esposte a distanze inferiori ai 20 Km, con necrosi dei tessuti colpiti. Ma le persone irraggiate accidentalmente potrebbero subire danni gravi e irreversibili anche per brevi esposizioni”. Queste sono le conclusioni alle quali sono giunti il professore Massimo Zucchetti, ordinario di Impianti nucleari del Politecnico di Torino e dal dottore Massimo Coraddu, consulente esterno del dipartimento di Energetica del Politecnico in una “analisi dei rischi” del sistema satellitare Usa.
Le onde elettromagnetiche avranno pericolosissimi effetti pure sul traffico aereo nei cieli siciliani e in particolare sul vicino aeroporto di Comiso.
Il Muos ha già prodotto danni irreversibili all’ambiente e al territorio con il cantiere aperto all’interno
della riserva che ha causato la devastazione di un’intera collina e della macchia mediterranea, deturpando irrimediabilmente il paesaggio. [5]
Anche contro il Muos si è sviluppato un forte movimento di opposizione nel territorio. Anche a uno dei protagonisti di questa lotta abbiamo rivolto gli stessi quesiti posti ai No Tap.
D- Ci puoi dire se e come il movimento di lotta/resistenza in corso sta trasformando lo stato presente delle cose?
R- La battaglia No Muos ha avuto un impatto forte sulla società niscemese, “abituata” a subire processi di sfruttamento e di costrizione alla miseria rimanendo silente. Segnale forte di questa trasformazione è stato il protagonismo delle donne che si è espresso attraverso le Mamme No Muos. C’è da dire che quando le donne si mobilitano danno una caratteristica significativa al cambiamento dei rapporti sociali attuali, dentro ai quali sono sottoposte ad una doppia oppressione, quella capitalista e quella patriarcale.
D- Qul’è la composizione di classe della lotta, quale classe è maggioritaria e/o dirige la resistenza?
R- Prima che il movimento si strutturasse, prima che si organizzasse l’opposizione alle parabole, una grande manifestazione di 5 mila persone si è svolta a Niscemi, totalmente organizzata dal paese.
I pericoli per la salute sono stati il “motore” da cui si è innescato il movimento ed è stata coinvolta l’intera popolazione, soprattutto gli studenti delle scuole superiori. La forte opposizione al progetto ha spinto successivamente sia il governo regionale siciliano, sia il comune di Niscemi e di altri paesi limitrofi a dichiararsi contro la costruzione del Muos.
Un altro momento importante da sottolineare è stato lo sciopero autorganizzato svolto il 31 Maggio 2013 a Niscemi. Agricoltori in piazza con i trattori, la quasi totalità degli esercizi commerciali con le saracinesche abbassate e una presenza in piazza di più di 3 mila persone danno il senso del coinvolgimento della città alla lotta; inoltre quella manifestazione pose per la prima volta la contraddizione tra la mancanza di lavoro e di servizi e lo spreco di denaro e territorio della base americana. Basti pensare alla mancanza d’acqua cronica in paese e lo spreco che se ne fa alla base, i cui consumi basterebbero per poter approvvigionare due paesi grandi come Niscemi.
D- Quali sono le forme di lotta e organizzazione?
R- È importante sottolineare due aspetti che ha assunto la lotta No Muos. Il primo è quello dei blocchi stradali attuati dalle “sentinelle No Muos”. Diversi compagni sparsi nel territorio attorno Niscemi, segnalavano la presenza di camion sospetti, atti a trasportare il materiale per la costruzione delle parabole.
Non appena venivano segnalati, immediatamente si attuava un blocco delle strade che portavano alla base. Blocco che coinvolgeva l’intera popolazione organizzata in turni. È stato un sistema molto efficace che ha ritardato di mesi i lavori di costruzione, ha segnato un salto in avanti nella crescita organizzativa e politica del movimento, tant’è che è stato represso duramente. Le forze dell’ordine non si sono fatte scrupoli a caricare e spazzare via i blocchi e per dissuadere la popolazione dal parteciparvi, intere famiglie niscemesi sono state condannate al pagamento di sanzioni amministrative salatissime, insostenibili economicamente!
Il secondo aspetto è quello della capacità di violare ripetutamente la base Usa. Gruppi di compagni sono entrati diverse volte all’interno della base e si è arrivati a salire sopra la parabola del Muos
danneggiandola. Per altre due volte le antenne Nrtf della base, che servono per comunicare con i mezzi militari in tutto il Mediterraneo, sono state occupate, costringendo la marina Usa a disattivarle. Si è riusciti a sabotare di fatto la guerra imperialista. Nel 2013 e di nuovo nel 2014 ci sono state due grandi invasioni di massa della base, dopo duri scontri con la polizia, grazie alle quali abbiamo sottratto alla morsa sbirresca i compagni che nottetempo avevano occupato le antenne. Violare in massa lo spazio occupato da basi statunitensi è fatto inedito nella storia del movimento contro la guerra imperialista nel nostro paese.
Le forme organizzative principali della mobilitazione sono state due. Il coordinamento dei comitati No Muos è la prima. Questi comitati hanno un lavoro continuo sul territorio, diventando di fatto punto di riferimento, discussione e organizzazione nelle piccole realtà locali, per le lotte e le mobilitazioni oltre il Muos.
La seconda è il movimento No Muos che raccoglie le strutture organizzate siciliane, centri sociali, collettivi, sindacati di base e la parte più giovane degli attivisti. Il Movimento ha avuto un ruolo di avanguardia pratica e politica. Ha spinto il dibattito e fatto maturare alcuni passaggi politici. Quelli più importanti sono legati alle tematiche dell’antimilitarismo prima, e poi dell’antimperialismo e della necessità di praticare solidarietà alla resistenza dei popoli in lotta.
D- Esiste a livello di coscienza e/o anche solo di informazione la consapevolezza che esiste un rapporto tra le opere e lo sviluppo attuale dell’imperialismo che è quello della tendenza alla guerra?
R- Per la caratteristica propria del Muos, un sistema di telecomunicazioni satellitare per operazioni militari, il tema della guerra ha avuto facile residenza nel movimento tenendo conto anche della storica subordinazione della Sicilia ai dettami militari Usa, alla cui presenza si sono opposte già nel nel passato grandi mobilitazioni come quella contro la base Nato di Comiso. In Sicilia ha inoltre sede l’aeroporto miltare Cosimo Di Palma di Sigonella dove ha sede il 41° Stormo AntiSom e l’11º Reparto Manutenzione Velivoli dell’Areonautica militare italiana. Ospita, inoltre, la Naval Air Station Sigonella (abbreviata in NAS Sigonella o NASSIG) dell’aviazione di marina statunitense. La base è utilizzata anche per operazioni della Nato.
Questo tipo di coscienza si è sviluppata nel tempo. Dapprima il movimento No Muos era un classico esempio di protesta “non nel mio giardino”. La partecipazione era legata ai rischi per la salute. Considerate che già esistevano degli studi sulle conseguenze che le quarantasei antenne Nrtf presenti nella base, provocavano.
Ci sono stati dei passaggi che hanno portato dapprima ad appoggiare la tematica dell’antimilitarismo.
Questo grazie al rapporto con i comitati che si battevano contro le altre installazioni militari in Sicilia e in Italia, come i No Dal Molin o i comitati sardi, e i rapporti con i compagni che storicamente erano stati in prima linea, già negli anni ‘80, contro i missili Cruise a Comiso.
All’antimilitarismo poi, si è affiancato l’antimperialismo attraverso due passaggi che il movimento ha compiuto: il primo, quando gli Usa fecero ventilare l’ipotesi che avrebbero spostato il Muos in Tunisia. Appena si è saputo che anche lì c’erano dei movimenti di protesta, le mamme No Muos, dall’inizio della lotta una delle colonne portanti del movimento, scrissero una lettera ai movimenti tunisini in cui dichiaravano che la loro battaglia continuava poiché pensavano che il Muos non dovesse essere costruito da nessuna parte in quanto strumento di guerra, morte e distruzione. Da quel momento il movimento ha maturato la parola d’ordine dell’antimperialismo e della solidarietà alla resistenza dei popoli oppressi: dalla Palestina al Kurdistan fino all’Ucraina.
La scorsa estate il tema del campeggio di lotta, la cui responsabilità era affidata ai compagni giovani, è stato come cambiavano scuola, università e mondo del lavoro con l’avanzare della tendenza alla guerra. Inoltre abbiamo sempre più cercato di mettere in relazione il costo della guerra con il peggioramento della qualità della vita dei proletari, un’equazione facilmente comprensibile e ovvia: se aumentano le spese per fare la guerra, diminuiscono le spese per fare gli ospedali, le scuole o per le pensioni.
Poligoni e servitù militari in Sardegna
Come la Sicilia anche la Sardegna è una terra di occupazione militare: i numeri parlano chiaro. È il territorio con la più alta densità di servitù militari in Europa.
Nell’isola sono oltre 35 mila gli ettari di territorio sotto vincolo di servitù militare. In occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e alla sosta, uno specchio di mare di oltre 20 mila chilometri quadrati, una superficie quasi pari all’estensione dell’intera Sardegna. Sull’isola ci sono poligoni missilistici (Perdasdefogu), per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada), poligoni per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburanti, nel cuore di Cagliari, alimentati da una condotta che attraversa la città, oltre a numerose caserme e sedi di comandi militari (di esercito, aeronautica e marina). Si tratta di strutture e infrastrutture al servizio delle forze armate italiane o della Nato. Il poligono del Salto di Quirra-Perdasdefogu di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per estensione, mentre il poligono Nato di Capo Frasca ne occupa oltre 1.400. [6]
Anche a un compagno sardo rivolgiamo le domande già poste agli altri intervistati.
D- Ci puoi dire se e come il movimento di lotta/resistenza in corso sta trasformando lo stato presente delle cose?
R- Di fatto, dal rilancio in scala apprezzabile di questa lotta avvenuto nel 2014, lo stato delle cose non è stato modificato dal punto di vista materiale, mentre sono innegabili i progressi politici in termini di lavoro per il radicamento popolare delle nostre ragioni.
Un risultato tangibile, riconducibile alla lotta contro la militarizzazione in corso, è stato raggiunto intorno al 2010, quando la mobilitazione contro l’installazione sulle coste di undici radar militari di fabbricazione israeliana, presentati come strumenti di controllo dell’immigrazione clandestina, ha ottenuto, in concorrenza con altri fattori, la desistenza del governo dal progetto. Quanto all’attualità, non un metro quadrato di servitù militare è stato dismesso. Si è inoltre registrata la recente inaugurazione della caserma dell’esercito di Pratosardo a Nuoro, a cui sarà destinato un reggimento della Brigata Sassari appositamente costituito. Lo Stato e le sue articolazioni locali, dalla regione alle amministrazioni comunali, con tronfia arroganza non hanno fatto mistero di intendere questo presidio come strumento di controllo del territorio e punto di riferimento della propria “legalità”. E la prospettata chiusura dell’aeroporto militare di Decimomannu, struttura in gestione all’aeronautica militare dopo l’abbandono della Luftwaffe tedesca, non ha mai avuto luogo vista l’importanza che questa struttura riveste nello scacchiere Nato. Questi passaggi, insieme alla sconfessione netta e a tratti derisoria (nonostante i contenuti sconvolgenti della relazione finale) del lavoro della commissione parlamentare sull’uranio impoverito, presieduta dal senatore Pd Scanu, hanno dimostrato il carattere fuorviante e farsesco della via istituzionale. Si è così rivelata la panzana del ridimensionamento della presenza militare in Sardegna sulla base di una negoziazione con il governo e la difesa mediata da forze politiche.
È definitivamente tramontata ogni velleità di affrontare il problema senza conflitto.
Anche le eventuali posizioni di critica alla presenza militare prese da singole amministrazioni comunali, per ora non pervenute, dovranno prendere atto di queste circostanze, o essere sconfessate. Per il momento, invece, fanno sentire la propria voce solo le municipalità schierate con gli occupanti (Decimoputzu, Nuoro, etc.) La battaglia diventa netta: o cacciata degli occupanti, o sconfitta.
Rispetto al periodo 2014-2016, quando il movimento aveva sviluppato la capacità di fermare o mettere in difficoltà l’attività addestrativa nei poligoni, oggi c’è una fase di risacca, ma non di ripiegamento.
D- Qul’è la composizione di classe della lotta, quale classe è maggioritaria e/o dirige la resistenza?
R- Non abbiamo mai proceduto ad una autoanalisi puntuale sulla composizione di classe dei militanti che partecipano alla lotta, né ad un’operazione di questo tipo sulla composizione di classe sarda. Proverò a dire alcune cose.
Quanto al primo ambito, se superficialmente si potrebbe riscontrare una partecipazione interclassista, ad uno sguardo più attento si può affermare che quasi tutti i militanti attivi appartengono alle classi subalterne: lavoratori salariati, studenti e studenti/lavoratori, precari, dipendenti pubblici (non di vertice né quadri), piccoli produttori, disoccupati e pensionati.
Dal punto di vista soggettivo sono presenti componenti che portano avanti un punto di vista di classe mentre altre si approcciano alla lotta con concezioni pacifiste/antimilitariste, interclassiste, ambientaliste, altre democratiche imperniate su rivendicazioni “civili”. Per ora si è raggiunta una certa coesione basata su alcuni punti fermi, con il reciproco riconoscimento e non-condanna delle forme di lotta praticate da ciascuna componente.
La borghesia sarda, frazione subalterna sia a quella italiana che ai grandi capitali monopolistici, resta legata e ancorata materialmente agli interessi dei suoi referenti e, dal punto di vista politico, ciò si traduce nell’adesione, senza tentennamenti, all’ideologia securitaria e militarista dello Stato borghese in questa fase. Ciò nonostante le ricadute della presenza militare in campo economico siano risibili per la borghesia locale. Specie nelle aree circostanti ai tre grandi poligoni del sud Sardegna l’effetto sull’economia si è dimostrato, nei decenni, fortemente depressivo. Non solo le basi hanno ostacolato o bloccato lo sviluppo di ogni altra attività economica (agricoltura e pastorizia in primis, ma anche il turismo, attività di privilegiato ripiego per la borghesia locale in mancanza di produzioni industriali o di altro tipo), ma hanno provocato un netto spopolamento e una costante crisi demografica, come gli studi portati avanti dal movimento hanno evidenziato.In sostanza, la presenza massiccia dell’apparato militare tende all’esclusiva. Vengono del tutto compressi gli interessi della popolazione, colpendo naturalmente più pesantemente le classi che hanno una posizione di partenza già svantaggiata: i salariati. Appare dunque evidente l’influsso sulla composizione di classe dei territori. Fra chi resta, la possibilità di avere “voce in capitolo” è quella parte di popolazione, fortemente minoritaria, che trae dalla presenza militare una qualche forma di sussistenza o di elemosina. Oltre all’emigrazione dovuta al deserto economico provocato dalle basi non è trascurabile l’impatto sulla salute, anche in termini di decessi, delle nocività prodotte dall’attività militare. Questo, è innegabile, tocca particolarmente la sensibilità delle popolazioni poiché è un tema, che a differenza di altri, percepiti lontani dalla propria realtà, riguarda e colpisce tutti, militari compresi. Lo Stato non ignora questa dinamica e mette in campo costantemente, con dispendio di fondi e profusione di disinformazione e propaganda, un’attività di contrasto dei tentativi di formare coscienza del problema. E, aldilà della questione delle basi, è importante un’analisi della composizione di classe sarda poiché questa lotta, e altri focolai concreti sul territorio, vanno collocati all’interno di un lavoro che metta in discussione lo stato di cose esistente: il modo di produzione capitalistico con le basi e lo Stato che lo garantiscono.
In Sardegna i lavoratori della grande industria sono una minoranza, destinata a ridursi ancora o a scomparire nella divisione internazionale del lavoro e delle risorse. Questo, per lo meno, finché la Sardegna non avrà una propria industria, basata su nostre materie prime e destinata a soddisfare i nostri bisogni. Per gli imperialisti e per la borghesia, compresa quella locale, non c’è alcun interesse in tal senso per cui tutto questo potrebbe realizzarsi solo tramite il socialismo. Nel frattempo, ogni causa che viene portata avanti, inclusa quella contro l’occupazione militare, non può che costruire il proprio radicamento tramite la formazione della coscienza all’interno delle classi subalterne, delle quali oggettivamente gli operai industriali rimasti fanno parte. All’attivo il nostro movimento ha già la partecipazione di una rappresentanza storica dei minatori, e degli esponenti del sindacalismo di base. Su altri fronti il lavoro risulta più complicato dal lungo lavoro di addomesticamento e di allineamento agli interessi padronali di alcuni nuclei di operai grazie all’ultradecennale abbandono del campo della lotta da parte delle forze politiche e sindacali tradizionalmente referenti dei lavoratori. Esempio di questo è l’estrema refrattarietà ad ogni opera si sensibilizzazione di maestranze operaie, come quelle della fabbrica tedesca di bombe d’aereo Rwm.
Prospettive più interessanti possono aprirsi nei rapporti con il mondo agro-pastorale, tradizionalmente conservatore, ma fortemente colpito sia dall’occupazione militare sia dalle politiche promosse da altre strutture imperialiste a iniziare dalla Ue e dalle sue politiche agricole. Si tratta di un lavoro che non ha ancora avuto inizio, ma che potrebbe essere favorito dal crescente odio dei singoli lavoratori verso le autorità asservite ai grandi proprietari di terra e caseifici. Se il movimento contro le basi non farà propria una battaglia contro le politiche della Ue, oltre che contro la Nato e le basi italiane, non si potrà rafforzare perché il solo problema militare e repressivo non è immediatamente percepito da questi settori di classe come attinente alla vita quotidiana.
D- Quali sono le forme di lotta e organizzazione?
R- La forma principale è quella assembleare nella quale ci sono componenti diverse e c’è libertà di azione ai militanti singoli e alle varie componenti organizzate che prendono parte alle assemblee. Questo per far sì che le forme organizzative presenti siano più efficienti e produttive possibili favorendo, rafforzando e aiutando materialmente le componenti più avanzate che si muovono al suo interno o “ai lati”.
Quanto alle forme di lotta, nonostante i diversi punti di vista, tutte sono praticabili e praticate con esclusione del compromesso con le istituzioni responsabili del problema. Al di là della questione ideologica si è constatato che questo sentiero, già battuto, è senza uscita.
Dal 2014 la pratica dell’azione diretta alle strutture e del disturbo o interruzione delle attività militari si è dimostrata efficace. Rispetto al periodo 2014-2016, quando il movimento aveva sviluppato la capacità di fermare o mettere in difficoltà l’attività addestrativa nei poligoni, oggi c’è una fase di risacca, ma non di ripiegamento.
Oltre alla repressione, con un numero rilevantissimo di procedimenti penali per reati di piazza, con diffide e fogli di via e con vere intimidazioni extralegali contro i militanti (specie in territorio ogliastrino, nelle perquisizioni sono stati sequestrati i calendari delle esercitazioni), anche l’irrigidimento della burocrazia militare, che ha scelto di ignorare e delegittimare uno strumento istituzionale come il Comitato paritetico, ha rappresentato senz’altro un ostacolo all’organizzazione della lotta. Infatti, la secretazione del calendario delle attività nei poligoni ha reso più difficile organizzare attività di lotta e disturbo delle stesse. Questo ha messo a nudo la nostra incapacità ad avere informazioni e ciò deriva dagli scarsi rapporti con chi abita nelle immediate vicinanze dei poligoni indispensabile per non aver bisogno di ricorrere ai documenti ufficiali. È per questo, ad esempio, che la mobilitazione del 28 aprile 2017 a Quirra ha avuto scarsi risultati.
In poche parole, sulla pratica del taglio delle reti e dell’invasione dei poligoni in occasione di manifestazioni di massa annunciate pubblicamente, le forze repressive hanno preso le contromisure approfittando dei nostri punti deboli. Ciò non vuol dire che questa pratica sia fallita o che non sia più possibile: tutt’altro. Non fosse per altra ragione che al di fuori di questa cornice, il sabotaggio e i tagli di reti sono proseguiti, tramite l’azione di avanguardie soggettive. È positivo che si stia prendendo atto di tutto ciò.
Il 2018 sarà dedicato principalmente a un’opera di costruzione delle forze, per essere nuovamente in grado, in futuro, di operare in modo incisivo dal punto di vista dell’azione diretta, ma con la condicio sine qua non dell’appoggio popolare. La rete “no basi né qui né altrove” ha cessato di esistere come realtà organica, ma nessuno dei suoi partecipanti ha tirato i remi in barca. Rimane, come forza organizzata, l’assemblea “A Foras”.
Ma nell’anno in corso, causa la non conoscenza delle date delle esercitazioni e con poca capacità di mobilitazione, il grosso dell’attività sarà concentrato più sul politico: produzione di documentazione, studi e dossier, organizzazione di assemblee nei paesi, volantinaggi, ingresso nelle scuole e nelle università, e altro. Perché la lotta contro l’occupazione militare in Sardegna sia preservata quanto più possibile dai consueti danni dovuti all’alternanza delle fasi di avanzamento e riflusso e dalle conseguenze disgreganti di singole battute d’arresto, tutto il movimento in questo momento sta tentando di attrezzarsi degli strumenti politici che lo consentano.
Ad aprile è prevista un’iniziativa di due giorni sulla Rwm. Per il 2 giugno, ricorrenza della formazione dell’assemblea “A Foras”, è prevista l’organizzazione di un corteo, e probabilmente in autunno si terrà per la terza volta un campeggio politico. L’assenza di intervento diretto e minimamente incisivo sulle strutture fisiche dell’occupazione è un rischio e, se si protrarrà, può diventare politicamente pericolosa per il movimento. Il superamento di questo limite lo potrà sancire solo il risultato buoni del lavoro politico di quest’anno.
D- Esiste a livello di coscienza e/o anche solo di informazione la consapevolezza che esiste un rapporto tra le opere e lo sviluppo attuale dell’imperialismo che è quello della tendenza alla guerra? Come secondo te/voi questa coscienza può essere sviluppata?
R- Questo livello di coscienza esiste senz’altro in seno agli organismi e ai singoli militanti che lottano contro l’occupazione militare mentre sul tessuto sociale lo è in misura crescente, ma ancora scarsa. Ciò non ha impedito lo sviluppo di potenzialità: nel 2014, prima che l’incendio provocato da un bombardamento tedesco nel poligono di Capo Frasca incendiasse anche gli animi, la mobilitazione era montata insieme alle notizie dell’ennesimo attacco genocida dell’entità sionista contro la striscia di Gaza. L’obbiettivo è che questa coscienza si estenda e si è andata rafforzando senza ancora divenire un punto cardine.
Fra i primi a cogliere la portata della nostra causa vi sono stati gli internazionalisti inquadrati nella Resistenza delle repubbliche del Donbass che, nel 2016, hanno rivolto alla Sardegna un comunicato di sostegno. Una delle modalità per ottenere risultati è il lavoro di agitazione, sensibilizzazione e documentazione a cui ho accennato sopra e che ci impegnerà nei prossimi mesi. Importanti però sono i contenuti e la capacità di evidenziare il legame fra particolari questioni e gli interessi degli oppressi, sia “spiccioli” che generali, strategici, appartenenti a tutta la classe. Se ci sono problematiche che riguardano tutti in maniera interclassista, dobbiamo renderci conto che non sono molte e che, nel dispiegare in propri effetti, esse differiscono a seconda dell’appartenenza di classe. Devono avere priorità le questioni che riguardano i proletari, bisogna porsi in una prospettiva di ribaltamento dei termini di approccio: non è il movimento contro l’occupazione militare che si deve occupare di lotta di classe a tutto tondo, dovrà essere la lotta di classe, organizzata con gli strumenti e le forme organizzative che la classe lavoratrice ha elaborato nella storia, a ricomprendere la lotta contro le basi, contro la Nato e l’imperialismo, dovunque esso sia. Senza questa prospettiva, e nell’estrema debolezza delle classi oppresse dovuta al non riconoscimento in sé di un corpo sociale portatore di interessi e obbiettivi storici propri, ogni istanza diviene manipolabile e pericolosamente suscettibile di essere orientata in senso reazionario. Questa tendenza va combattuta ricostruendo la coscienza e soprattutto la forza e l’organizzazione del proletariato, tramite un lungo lavoro politico/pratico. Senza coscienza della propria classe è impossibile la diffusione del sentimento di internazionalismo e le guerre in corso sono percepite come lontane dal proprio vissuto e manipolate dall’informazione borghese. Contrastare questo stato di cose non è impossibile. Sta a dimostrarlo la stessa censura, che interviene puntuale quando la controinformazione su un evento o un processo qualsiasi nel mondo comincia ad avere una diffusione e una rilevanza non accettabile. Va ricordato che alcuni settori della classe sono stati cooptati agli interessi degli oppressori e, al momento, non li si può considerare che nemici di classe, malgrado la collocazione sociale oggettiva.
Conclusioni
Con questo articolo abbiamo cercato di svolgere un lavoro di inchiesta per trarre insegnamenti che tornino utili ai comunisti per contribuire allo sviluppo di elementi di analisi e riflessione indispensabili per applicare nella questione specifica, il rapporto tra territorio/ambiente e l’opposizione alla guerra imperialista, la linea generale strategica secondo noi corretta e cioè “trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria”.
Nel caso in questione potrebbe essere declinata come linea particolare, articolata nei territori, di “intervenire nelle lotte e nei movimenti generati dalle politiche attuali di guerra dell’imperialismo italiano e dei suoi alleati per costruire e raccogliere forze per la trasformazione rivoluzionaria”.
Senza questa visione, e un lavoro impostato in tal senso, difficilmente prevarrà nei movimenti una tendenza autenticamente antagonista (antitesi) lasciando spazio libero agli antidoti messi in campo dai lacchè dei capitalisti che serviranno solo a neutralizzare la forza delle lotte. L’affossamento da parte dei revisionisti e dei neorevisionisti della lotta contro la base di Vicenza rappresenta un monito per tutti.
Le domande fatte ai protagonisti dei movimenti giovano a riflettere, su basi concrete, su come progredire nella pratica sia per i comunisti che sono interni alle lotte sia per i comunisti che devono agire per rafforzarle e sostenerle.
I movimenti, come abbiamo visto, nascono dalle contraddizioni oggettive che le popolazioni vivono e si collocano oggettivamente contro la guerra imperialista, ma non ancora soggettivamente. Rischiano così di fermarsi al particolare delle contraddizioni territoriali. In questo modo sono esposti al riassorbimento da parte istituzionale che ne mina la forza spuntandone le armi e, al tempo stesso, la loro capacità propulsiva di dar vita ad un movimento generale contro l’imperialismo e il suo sistema.
Come fare? Sicuramente partendo dal positivo, valorizzando e facendo crescere nelle componenti proletarie la coscienza della loro forza come naturalmente antagonista al sistema e la necessità di organizzarla per poter vincere. Per fare questo è essenziale divulgare la memoria storica, l’informazione di parte sulle lotte e le resistenze attuali a livello internazionale e attuare una propaganda ed un’agitazione adeguate alle condizioni particolari e reali che nelle singole situazioni sono vissute.
Partire dunque dalla situazione specifica per andare al generale. In tutto questo un’attenzione particolare va dedicata alle donne proletarie che, come abbiamo visto, sono fra le componenti più determinate e combattive, perché quando scelgono la lotta devono combattere con più forza subendo in questa società una doppia oppressione, del capitale e del patriarcato.
Come comunisti, va sempre tenuto in memoria che ogni cosa che facciamo deve essere utile a superare l’insufficienza di avere una linea di intervento e un’organizzazione conseguente .
Note
[1] Vedi glossario.
[2] http://presidenza.governo.it/osservatorio_torino_lione/Verifica_esercizio/relazione_it.pdf
[3] http://www.tazebao.org/note-sulla-fase-politica-giugno-2017/
[5] Fonti consultate: http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/2012/11/deliri-di-morte.html e https://www.ilfarosulmondo.it/sicilia-sovranita/
[6] http://www.dire.it/21-12-2017/161548-basi-militari-60-sardegna-cosa-cambia-laccordo/