Antitesi n.05Glossario

Forze produttive e rapporti di produzione, Liberismo ed epigoni, Saggio del profitto

“Glossario” da Antitesi n.05 – pag.63


Forze produttive e rapporti di produzione

Per forze produttive si intendono:
1) gli individui che lavorano e costituiscono la forza-lavoro
2) i mezzi di produzione, ovvero tecniche e macchinari
3) le conoscenze tecniche e scientifiche
4) la materia impiegata nella produzione (materie prime, semi lavorati, condizioni ambientali…).

I rapporti di produzione sono dati dalle relazioni che si stabiliscono tra gli individui nella sfera della produzione, e trovano la loro espressione giuridica nei rapporti di proprietà: «… l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.» (da Marx, Per la critica dell’economia politica, 1859, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1859/criticaep/index.htm). Per Marx non sono le leggi, lo Stato, la cultura e la religione a determinare la struttura economica, ma questa a determinare quelli. Quindi, è nella dimensione della struttura che si sviluppa la contraddizione fondamentale che produce la storia. La contraddizione crescente tra lo sviluppo delle forze produttive in senso dinamico e rapporti di produzione statici è dunque la chiave di volta di tutta la concezione marxista della storia: il materialismo storico. Marx mostra che in ogni situazione storica, quando interviene un mutamento rilevante (per esempio: un progresso tecnico), si genera uno sviluppo delle forze produttive. Ma queste, ingabbiate nei vecchi rapporti di produzione, devono rimuovere l’ostacolo. Si entra così in una situazione di contraddizione reale: i vecchi rapporti tendono a negare le nuove forze produttive e le nuove forze produttive tendono a negare i vecchi rapporti. Dalla necessità del cambiamento emerge un momento di rivolgimento sociale e politico. Per il marxismo, il tipo di società che emerge dal conflitto è sempre superiore al precedente: le forme produttive più sviluppate sono il contrassegno di forme di esistenza individuale e sociale, nonché di sovrastrutture giuridiche e culturali progredite.

La contraddizione fondamentale nel capitalismo è dunque quella tra il carattere sociale e collettivo delle forze produttive (la produzione di massa, la potenziale diminuzione dei tempi di lavoro, la potenziale circolazione del sapere utile alla produzione…) e la natura privatistica dei rapporti di produzione, che formano un’oligarchia capitalistica sulla base della ricchezza sociale prodotta grazie alle forze produttive e fondamentalmente dal lavoro della classe operaia che ne è parte. È lo sfruttamento del lavoro di quest’ultima che determina l’accumulazione capitalistica fondata sull’appropriazione di plusvalore e pertanto solo tale classe può farsi incarnazione del moto liberatorio delle forze produttive contro i vecchi rapporti di produzione che rappresentano il dominio della grande borghesia capitalista.

Liberismo ed epigoni

Liberismo: va definito come l’ideologia del capitalismo nella sua fase classica, ovvero nel secolo diciannovesimo, riassumibile nella formula “laissez faire” ovvero “lasciate fare”, fondata cioè sulla tesi che il mercato potesse autonomamente svilupparsi e superare le proprie contraddizioni sul piano economico-sociale, senza l’intervento dello Stato e senza limitazioni che derivassero da altre forze (ad esempio la lotta economica del proletariato, che va ad incidere sul salario e dunque sul mercato della forza lavoro). Tale corrente ideologica ha progressivamente dimostrato la sua fallacia rispetto a tre fattori reali: l’evidenziarsi di crisi via via più gravi nell’economia capitalista, lo strutturarsi di quest’ultima sulla base dei monopoli (segnando così il passaggio alla fase imperialista) e l’incidere nei rapporti economici, sociali e politici della lotta di classe del proletariato.

Ordoliberismo: dalla crisi ideologica del liberalismo classico, sorse la teoria dell’ordoliberismo, ovvero della concezione, radicatasi in ambito germanico negli anni trenta, per cui il mercato può svilupparsi solo all’interno di un’ordine statuale regolamentativo, smentendo quindi la formula originaria del “lasciate fare”. Si tratta di una teoria che dovrebbe rimediare, attraverso una precisa cornice normativo-giuridica, alle contraddizioni economico-sociali del “libero mercato” capitalistico, negando il dato oggettivo che esse derivino da fattori intrinsechi e inevitabili, ma affermando invece che la loro fonte sia la degenerazione del “laissez faire” nel monopolio. L’ordoliberismo costituisce tuttora la concezione ispiratrice dell’Unione Europea, proprio perché funzionale a giustificare ideologicamente l’assetto dell’ordinamento comunitario nel quale devono aggregarsi, convivere e fondersi i diversi gruppi monopolistici dei singoli paesi che compongono l’Unione.

Neoliberismo: altro epigono del liberalismo è il neoliberismo, corrente ideologica sviluppatasi nel mondo anglosassone a partire dagli anni settanta del secolo scorso e divenuta sostanzialmente organica all’imperialismo Usa e alla sua influenza mondiale a partire dalla presidenza Reagan (1981-1989). Il neoliberismo ideologicamente rappresenta il ritorno al mito del “laissez faire” ed è la teoria che ha giustificato le politiche che le classi dominanti negli Usa e poi a livello mondiale hanno attuato per riacquisire margini di profittabilità del capitale nell’ambito del manifestarsi della crisi di sovrapproduzione capitalistica, a partire dai primi anni settanta. Tali politiche si sono concretizzate nella riduzione relativa dell’intervento statale sul piano economico, per lasciare campo al capitale privato, nella crescita e deregolamentazione del capitale finanziario, nella libera circolazione dei capitali e delle merci a livello globale (parte della cosiddetta “globalizzazione”) e sopratutto nella distruzione delle conquiste sociali dei lavoratori e delle masse popolari.

La perdurante crisi e lo sviluppo della tendenza alla guerra imperialista hanno portato, almeno in parte, all’erodersi dei miti del neoliberismo, primo fra tutti quello della libera circolazione delle merci e dei capitali a livello internazionale, con lo strutturarsi di politiche protezioniste e di guerra commerciale per la contesa dei mercati.

Keynesismo (vedi pp. 6 ss.), ordoliberismo e neoliberismo, aldilà delle loro concezioni ideologiche contrastanti, non vanno concepite come politiche attuate in termini assoluti dai singoli governi borghesi, i quali per giustificare la singola azione in campo economico-sociale, seguendo le necessità della classe dominante, ricorrono ora alla retorica del primo, ora a quella del secondo o del terzo. Possiamo dire che nel loro complesso appartengono al patrimonio della teoria economica della borghesia nella fase imperialista e dunque il loro essere sovrastrutture ideologiche del capitalismo contemporaneo le obbliga spesso a convivere le une con le altre, anche nella medesima agenda politica, rispetto alle necessità diversificate della struttura. Ad esempio, spesso gli Stati, nell’attuale fase di crisi, ricorrono a programmi di tipo neoliberista perché maggiormente profittevoli di saccheggio sociale per i padroni, ma quando un settore strategico è in crisi allora corrono ai ripari applicandovi la ricetta keynesiana.

Saggio del profitto

Il saggio del profitto misura quanto plusvalore viene accumulato dal capitalista all’esito del ciclo produttivo. Esso è costituito dal rapporto tra plusvalore, ovvero il valore prodotto dalla forza lavoro dell’operaio che non viene retribuito col salario (vedi voce glossario in Antitesi n° 3 p. 77) e la somma tra capitale costante e capitale variabile e viene indicato solitamente in percentuale. Per capitale costante intendiamo il valore dell’insieme dei mezzi di produzione e di quanto necessario alla produzione (materie e tecniche impiegate nella produzione) per ogni singolo capitalista. Per capitale variabile intendiamo il valore della forza lavoro impiegata ovvero la somma complessiva dei salari pagati da ogni singolo capitalista. Il rapporto tra capitale costante e capitale variabile, che vanno a costituire l’insieme del capitale investito, tende inevitabilmente a salire a favore del valore del capitale costante (innovazione tecnico-materiale per aumentare la produttività e vincere la concorrenza), modificando così quella che Marx denomina come composizione organica del capitale.

Dunque, in una data contingenza economico-sociale e in un dato settore produttivo, possiamo calcolare il saggio medio del profitto per ogni capitalista che investe. D’altra parte però, l’inevitabile aumento della composizione organica a favore del capitale costante, produce la cosiddetta caduta tendenziale del profitto medio, in quanto il valore del capitale costante tende ad aumentare e progressivamente tende così a scendere il saggio del profitto. Facciamo un esempio. Un capitalista investe in capitale costante 50 milioni e in capitale variabile 100 milioni a fronte di un plusvalore di 100 milioni. Il saggio del profitto sarà 100/150 cioè pari al 66%.

Come inevitabilmente accade, il capitalista è costretto ad investire in mezzi di produzione e ciò produce un aumento della composizione organica a favore del capitale costante. Anche se la somma tra capitale costante e capitale variabile rimane pari a 150, la composizione vedrà un aumento della quota di capitale costante (poniamo a 75) e una discesa del capitale variabile, cioè una corrispettiva diminuzione del valore complessivo della forza lavoro che scenderà a 75 (ad esempio avvengono dei licenziamenti). Il plusvalore di conseguenza diminuirà perché viene a diminuire la forza lavoro impiegata e arriverà a 75 milioni. Di conseguenza il saggio del profitto sarà 75/150 cioè pari al 50%, con una diminuzione del 16%. E così via…Si determina così una caduta progressiva della profittabilità del capitale, che a sua volta trova veste nella sovrapproduzione di capitale, cioè nell’incapacità della massa di capitale determinatosi nel ciclo produttivo a rigenerarsi attraverso la creazione proporzionale di profitto con un nuovo ciclo produttivo, dunque ad accumularsi positivamente. La sovrapproduzione tende ad ampliarsi poiché solo producendo più merci il capitale può riuscire a ottenere margini di profitto che la legge della caduta tendenziale ha nel frattempo eroso su quote più ristrette di produzione.Si sostanzia così la crisi del modo di produzione capitalistico che porta ogni frazione di grande capitale, strutturatasi in senso monopolistico e organizzatasi attorno ad una sovrastruttura politico-militare (le potenze imperialiste) a ricercare quote di plusvalore con la lotta per la ripartizione dei mercati. Quest’ultima, partendo dalla concorrenza economica, tende a mutare in guerra imperialista, finendo a determinare uno scontro aperto implicante la distruzione dei capitali del concorrente/nemico.

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