Antitesi n.05Classi sociali, proletariato e lotte

Ambientalismo e lotta di classe

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.05 – pag.19


La questione ambientale si presenta ogni giorno nella sua gravità e problematicità mostrando come il capitalismo distrugge l’ambiente e l’uomo. Non solo la produzione industriale indiscriminata sta mostrando i suoi effetti sul clima e sulla natura, con cambiamenti climatici evidenti e zone della terra altamente inquinate e desertificate, ma la vita nelle città è scandita dalla perenne cappa di inquinamento, la cementificazione dissennata e il dissesto del territorio stanno portando alla concretizzazione sempre più frequente di disastri idrogeologici, con crolli ed alluvioni, con conseguenze di distruzione e di morte.

Per il sistema capitalista lo sfruttamento della terra e dell’ambiente è diretto alla valorizzazione continua del capitale, infischiandosene delle conseguenze che questo comporta e portando così alla distruzione dell’ambiente. Come possiamo inquadrare materialisticamente questo processo?

Nella prefazione a “Per la critica dell’economia politica”, riassumendo la contraddizione fondamentale del sistema di produzione capitalista, Marx così si esprimeva: “[…] A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”. [1]

L’interpretazione positivistica e meccanicistica del marxismo ha visto nel pensiero di Marx un’apologia incondizionata della crescita industriale, fondandosi su una riduzione concettuale della nozione di forze produttive ai mezzi di produzione. In realtà per forze produttive, Marx intende non solo i macchinari, ma le tecniche di produzione, la forza lavoro (quindi il proletariato), le conoscenze tecniche e scientifiche e la materia impiegata nella produzione. Quindi le cosiddette materie prime, direttamente ricavabili dalla natura (terra, acqua, materiali del sottosuolo…) sicuramente rientrano nelle forze produttive. Ma a ben guardare, tutte le forze produttive hanno come precondizione della loro esistenza la natura, l’ambiente naturale. Gli uomini ne hanno bisogno per mantenersi in vita, i macchinari sono essi stessi il frutto di processi produttivi che si sviluppano trasformando e combinando materie prime naturali, le conoscenze scientifiche e tecniche non sono nient’altro che rielaborazioni e applicazioni di fenomeni naturali. La natura è dunque la forza produttiva fondamentale, alla base di tutte le altre. Del resto, tutte le formazioni sociali e le società umane, con relativi rapporti di produzione e forze produttive, hanno la prima base materiale nella natura stessa, di cui sono parte integrante e riflesso.

Pertanto possiamo affermare che la dialettica distruttiva dei rapporti di produzione capitalistici rispetto alle forze produttive, comprende anche la questione della tendenza alla distruzione dell’ambiente e della natura. D’altronde, se la contraddizione nel sistema capitalista è tra la natura privatistica dei rapporti di produzione e il carattere collettivo delle forze produttive, cosa vi è di effettivamente più collettivo dell’ambiente naturale?

Fintantoché perdurano questi rapporti sociali di produzione, finché esiste il sistema capitalista, la contraddizione tra modo di produzione capitalista e condizione ambientale, che rientra in quella fondamentale tra rapporti sociali di produzione e forze produttive, si presenta insanabile.

La borghesia esprime la propria linea ideologica cercando di oscurare la contraddizione fondamentale del sistema capitalista, che riguarda le forze produttive ed i rapporti sociali di produzione, da un lato contrapponendo lavoro ad ambiente e dall’altro proponendo un ambientalismo generalista e interclassista, il quale non può risolvere la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, rappresentando invece il riflesso del pensiero borghese, che si sostanzia nell’utopia di un capitalismo sostenibile ecologicamente.

Le soluzioni proposte dai padroni – ovvero gli antidoti, tornando al leitmotiv di questo numero di Antitesi – prevedono l’incremento della cosiddetta green economy e perorano lo sviluppo del settore turistico e della cultura, per riconvertire o abbandonare aree industriali. Si tratta di soluzioni sempre dominate dalla ricerca di profittabilità della natura da parte della borghesia: il turismo molto spesso non è meno distruttivo ambientalmente dell’industria. Soluzioni, inoltre, che portano ad un processo di deindustrializzazione pagato dai lavoratori, comportano una prospettiva occupazionale precaria (tipica dei servizi turistici) e permettono ai padroni di gestire a livello indolore, in termini di rilevanza pubblica, processi di ristrutturazione industriale determinati dalla crisi come chiusure di fabbriche, tagli occupazionali e delocalizzazioni.

E infatti, altro antidoto proposto dai padroni è quello di spostare le problematiche ambientali in altri paesi dominati dal centro imperialista, spostando gli impianti ritenuti più pericolosi, scaricandone i costi ambientali di inquinamento e sicurezza per i lavoratori sulle popolazioni della periferia imperialista, trasformandola sempre più in un inferno. In questo senso è da citare da esempio la strage di Bophal in India, avvenuta nel 1984, con l’esplosione degli impianti e la morte di migliaia di persone tra i lavoratori e la popolazione locale e con l’inquinamento dell’area che continua ancora adesso. Gli impianti erano di proprietà della Ucil, consociata indiana della multinazionale statunitense Union Carbide Corporation che in quell’area aveva spostato parte della propria produzione di fitofarmaci.

Sulla questione salute e lavoro, numerose ed incisive sono state le lotte portate avanti dalla classe operaia per migliorare la salute all’interno dei luoghi di lavoro e per la tutela ambientale del territorio circostante. Le radici del movimento ambientalista sono proprio nelle lotte che la classe operaia ha attuato dagli anni sessanta e settanta del secolo scorso per conquistare migliori condizioni di vita e di lavoro; lotte che poi si sono estese non solo negli impianti industriali, ma anche nel territorio circostante, dove viveva la stessa classe operaia che lottava nelle fabbriche.

Ma dagli anni in cui attraverso le ristrutturazioni e le sconfitte del movimento operaio, abbandonato molto spesso dalle stesse organizzazioni sindacali e politiche che dapprima ne rappresentavano gli interessi, i padroni hanno ripreso il controllo delle fabbriche e il controllo sociale, la concezione borghese e l’ambientalismo si sono inseriti nel movimento operaio portando a delle situazioni di contrasto e divisione tra lavoratori e masse popolari, incrementando in buona sostanza la mobilitazione reazionaria. La positiva mobilitazione delle masse popolari, o di alcuni suoi settori, per la difesa del territorio e della salute, mobilitazione che di per sé non è mai reazionaria, è stata così sussunta sotto la direzione degli interessi della grande borghesia che ha potuto dividere il fronte di lotta formato inizialmente tra classe operaia e masse popolari, fermando così la possibilità che tale mobilitazione si potesse sviluppare in senso rivoluzionario, riportandola invece a confini e orizzonti confacenti al soddisfacimento dei propri interessi di classe capitalista.

Salute e lavoro

Vediamo alcuni casi emblematici che in questi ultimi anni hanno riguardato la contraddizione tra salute e lavoro.

Con lo sviluppo dell’area industriale di Porto Marghera (Ve), ad esempio, che negli anni settanta arrivava ad impiegare circa 35000 addetti, con lo sviluppo della forza e della coscienza della classe operaia la salute nei luoghi di lavoro rappresentava un momento di lotta importante dove venivano imposti miglioramenti degli impianti e si rifiutavano mansioni che potevano essere dannose per l’operaio. La parola d’ordine era “mac zero”, dove per mac si intendeva la sigla che nella medicina del lavoro indicava la massima concentrazione accettabile nell’aria per una particolare sostanza perché non fosse dannosa per l’uomo. Con le ristrutturazioni degli anni ottanta e l’espulsione di migliaia di posti di lavoro è parallelamente iniziato lo sviluppo del movimento ambientalista che si è posto in contrapposizione con le fabbriche e con i lavoratori, che rivendicando la chiusura totale degli impianti chimici dell’area di Marghera. Partendo da una considerazione oggettiva rappresentata dall’avvelenamento di massa che era avvenuto negli anni grazie all’utilizzo di sostanze chimiche come il cloruro di vinile monomero e grazie ad un indebolimento altrettanto oggettivo della forza e della coscienza della classe operaia che stava subendo le ristrutturazioni con licenziamenti e casse integrazioni, senza nessuna organizzazione di classe che sapesse realmente difenderne le condizioni, il movimento ambientalista è arrivato ad imporre un referendum consultativo nella città che poneva chiaramente la chiusura totale delle fabbriche come soluzione ambientale.

Ora l’area di Marghera occupa meno di un terzo degli addetti dei primi anni settanta e vaste aree inquinate dai padroni sono abbandonate al degrado, mentre si stanno sviluppando delle opere di bonifica dei terreni (a cui è interessato direttamente anche l’attuale sindaco di Venezia Brugnaro tramite alcune società a lui legate) che vedono gli stessi padroni che prima avevano inquinato, ucciso lavoratori e distrutto l’ambiente, guadagnare con le bonifiche che prevedono milioni di euro di soldi pubblici.

Altro caso emblematico è rappresentato dalla Ferriera di Trieste, storico complesso industriale specializzato nella produzione di ghisa destinata ai settori metalmeccanico e siderurgico, situato a Servola, quartiere all’interno della città. Nella fabbrica sorge la cokeria, l’impianto di agglomerazione, due altiforni e la macchina a colare (per la solidificazione della ghisa in pani) ed occupa circa 500 lavoratori diretti. Di proprietà della Italsider è stata privatizzata a fine anni novanta e dal 2015 è di proprietà del gruppo Arvedi, che lo ha acquisito con i soliti finanziamenti a pioggia, giustificati anche dalla necessità della diminuzione dell’impatto ambientale.

Questa fabbrica è oggetto di continue polemiche per la diffusione di polveri e fumi nell’aria e sono sorti diversi comitati di cittadini, tra cui il comitato 5 dicembre, che richiedono la chiusura completa dell’area a caldo. Questi comitati ambientalisti hanno raccolto numerose adesioni ma si sono posti in contrapposizione con gli operai che difendono il posto di lavoro, arrivando a dileggiarli e insultarli e cercando sponde istituzionali per raggiungere lo scopo della chiusura dell’area a caldo. Dall’altra parte i sindacati confederali si sono posti in posizione di chiusura con l’esterno della fabbrica, subordinandosi agli interessi dei padroni e non ponendo mai la questione ambientale come rivendicazione anche degli operai.

Altra vicenda riguarda la Miteni di Trissino (Vi), fabbrica chimica di proprietà della multinazionale ICIG che produce composti perfluoralchilici (Pfas), sostanze chimiche in grado di rendere le superfici trattate impermeabili all’acqua e ad altre sostanze, che occupa un centinaio di lavoratori.

La Miteni è responsabile di sversamenti di questa sostanza (Pfas) nelle falde acquifere interessando territori della provincia di Vicenza, di Padova e Verona. Anche qui sono sorti dei comitati cittadini, dei comuni limitrofi all’insediamento della Miteni, che richiedono la chiusura della fabbrica e le bonifiche ambientali. In questo probabilmente trovano l’appoggio anche del padrone poiché da diverso tempo lo stabilimento versa in uno stato di crisi e la direzione parla di ridimensionamento degli impianti.

Ma il caso che negli ultimi anni ha posto in evidenza nazionale la questione ambientale contrapposta al lavoro nelle fabbriche è quello dell’Ilva di Taranto. Una vicenda dove l’esplosione della questione ambientale, che ha portato nel luglio 2012 al provvedimento di sequestro dell’area a caldo, è legata alla situazione di crisi del settore dell’acciaio e alle manovre che hanno portato all’esclusione del gruppo capitalista rappresentato dalla famiglia Riva a favore di altri gruppi capitalisti, principalmente il gruppo Marcegaglia e la multinazionale AlcerolMittal che vogliono accaparrarsi gli impianti dopo che centinaia di milioni di euro sono stati versati dallo Stato per il risanamento ambientale e strutturale degli impianti e per la messa in cassa integrazione di circa 7000 lavoratori. In questa vicenda la classe operaia Ilva, già pratica di numerose lotte negli anni passati contro le ristrutturazioni e le pesanti condizioni di lavoro, ha attuato iniziative di sciopero e mobilitazioni, appoggiate soprattutto dai sindacati di base presenti in fabbrica, che contrastavano la divisione che si voleva loro imporre dai cittadini dei comitati ambientalisti, ricercandone invece l’unità con la rivendicazione della difesa del posto di lavoro e della salute del territorio. Ma è indubbio che questi ultimi anni di cassa integrazione, di probabili licenziamenti futuri e processi di ristrutturazione che seguiranno la procedura di cessione definitiva della proprietà Ilva ad altre multinazionali ne abbiano intaccato la combattività, dando così nuova linfa agli elementi di divisione con le masse popolari per la difesa della salute, fomentati dalla classe politica e dai sindacati concertativi.

Nelle lotte all’Ilva di Genova non si sono presentate le stesse contraddizioni con il movimento ambientalista e di divisione con le masse popolari che si sono verificate in altre situazioni e le lotte dei lavoratori, che hanno portato recentemente anche all’occupazione degli impianti per rivendicare la difesa dei posti di lavoro ed anche a una spaccatura sindacale all’interno della Fiom genovese in sostegno a questa lotta, sono sostenute anche dalle masse popolari.

Altro fronte di lotta riguarda il petrolchimico di Gela, in Sicilia, dove la multinazionale Eni sta attuando un piano di ristrutturazione per la lavorazione di bio-carburanti non derivanti dal petrolio, riducendo così la raffinazione del petrolio, che rappresentava l’attività principale nel passato dello stabilimento. Il petrolchimico gelese impiega complessivamente 2400 lavoratori, tra diretti ed indotto, e da tre anni è in lotta per la difesa dell’occupazione in questo processo ristrutturativo che ha l’obiettivo della trasformazione del sito da petrolifero a green.

Fronte unito popolare in difesa di lavoro e ambiente

I lavoratori, dove i rapporti di forza lo consentivano hanno sempre lottato, e lottano tuttora, per fabbriche più pulite e sane, non inquinanti e non assassine, proprio perché il lavoro rappresenta la possibilità di salario.

Allo stesso modo la difesa dell’ambiente è oggetto continuo di mobilitazioni popolari che rivendicano migliori condizioni di vita e che vogliono impedire speculazioni e devastazioni ambientali.

Lo dimostrano la lotta oramai ventennale del popolo della Valsusa che si oppone alla costruzione della linea ferroviaria Tav per impedire lo sventramento del territorio e delle comunità che quest’opera comporta e che ha raggiunto livelli di lotta altissima a cui lo Stato ha dovuto rispondere con repressione e controllo militare del territorio; la lotta che si sta sviluppando in Puglia in merito alla costruzione del gasdotto Tap e la lotta contro l’installazione del sistema radar Muos in Sicilia.

Il movimento di lotta contro il gasdotto Tap sta riuscendo a contrastare l’opera non cedendo al ricatto occupazionale e difendendo l’ambiente dalla devastazione che questa comporta, contrapponendosi di fatto alla rapina monopolista del territorio. Questo sta riuscendo anche perché le opere di circolazione delle merci (strade, autostrade, linee ferroviarie, gasdotti) in generale sono progetti calati dall’alto dagli interessi delle multinazionali, non integrati socialmente e produttivamente nel territorio circostante, quindi si scontrano dapprima con la diffidenza iniziale e successivamente con la netta opposizione delle masse popolari che vivono nei territori oggetto di queste opere.

Nella società capitalista del profitto, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla Natura, salute e lavoro sono posti in contraddizione perché al primo posto vi è soltanto la massimizzazione del profitto. Quindi natura e salute, come bisogni dell’uomo, da una parte sono legate alla produzione di profitto (industria farmaceutica, sanitaria, turistica) e dall’altra vengono totalmente saccheggiate, coinvolgendo innanzitutto la condizione di vita delle masse popolari e tendenzialmente il futuro stesso dell’umanità e del pianeta.

Fondamentalmente la contraddizione tra produzione e ambiente non potrà essere risolta all’interno del modo di produzione capitalista. Solo con l’abbattimento di questa società si potrà superare questa contraddizione, con lo sviluppo della scienza che, slegata dalla dinamiche della logica del profitto dominanti invece nel sistema capitalista, potrà fornire delle soluzioni ambientali ai problemi posti dalla produzione e con la pianificazione dei bisogni consona alla società socialista.

Nello stesso tempo questa contraddizione non deve essere lasciata nelle mani dei padroni perché la utilizzino come elemento di divisione tra la classe operaia e le masse popolari nella lotta per un ambiente sano.

La reale sofferenza delle masse popolari che vivono intossicate attorno agli stabilimenti e quella degli operai impiegati nella produzione viene facilmente utilizzata dai padroni per coprire processi di chiusura, anestetizzare lo sviluppo di mobilitazioni in difesa dei posti di lavoro e lasciare veleni nel territorio, una volta abbandonata la produzione senza che le bonifiche siano poste a loro carico.

Da parte degli organismi di base dei compagni vi deve essere la ricerca di una internità nel settore di lotta che coinvolga i lavoratori delle fabbriche e le masse popolari che rivendicano il miglioramento dell’ambiente, legandosi strettamente alle situazioni reali.

Solo con l’unione in un fronte unito popolare per la difesa del lavoro e dell’ambiente, che contrasti con la lotta la linea concertativa e di sottomissione agli interessi padronali dei sindacati confederali, e che obblighi ad un controllo in mani operaie della produzione sarà possibile far emergere appieno questa contraddizione e porsi la questione della soluzione con il suo superamento.

Un controllo operaio delle operazioni di risanamento, riavviamento e riqualificazione degli impianti che deve essere articolato in collaborazione con gli organismi di base dei lavoratori e delle masse popolari affinché le condizioni di adeguamento degli impianti siano rispettate sia in merito alle condizioni interne alla fabbrica che all’esterno. La classe operaia non può che non essere l’avanguardia di questo fronte di lotta, di questo movimento popolare, poiché raggiungere l’obiettivo di una fabbrica non nociva è importante per la classe operaia che lavora all’interno e per il territorio e la popolazione che vivono attorno alle fabbriche.

Note

[1] K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1993, p.5. Per un approfondimento dei termini: “forze produttive” e “rapporti di produzione” vedi il Glossario a pagina 63 ss.

Bibliografia

Collettivo Tazebao, “Alcune riflessioni a freddo sulla questione dell’Ilva di Taranto”, stampato in proprio.
http://www.tazebao.org/alcune-riflessioni-a-freddo-sulla-questione-dellilva-di-taranto/

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