La restaurazione capitalista nei paesi socialisti – parte seconda
“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.04 – pag. 8
Nota introduttiva
Questo testo fa seguito alla prima parte dell’articolo “La restaurazione capitalista nei paesi socialisti”, pubblicata nella medesima sezione del numero precedente, nella quale si è delineata la tesi della borghesia imperialista sulla “morte del comunismo” a seguito del crollo dei paesi del Patto di Varsavia, si è trattata la concezione della società di transizione dal capitalismo al comunismo in Marx, Engels e Lenin e si è illustrata la costruzione del socialismo e della lotta di classe in Urss fino alla morte di Stalin.
La restaurazione capitalista nei paesi socialisti – prima parte
Il revisionismo moderno
Stalin, negli ultimi anni di esistenza, intuì il pericolo che correva il socialismo sovietico, ma il vuoto politico che lasciò con la sua morte fu inferiore solo alla grandiosa trasformazione rivoluzionaria che aveva promosso nella sua vita.
Una volta deceduto e sepolto colui che aveva rappresentato la continuità della direzione leninista nel Partito, si scatenò, all’interno dei massimi vertici di quest’ultimo, una lotta senza esclusione di colpi per la supremazia, che non sembrava avere, almeno apertamente, nessuna giustificazione politica che non fosse quella del raggiungimento del potere. Ne rimase esclusa l’ala sinistra della dirigenza del Pcus, rappresentata da vecchi bolscevichi come Molotov e Kaganovic che non seppero opporsi realmente alla deriva che stava prendendo piede nell’organizzazione, rimanendo per troppo tempo passivi e venendo, infine, espulsi dal Partito.
Alla fine a prevalere fu Nikita Kruscev, eletto segretario generale del Pcus nel settembre del 1953, il quale deve essere considerato a tutti gli effetti il fondatore del revisionismo moderno. L’atto di fondazione fu rappresentato dal XX° Congresso del Pcus, nel 1956, durante il quale Kruscev presentò il cosiddetto “rapporto segreto” su Stalin, ovvero un attacco politico generale alla figura del suo predecessore, accusato di promuovere il proprio culto della personalità, di aver violato la legalità socialista e commesso crimini dispotici, al fine di affermare il proprio potere personale sul paese. Pur nascondendosi dietro un presunto ritorno a Lenin e demonizzando Stalin, che peraltro Kruscev aveva opportunisticamente esaltato finché era rimasto in vita, la nuova dirigenza revisionista del Pcus puntava a distruggere l’essenza dell’esperienza rivoluzionaria sovietica, ovvero il leninismo; allo stesso modo i vecchi revisionisti nel movimento operaio e socialista, come Bernstein, Kautsky e Plekhanov, avevano puntato a liquidare il marxismo spacciandosi per seguaci di Marx.
Ciò che unì indissolubilmente il vecchio revisionismo della prima metà del Novecento al nuovo revisionismo del secondo dopoguerra la sua base strutturale, di classe, precisamente l’essere espressione dell’influenza della borghesia sul movimento proletario. Ciò che cambia è la situazione oggettiva in cui questa influenza si manifesta. Se il revisionismo classico rappresentò la sottomissione del proletariato alla borghesia imperialista e dunque fu riflesso dei rapporti capitalistici su cui quest’ultima fonda il suo potere economico e politico sulla società, il revisionismo moderno rappresentò il riflesso dei rapporti capitalistici che ancora convivono e si scontrano, nella fase di transizione, con lo sviluppo del socialismo e, in prospettiva, del comunismo.
Il vecchio revisionismo si pose alla testa del movimento proletario e socialista finendo per farlo degenerare dapprima in socialdemocrazia borghese e poi in socialsciovinismo imperialista, determinando il collasso della Seconda Internazionale, i cui partiti si schierarono ognuno con le classi dominanti del proprio paese, appoggiando il grande massacro di massa della Prima guerra mondiale. Il revisionismo moderno riuscì a conquistare il potere in Urss e, a cascata, in tutti i paesi socialisti dell’Europa Orientale cambiando la natura di classe dello Stato che, pur mantenendo la forma socialista, ridivenne regime della borghesia e conducendo un processo di restaurazione del capitalismo nella sfera strutturale. I residui strutturali di capitalismo, che i revisionisti dapprima rappresentavano, divennero una nuova classe dominante borghese composta dai dirigenti dei partiti comunisti e dello Stato. Essa promosse il ritorno di rapporti capitalistici sotto la veste formale socialista, connaturandosi come una borghesia burocratica di tipo nuovo e dirigendo la riproduzione nella società di spazi di accumulazione di profitto e di rendita privata nelle strutture produttive ed economiche ufficialmente socialiste. Si formò così una classe borghese ramificata che praticava lo sfruttamento capitalista e l’appropriazione privata, di fatto ponendosi alla testa dei diversi settori ufficialmente pubblici e socialisti. Fu questo processo e questa classe, in concorso con l’imperialismo dei paesi della Nato e altri poteri reazionari come il Vaticano e la chiesa ortodossa, che portarono, nel biennio 1989-1991, alla restaurazione aperta e formale del capitalismo nei paesi che erano stati socialisti, facendo correre all’indietro la ruota della storia.
A livello sovrastrutturale e politico-ideologico, i revisionisti proclamarono il venir meno della dittatura del proletariato come funzione dello Stato socialista, quindi della lotta di classe nella società socialista, che, ovviamente, presentarono come priva di contraddizioni antagoniste, nascondendo, come fa da sempre la borghesia dominante, il proprio potere e la propria opera restaurazionista dietro formule interclassiste. Tali furono quelle di “Stato di tutto il popolo” e “partito di tutto il popolo” che Kruscev coniò per il regime sovietico e per il Pcus e che rappresentarono la negazione più assoluta della concezione indissolubilmente classista dello Stato e del partito comunista che il marxismo e il leninismo avevano insegnato. A ufficializzare il corso revisionista, con la nuova costituzione del 1977, l’Unione Sovietica non fu più Stato degli operai e dei contadini, ma Stato di tutto il popolo e il Pcus non fu più avanguardia della classe operaia, ma avanguardia di tutto il popolo.
La stessa concezione della transizione dal socialismo al comunismo, essendo negato e sostanzialmente rovesciato il suo aspetto principale, quello della trasformazione rivoluzionaria basata sullo sviluppo delle contraddizioni di classe, divenne una questione positivistica di progettualità tecnica e accrescimento produttivo, tanto che la direzione revisionista del Pcus formulò nel XXII° congresso (1961) un fantomatico programma di passaggio, rapido e pacifico, al comunismo. In tal senso, fiorirono tesi in campo economico – in sviluppo a quelle criticate da Stalin in Problemi economici del socialismo nell’Urss – che gradatamente riabilitarono l’analisi tipica dell’ideologia economica borghese o falsificarono le concezioni dell’economia politica marxista, per giustificare ideologicamente la restaurazione capitalista sul piano dei rapporti produttivi. L’analisi del ruolo di fattori economici quali il valore, il prezzo, il mercato, il profitto, fu utilizzata non più, come in epoca leniniana e staliniana, per capire il ruolo che essi continuano a rivestire, in senso sempre più residuale, in una società socialista, bensì per giustificarne, in senso opposto, l’ampliamento dell’ambito di azione, strumentalmente al processo di reintroduzione del capitalismo. I revisionisti iniziarono così a negare la contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali come base della trasformazione economica e sociale verso il comunismo, a propagandare concetti come “mercato socialista” e a riproporre il profitto come centro propulsore della produzione.
Sul piano internazionale, Kruscev e la sua cricca sostennero come linee generali del movimento comunista quelle della “coesistenza pacifica”, della “competizione pacifica” e della “transizione pacifica”, negando la contraddizione tra imperialismo e socialismo a livello mondiale, mutandola in lotta tra potenze per il primato economico e quindi per l’egemonia mondiale e volendo imporre ai partiti comunisti e al proletariato dei paesi capitalisti e dei paesi oppressi il riformismo e il parlamentarismo come vie per costruire il socialismo. Essi promossero inoltre la riconciliazione con la Jugoslavia e la Lega dei comunisti jugoslavi, con la quale il movimento comunista internazionale aveva rotto proprio per la politica revisionista, opportunista e complice dell’imperialismo che il paese aveva seguito; di fatto Tito e la sua cricca divennero i maestri di Kruscev e della dirigenza sovietica visto che le politiche applicate in Urss già prima del XX° congresso seguirono il modello revisionista jugoslavo. Il Pcc e Mao Tse Tung, allora presidente della Repubblica popolare, iniziarono una critica serrata al revisionismo di Kruscev, che si trasformò in rottura aperta. Nelle democrazie popolari dell’Europa orientale, l’influenza sovietica impose svolte politiche a destra che arrestarono il processo di costruzione del socialismo, avviando anche in tali paesi lo stesso processo restaurazionista che si svolse in Urss. Un caso a parte fu quello dell’Albania, che vide il Partito del lavoro affiancarsi al Pcc nella lotta contro il revisionismo kruscioviano.
Con l’affermarsi sulla scena politica sovietica della fazione borghese revisionista capeggiata da Brenne, eletto segretario generale del Pcus nell’ottobre del 1964, la politica estera sovietica si basò sull’omonima dottrina, che diede rivestimento ideologico all’insegna dello sciovinismo e del militarismo alla nuova fase di strutturazione del capitalismo restaurato e, nello specifico, alle sue relazioni di sfruttamento e predominio all’interno della “comunità dei paesi socialisti” e sugli scenari mondiali (fase del socialimperialismo). Infine, l’elezione di Gorbacev a segretario generale del Pcus nel 1984, segnò l’avvento di una fazione della borghesia revisionista ideologicamente socialiberale, decisa a liquidare le forme socialiste dei rapporti di produzione capitalistici oramai pienamente restaurati e che decretò ufficialmente, nel 1991, lo scioglimento dell’Unione Sovietica.
La restaurazione di Kruscev sul piano economico e sociale
Le prime mosse intraprese dalla dirigenza sovietica, già prima del XX° congresso, furono esattamente l’opposto di quanto affermato da Stalin in “Problemi economici del socialismo nell’Urss” e quanto deciso in termini innovativi al XIX° congresso.
Già il giorno dopo la morte di Stalin, il 6 marzo del 1953, con un colpo di mano, Kruscev, allora membro del Comitato Centrale, ma privo di responsabilità di governo, e i suoi alleati Malekov, segretario del Pcus ad interim, e Berjia, allora vicepresidente del consiglio dei ministri, decisero di ristabilire il numero di dieci membri per il Plenum, in modo da sbarazzarsi dei nuovi quadri dirigenti promossi dal XIX° congresso. Un anno dopo, nel marzo del 1954, il ministro della cultura, il comunista bielorusso Pantelejmon Ponomarenko, che era stato indicato come presidente del consiglio in successione a Stalin, venne mandato a dirigere il partito in Kazakistan.
Lo smantellamento delle conquiste del socialismo avvenne nelle direttrici settoriali in cui esse erano state conseguite dai popoli sovietici, dunque nell’agricoltura e nell’industria.
Nell’estate del 1953, il rapporto di Kruscev in materia agricola intitolato “Sulle misure per l’ulteriore sviluppo dell’agricoltura nell’Urss” diede il via libera a una politica di espansione della sfera mercantile per i kolchoz, il cui progressivo superamento invece era stato indicato da Stalin come necessario per l’avanzamento del socialismo. La conseguenza immediata fu l’aumento dei prezzi dei prodotti delle cooperative venduti allo Stato e la diminuzione della loro quantità; furono allargati, invece, gli spazi di libero mercato con prezzi maggiorati, sopratutto fra gli stessi kolchoz. Di fatto si creava una situazione nella quale la pianificazione in campo agricolo iniziò a smantellarsi dal basso, con il crescere di spazi mercantili delle singole cooperative. Nel marzo del 1955 venne deciso l’ampliamento per decreto dei poteri dei kolchoz, lasciando libertà alle cooperative di decidere in termini di produzione agricola e di allevamento, proprio mentre circa 30 mila funzionari del partito legati a Kruscev vennero inviati nelle campagne per assumere la presidenza delle cooperative. Nel febbraio del 1958 vennero soppresse le stazioni macchine e trattori, ovvero gli enti statali che fornivano ai kolchoz i mezzi di produzione e i macchinari finirono per essere venduti direttamente alle cooperative più ricche. Si decise inoltre di abolire la quota di consegna obbligatoria a carico dei kolchoz. A partire dal 1962 la fine della direzione pianificata sullo sviluppo agricolo ne determinò la crisi, con un notevole rialzo dei prezzi e il crollo della produzione agro-alimentare, che obbligò il paese all’acquisto di grano all’estero.
Per quanto riguarda l’industria, dalla fine dell’estate del 1953, cominciarono a essere adottate una serie di misure governative volte a porre come prioritario lo sviluppo del settore leggero, contravvenendo all’indicazione staliniana sulla necessità di dare, attraverso l’espansione dell’industria pesante e in particolare dell’industria dei mezzi di produzione, una base materiale produttiva allargata che potesse essere fonte di sviluppo industriale complessivo e multisettoriale. Kruscev e gli altri esponenti della sua cricca revisionista si fecero paladini dello sviluppo dell’industria leggera dei beni di consumo, costruendo un’immagine populistica e consumistica riassunta nella formula “socialismo del goulash”. Nel mirino, essi ebbero, come nel caso dell’agricoltura, la produzione pianificata: già nell’aprile del 1955 il rapporto sulla modernizzazione del presidente del consiglio dei ministri Bulganin criticò la rigidità della pianificazione dell’era staliniana e pose l’accento, in campo salariale, sull’aumento degli incentivi materiali per elevare la produzione. La linea che iniziò a prendere piede fu quella di dare mano libera ai direttori delle singole aziende statali nell’esercizio di poteri che prima rientravano nella pianificazione a livello centrale. Lo stesso comitato statale di pianificazione, più conosciuto con l’acronimo di Gosplan, venne diviso, nel maggio del 1955, in due commissioni, una per la pianificazione a lungo termine e l’altra per quella in corso, considerata a livello annuale, indebolendo così la dimensione pianificata e strategica dello sviluppo economico. A livello governativo, l’allentamento della pianificazione accentuò le contraddizioni già presenti all’epoca di Stalin e i diversi ministeri iniziarono a scontrasi per l’accaparramento di risorse d’investimento. Ciò consentì lo strutturarsi di gruppi di potere burocratico-borghese negli apparati ministeriali, dunque con rappresentanza a livello governativo, che videro nella cosiddetta “innovazione” krusceviana della fine della priorità dell’industria pesante, l’ambito per negoziare o contendersi quote di investimento, dunque di capitale e di rendita.
Nel 1957, le politiche di Kruscev in campo economico portarono all’introduzione dei sovnarchozy, organismi regionali che sostituivano il Gosplan a livello decisionale, smantellando di fatto la pianificazione economica centrale e su scala nazionale. I sovnarchozy si rivelarono ben presto fonti di strutturazione del potere di borghesie burocratiche locali. Per tali consorterie borghesi, le stesse che erano state denunciate al XIX° Congresso del partito, la decentralizzazione voluta da Kruscev rappresentava l’occasione storica per strutturarsi nei gangli di una pianificazione sempre più formale.
Prima nel 1961 e poi nel 1964 si assistette però a un ridimensionamento del numero dei sovnarchozy e a un loro accorpamento. Ciò si verificò non per una tendenza al ritorno di una reale pianificazione socialista, ma perché si determinò un vero e proprio processo di concentrazione capitalistica. Questo sia a livello orizzontale, con il prevalere della borghesia burocratica di alcuni centri regionali su altri, sia verticale, nel senso che i gruppi di borghesia burocratica a livello ministeriale tesero a inglobare alcune prerogative capitalistiche dei centri regionali, affermando il proprio potere e costituendo altrettante alleanze strutturali con diverse fazioni della borghesia burocratica a livello regionale. In questa situazione di scontro interno alla borghesia restaurazionista, la programmazione economica, dopo essere stata svuotata di fatto, cadde anche nel caos, tanto che nel 1962 di colpo il Gosplan azzerava il piano quinquennale in corso e venivano approntati nuovi obbiettivi, al ribasso, per gli anni successivi.
In realtà la tendenza centralizzatrice e quella decentralizzatrice all’interno della borghesia burocratica rispondevano non solo a due gruppi di interesse contrapposti, ma pretendevano ognuna di dare risposta alle contraddizioni che si manifestavano sul piano economico con l’affermazione della linea contrapposta. Con la centralizzazione ministeriale ciò che tendeva a verificarsi era un assetto oligopolistico nel quale ogni ministero puntava a ottenere la quota più alta d’investimento. Ciò li portava a strutturarsi come delle entità autarchiche e in concorrenza una all’altra, inclini allo spreco, al parassitismo e all’accumulazione improduttiva di capitali. La decentralizzazione determinava invece, di fatto, l’anarchia nei rapporti economici. Ognuna di queste due tendenze mostrava dunque delle contraddizioni tipiche del sistema capitalista, entrambe svuotavano la pianificazione di ogni valore sostanziale e si contrapponevano agli interessi dei lavoratori che videro le proprie condizioni di vita arretrare a favore degli interessi della borghesia restaurazionista.
Infatti, nel giugno del 1962, esplose a Novocherkassk la mobilitazione operaia in risposta alla decisione del governo di Kruscev di aumentare i prezzi dei beni di prima necessità e contro il peggioramento delle condizioni di lavoro. I manifestanti, tra di loro anche militanti del partito, reggevano ritratti di Lenin, sventolavano bandiere rosse e contestavano apertamente il corso revisionista, scrivendo sugli striscioni “abbasso il partito della borghesia”, “abbiamo bisogno di un governo dei lavoratori” e “con le bugie su Stalin, Kruscev non può farla franca!”. I revisionisti risposero con estrema ferocia, inviando forze speciali da Mosca che uccisero 87 manifestanti, imponendo la legge marziale e sciogliendo le cellule di partito della città.
Da allora fu chiara la natura antioperaia del nuovo corso “destalinizzato” del potere sovietico. La classe proletaria reagì con un crollo della produttività, accertato da tutti gli studi economici dal 1963 in poi, ciò fu manifestazione di un atteggiamento di disaffezione rispetto a un sistema che continuava a definirsi socialista per nascondere il processo di restaurazione capitalista.
Nel 1964, anno in cui fu disarcionato da Breznev, Kruscev lasciava al successore una formazione economico sociale nella quale strutturalmente si stava assistendo alla piena reintroduzione del capitalismo, nella quale era stato restaurato il potere di una classe capitalista costituita dai dirigenti economici, amministrativi e politici dello Stato, delle aziende statali e del Partito. Questa borghesia in forma burocratica si poggiava sullo sfruttamento del lavoro della classe operaia e contadina, quindi sull’estorsione di plusvalore. Quanto prodotto dai lavoratori dell’Urss ufficialmente figurava come ricchezza sociale impiegata nel benessere collettivo, come vorrebbero rapporti economici di tipo socialista, ma in realtà andava a gonfiare il profitto e la rendita parassitaria, sotto forma di prebende di Stato (o di profitti di mercato nel caso delle dirigenze dei kolchoz).
L’era di Breznev, il socialimperialismo
La borghesia, per sua struttura e natura oggettiva, tende a essere attraversata da interessi conflittuali, dovuti alla lotta permanente, al suo interno, per accaparrarsi spazi di mercato, di profitto e di rendita, che diventano via via più stretti col manifestarsi delle contraddizioni oggettive del modo di produzione capitalista. In senso generale, possiamo dire che la lotta politica interna allo Stato e al Pcus, dall’affermarsi definitivo del revisionismo in poi, rappresentò il riverberarsi nella sovrastruttura di conflitti d’interesse sul piano strutturale, tra le diverse fazioni della borghesia restaurazionista.
Breznev seppe imporsi su Kruscev perché oramai quest’ultimo riusciva a rappresentare solo la borghesia burocratica posta a capo dei kolchoz, mentre il primo rappresentava gli interessi della borghesia burocratica dominante nel settore dell’industria pesante e in particolare degli armamenti. Breznev, inoltre, poteva contare sull’alleanza con la fazione di borghesia burocratica dell’industria leggera e dei beni di consumo, rappresentata da Kosygin il quale divenne, sempre nel 1964, presidente del consiglio dei ministri. Queste fazioni temevano di perdere potere con il processo di rafforzamento del potere delle borghesie burocratiche dei centri regionali che Kruscev aveva portato avanti a partire dall’istituzione dei sovnarchozy. Esse erano cresciute di potere a partire dall’inizio degli anni Sessanta, quando, come abbiamo visto, si produsse un processo di concentrazione capitalistica (mediante centralizzazione amministrativa) in senso orizzontale e verticale, con la riaffermazione del potere dei ministeri governativi e delle relative borghesie burocratiche. Fu facile infine imporsi su Kruscev, anche per gli errori che aveva commesso in politica estera, il più rilevante dei quali fu l’avventurismo dimostrato nella “crisi dei missili” con Washington nel 1962.
A queste fazioni interessava riaffermare il loro potere, non solo con nuovi passi nella ricentralizzazione (i sovnarchozy vennero definitivamente aboliti nel 1965 a beneficio dei ministeri industriali), ma procedendo contemporaneamente nel processo di smantellamento delle conquiste socialiste. In particolare, l’alleanza Breznev-Kosygin avrebbe dovuto ricomporre la frattura tra tendenza alla centralizzazione e tendenza decentralizzatrice, accompagnando la prima, di cui era sostenitore Breznev, con una serie di “riforme” che avrebbero comunque rafforzato la seconda, di cui si fece artefice Kosygin, sulla base delle teorie dell’economista revisionista Liberman. Tali “riforme” diedero mano libera ai dirigenti industriali nella gestione delle singole unità produttive aziendali. Autorizzandoli, in particolare, nella compravendita dei mezzi di produzione, fu reintrodotto il mercato della forza lavoro, che poteva essere nuovamente assunta e licenziata su decisione dei dirigenti, sulla base di un fondo salari determinato azienda per azienda. Il profitto divenne ufficialmente il fine al quale doveva conformarsi la singola azienda, di cui una quota tra il 25 e il 40% veniva direttamente lasciato in mano a essa, in teoria per concedere premi e incentivi a tutti i dipendenti, ai lavoratori in cambio di produttività, ma di fatto perlopiù intascato dai soli dirigenti, assieme a capi e ingegneri. Nel 1970 la rendita parassitaria di un dirigente, ottenuta sui premi di produzione per le singole aziende, arrivò a venticinque volte la quota che spettava ad un operaio, incidendo su una differenza di retribuzione che vedeva già il salario di un lavoratore costituire la decima parte dello stipendio di un capoccia industriale.
La liberalizzazione delle singole imprese fu la premessa per la creazione di cartelli di aziende come nuova forma, sempre più conclamata, di concentrazione capitalistica. Le cosiddette riforme della troika Breznev-Kosygin-Liberman già nel 1969 regolavano il 70% dell’economia sovietica.
Per quanto riguarda la dialettica tra borghesia burocratica dei centri ministeriali e quella delle singole aziende o dei cartelli di più aziende, venne a stabilirsi un sistema rigidamente monopolistico. I vertici ministeriali erano posti a capo di un insieme di imprese corrispondente alle diverse unità produttive, ognuna delle quali con una propria dirigenza, che copriva un settore di mercato (industria pesante, industria militare, industria leggera…). Di fatto si trattava di una struttura simile a quelle delle grandi imprese con un proprio centro direzionale generale nel consiglio di amministrazione, una direzione esecutiva manageriale, diversi impianti industriali con propria specifica dirigenza e una certa autonomia finanziaria. Con la differenza che queste relazioni si stabilivano, in Urss, nell’ambito di aziende che rimanevano formalmente statali e all’interno di un sistema ufficiale di pianificazione, che distribuiva, con la pressione a livello governativo dei rappresentanti dei diversi gruppi monopolistici, le quote di ripartizione di capitale d’investimento e dunque di profitto e rendita. Il processo di concentrazione monopolistica-capitalistica avanzò di netto a partire dalla fine degli anni Sessanta con l’espandersi dapprima delle “associazioni produttive” e poi delle “unioni di imprese”, introdotte nel 1973, cioè organismi che riunivano più aziende sotto il medesimo controllo di una fazione di borghesia burocratica, in stretta connessione ai vertici ministeriali. Tanto che Kosygin, al XXV° congresso del Pcus nel 1976, affermava, senza peli sulla lingua, che oramai le associazioni d’imprese erano giunte alla cifra di 2300, coprendo il 24% della produzione e avevano permesso, nel piano quinquennale (1971-75) di ottenere profitti pari a 500 miliardi di rubli, il 50% in più di quanto ottenuto nel precedente piano quinquennale. [27]
La reintroduzione del capitalismo in Urss avanzava dunque con un bilanciamento tra la posizione capitalistica dell’alta borghesia burocratica, quella che controllava le sfere governative e ministeriali e il ripristino dell’autonomia aziendale. Basandosi quest’ultima su un’indipendenza della singola unità produttiva a livello di accumulazione capitalistica, gradualmente gli investimenti centrali tesero a diminuire a favore del credito bancario, che iniziò a fondersi con il capitale industriale proprio come in una contemporanea economia imperialista di tipo “occidentale”. Già a metà degli anni sessanta, il 40% delle attività correnti delle imprese sovietiche proveniva dal credito di banche di Stato come la banca dell’Urss (per crediti a breve termine) e la Stroibank (per crediti a lungo termine in attività di edilizia e costruzioni).
Ovviamente, la riabilitazione del profitto come “uno dei mezzi economici per accrescere le imprese socialiste e stimolare materialmente la loro attività” [28] inficiò la fissazione pianificata dei prezzi poiché le imprese dovevano vendere le merci prodotte con profitto. Già all’epoca di Kruscev, vi erano stati aumenti dei prezzi, ma a partire dall’estate del 1967, con il varo della cosiddetta “riforma dei prezzi all’ingrosso”, si ebbero aumenti generalizzati, a partire dalle materie prime fino al prodotto di consumo. Il comitato di stato per i prezzi, revisionando la politica di fissazione dei prezzi a livello centrale per favorire i consumi popolari, iniziò a stabilire delle entità di massima e le singole imprese potevano assolutamente discostarsene, per trarre profitto.
La restaurazione del potere della borghesia in Urss, la reintroduzione come rapporto dominante sul piano economico-sociale da parte di Kruscev e il suo strutturarsi progressivamente in senso monopolistico nell’era di Breznev e Kosygin, produssero ovviamente un cambiamento radicale nelle relazioni dell’Unione Sovietica con gli altri paesi del mondo, innanzitutto a partire da quelle economiche. Il dato emblematico da questo punto di vista è quello del peso del commercio estero sul bilancio di Stato dell’Urss. Nel 1950, il commercio estero pesava meno dello 0,4%. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, con la svolta revisionista krusceviana, tale percentuale inizia a lievitare, passando dal 6,4% del 1955 al 224,8% del 1990, cioè alla vigilia del crollo dell’Urss.
L’economia del periodo socialista, basandosi sulla pianificazione diretta a realizzare i bisogni dei popoli dell’Urss e sullo sviluppo delle forze produttive del paese, tendeva a strutturarsi su quelle che erano le necessità, le risorse e le potenzialità nazionali. La reintroduzione e lo sviluppo del capitalismo determinarono invece la crescita dell’interscambio con l’estero perché gli interessi di accumulazione capitalistica, di profitto e rendita della borghesia in forma burocratica travalicavano inevitabilmente la dimensione nazionale in relazione agli investimenti, al commercio e ai legami finanziari. Si strutturò così quello che i comunisti cinesi e albanesi definirono socialimperialismo sovietico cioè l’assunzione da parte dell’Urss, di una posizione economica, politica e militare sul piano mondiale di tipo imperialistico, pur rivestita da un manto socialista e pur caratterizzata, a differenza dell’imperialismo “classico”, dall’essere espressione di una grande borghesia che, pur essendo sostanzialmente assimilabile alle oligarchie monopoliste degli Usa e delle potenze europee, agisce come burocrazia di Stato. La cosiddetta dottrina Breznev, con le formule della “sovranità limitata”, della “dittatura internazionale”, della “comunità socialista”, della “divisione internazionale del lavoro” e degli “interessi coinvolti”, rappresentava la manifestazione politico-ideologica del socialimperialismo sovietico. All’interno del Consiglio di mutua assistenza economica, più noto con l’acronimo Comecon, fondato nel 1949 come organizzazione di cooperazione tra l’Urss e le Repubbliche popolari dell’Europa Orientale e in seguito allargato a Mongolia, Cuba e Vietnam, iniziarono così a instaurarsi rapporti di sfruttamento e soggezione imperialista e neocolonialista. L’Urss lo utilizzava per imporsi come economia dominante all’interno della cosiddetta comunità socialista: gli altri paesi avevano il ruolo di mercati per assorbire la produzione di merci sovietiche e dunque finivano in una condizione di dipendenza, oppure si ritrovavano nel ruolo di esportatori di prodotti agricoli (come la Bulgaria e Cuba) in cambio di prodotti finiti, con uno scambio diseguale sempre a favore dei socialimperialisti sovietici. Invece di realizzare una mutua assistenza, il Comecon determinò una ripartizione imperialista dei mercati a favore dell’Urss, negando lo sviluppo alle economie delle democrazie popolari. Ad esempio, se nel 1960 la quota di produzione industriale sovietica all’interno del Comecon era il 69,5%, dieci anni dopo era salita al 76%, mentre, ad esempio, nello stesso periodo, quella della Germania Democratica era scesa dall’8,7 al 3,4% e quella della Cecoslovacchia dal 7,5 al 4,2%. Quest’ultima si trovava in una condizione esemplare di dipendenza delle democrazie popolari dalla potenza sovietica: il 90% della produzione di petrolio, ferro grezzo e metalli non ferrosi proveniva dall’Urss, così come l’80% del grano alimentare e più del 60% del cotone.
Come per le multinazionali nei paesi imperialisti classici, vennero strutturate imprese e organizzazioni interstatali, a preminenza sovietica, ma con partecipazione degli altri paesi dell’Europa Orientale. Tali furono, ad esempio, l’Interkhim, nel settore chimico, Intermetal, nel settore metallurgico, Interatominstrument, nel campo della tecnologia nucleare. Inoltre, una parte dello sviluppo industriale sovietico, come ad esempio la costruzione e il mantenimento di pozzi petroliferi in Siberia, veniva sostenuto con il contributo degli investimenti estorti agli altri membri del Comecon che, in cambio, erano ripagati con le forniture provenienti dall’Urss. A livello finanziario, infatti, tutti i paesi dell’organizzazione internazionale dovevano contribuire ai crediti forniti dalla banca d’investimenti del Comecon che andavano però in larghissima parte a beneficio dell’Urss. Ad esempio, nel biennio 1972-1973, furono garantiti crediti per 900 milioni di rubli trasferibili (la moneta, ovviamente calibrata sul rublo, utilizzata negli scambi del Comecon), ma l’Urss ne assorbì da solo il 75%, con il restante diviso tra le democrazie popolari (la Polonia ne ottenne solo il 3,3%.).
Ovviamente, la proiezione imperialista dell’Urss era possibile a causa della subalternità dei ceti dirigenti delle democrazie popolari, che si erano strutturati anch’essi come borghesia in forma burocratica, distruggendo progressivamente le conquiste in senso socialista conseguite coll’instaurazione del potere operaio dopo la liberazione dal nazifascismo. L’Urss avallò le direzioni più smaccatamente revisioniste, a patto che non si sottrassero dalla sua influenza. Ad esempio, tra le politiche svolte da Kadar in Ungheria e Gomulka in Polonia non c’era una sostanziale differenza nel portare avanti un corso revisionista e restaurazionista, rispetto a quelle di Dubcek in Cecoslovacchia, ma quest’ultimo, promuovendo la “primavera di Praga” nel 1968, pose in discussione il dominio sovietico. Venne così dapprima allontanato dalla direzione del Partito, con l’intervento delle truppe sovietiche nell’agosto 1968, e poi rimesso in tale ruolo dopo aver affermato la sua fedeltà a Mosca. Salvo poi, un anno più tardi, una volta dimostratosi debole rispetto a nuove proteste antisovietiche, essere sostituito da un altro promotore della “primavera di Praga”, Gustav Husak, anch’egli ultrarevisionista sul piano interno, ma fedele a Breznev sul piano internazionale.
Oltre a questi rapporti economici internazionali che la propaganda revisionista definiva legare i cosiddetti paesi fratelli, durante tutti gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta era cresciuta l’integrazione economica dei paesi del Comecon con i paesi capitalisti dell’Ocse. Questa crescita dell’interscambio commerciale iniziò a determinare una sorta di dipendenza economica del restaurato capitalismo nei paesi dell’Europa Orientale rispetto ai paesi dell’area atlantica. Fino al 1970, i flussi commerciali tra paesi del Comecon e della Comunità economica europea erano stati paritari, ma da allora iniziò a crescere il disavanzo commerciale dei paesi dell’Europa Orientale. Ad esempio, nel quadriennio 1969-1973, le importazioni in Urss di prodotti statunitensi crebbero di dieci volte rispetto a quattro anni prima, mentre, nello stesso periodo, quelle di merci sovietiche negli Usa nemmeno di tre volte. Tale disavanzo contribuì a determinare il fenomeno del progressivo indebitamento dei paesi del Comecon, che raggiunse nel 1975 i 32 miliardi di dollari, legando mani e piedi la loro economia a quella del blocco occidentale.
Anche sul piano interno le relazioni tra le repubbliche sovietiche finirono per rinnovare quella supremazia imperialista della nazione russa che aveva caratterizzato il periodo zarista. Durante il periodo staliniano, si era avviata una politica volta a superate l’arretratezza economica e sociale delle nazioni non russe, retaggio del dominio imperialista, puntando a superare un assetto che le voleva ridotte a mere fornitrici di materie prime e forza lavoro a buon prezzo. Per fare un esempio, in Uzbekistan, il numero di imprese industriali passò dalle 191 del 1927 alle 1145 del 1940, tanto che l’industria conquistò, nel 1940, una quota del 70% sull’intera economia di un paese che, nell’impero zarista, era relegato alla produzione di cotone. Sul finire degli anni Settanta, assistiamo a un rovesciamento del progresso conquistato in epoca staliniana: la produzione di cotone era stimata copriva circa il 65% del prodotto nazionale. Un “risultato” che gli economisti legati al potere revisionista presentavano come necessario nella divisione del lavoro interna all’Urss! A ben guardare, tutti gli indicatori relativi agli anni della restaurazione di Kruscev e Breznev ci dicono di un ritorno all’oppressione dei “grandi russi” – così come l’aveva definita Lenin. Lo scambio diseguale tra materie prime e prodotti finiti, le differenze salariali, di disponibilità di beni, di assistenza medica e molti altri parametri delineano un rapporto di oppressione nazionale interna tra la nazione russa e le altre nazioni facenti parte dell’Urss.
Sul piano internazionale, l’intervento a Praga nel 1968 rappresentò l’inizio di una politica estera sovietica improntata al militarismo e all’espansionismo, che arrivò al culmine con l’invasione dell’Afghanistan nel 1979.
A determinare tale politica furono due fattori principali. Il primo fu la lotta dell’Urss per la ripartizione dei mercati, in contrapposizione ai rivali statunitensi, che vide Mosca agire sullo scacchiere internazionale con un raggio sempre più largo che arrivò a coinvolgere, oltre all’Afghanistan, anche l’Africa, con l’intervento militare diretto nel conflitto Etiopia/Eritrea nel 1977. Il secondo fu l’interesse della fazione di classe dominante rappresentata da Breznev a strutturare l’economia sovietica sulla base delle produzioni belliche, visto che essa era costituita proprio dalla borghesia burocratica monopolista che dirigeva l’industria degli armamenti. Tanto che, nella seconda metà degli anni Settanta, si stimò che il 60% del sistema industriale sovietico era adibito direttamente o indirettamente alla produzione di armi.
La crisi economica e sociale
Ma il fattore fondamentale che determinò il bellicismo della dirigenza revisionista sovietica a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, fu rappresentato dalla manifestazione sempre più evidente della crisi economica nel paese. Dal 1977 in poi, si assistette a un calo nei tassi di crescita dell’Urss, attestatisi attorno al 6% nell’anno precedente, che rallentarono fino ad annullarsi nel 1982. Questa decrescita colpì tutti i paesi del Comecon e si iscrisse nella fase di crisi del capitalismo internazionale, che era iniziata dai primi anni Settanta.
Infatti, il primo dato di cui tenere conto, nella nostra valutazione complessiva, è un paragone storico che svela come il piano oggettivo della crisi del capitalismo globale abbia palesato la natura socialista dell’Urss di Stalin e quella restaurazionista e borghese dell’Urss di Breznev. Infatti, a differenza di quanto avvenuto a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando la costruzione del socialismo nell’Urss determinò ritmi di crescita straordinari, proprio mentre il capitalismo internazionale si trovava stretto da una crisi gravissima, negli anni Settanta, all’opposto, assistiamo a un progressivo coinvolgimento dell’economia sovietica e delle democrazie popolari dell’est Europa nella crisi globale.
Il procedere della crisi determinerà un cambiamento profondo sia nelle società del blocco occidentale che in quelle del blocco orientale. Nelle prime verrà meno il cosiddetto “capitalismo dal volto umano”, ovvero quel sistema, definito di welfare state, che era stato ottenuto attraverso la lotta delle masse operaie, ma che fu utilizzato dalle classi dominanti per prevenire il concretizzarsi della via rivoluzionaria, che in tale processo di lotta aveva comunque trovato spazio. Nelle seconde a venir meno saranno definitivamente e ufficialmente ogni conquista, forma e vestigia del socialismo, sia in campo economico che in quello politico. Il crollo dell’Urss e delle democrazie popolari corrisponderà al passaggio da un’economia a capitalismo di Stato, retta dalla borghesia burocratica e frutto della restaurazione da parte dei revisionisti moderni, a un sistema a capitalismo privato o comunque di mercato, con l’adozione del modello politico della democrazia borghese. In entrambi i casi si trattò di una “rivoluzione passiva”, ideologicamente basata sul neoliberismo e sulla riaffermazione dei dogmi della democrazia liberale, portata a termine dalle classi dominanti per gestire il processo di crisi, a partire fondamentalmente dalla ricerca di nuovi spazi di accumulazione, profitto e rendita, soprattutto mediante l’eliminazione, sia nell’ovest che nell’est, di ogni ruolo dell’intervento dello Stato nell’economia, o quantomeno dell’inquadramento di tale intervento in un’ottica pienamente di mercato.
In Urss, questa rivoluzione passiva venne portata avanti prima con la perestroika di Gorbacev e poi con la liquidazione definitiva da parte di Eltsin, anch’egli esponente di vertice del ceto politico revisionista e successivamente primo presidente della Russia post-sovietica. A compiere la funzione di distruttori finali dell’Urss sono stati dunque, paradossalmente, due sedicenti comunisti. Ciò è avvenuto poiché la crisi, investendo il capitalismo di Stato oramai pienamente reintrodotto in Urss, obbligava la borghesia burocratica, di cui i revisionisti moderni erano emanazione, a trovare nuovi spazi di accumulazione, profitto e rendita capitalista nello smantellamento dell’intelaiatura formalmente socialista, accaparrandosi direttamente in forma privata settori che prima erano stati pubblici. Tale accaparramento significò una lotta spietata all’interno di tale borghesia e, ovviamente, distruzione di capitali e forze produttive che non rispondevano più ai nuovi assetti di capitalismo privato.
Nell’Urss e nei paesi cosiddetti socialisti dominati dai revisionisti moderni si assistette a un crollo di investimenti e di produttività che andavano complessivamente peggiorando a partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Sessanta, durante i quali si implementarono pienamente le controriforme della troika Breznev-Kosygin-Liberman.
Secondo la versione che ci viene propinata dalla borghesia imperialista e dalle sue propaggini storiografiche e culturali, la crisi economica dell’Urss e dei paesi del blocco sovietico fu la manifestazione dell’impraticabilità e dell’ingiustizia connessa al socialismo e al comunismo. In realtà, l’oggettività dei rapporti sociali, che i revisionisti avevano reintrodotto, ci dice che la crisi del sistema sovietico è stata la manifestazione della crisi del modo di produzione capitalista in relazione a un contesto e a una realtà specifica com’era quella di un regime a capitalismo di Stato, giunto a uno stadio imperialista, vigente nell’Urss del tempo.
Il primo dato da cui dobbiamo partire è – come abbiamo visto – il progressivo smantellamento di un sistema di pianificazione socialista, con il prevalere dal punto di vista centrale della ripartizione delle quote d’investimento tra le borghesie che controllavano i vari ministeri e, a livello locale, dei profitti delle singole unità produttive. In tale quadro, l’investimento produttivo non obbedisce più a criteri di fabbisogno sociale, ma a criteri e categorie di tipo prettamente capitalistico-monopolistico. I capitali accaparratati a livello centrale vengono poi investiti nella filiera produttiva che i ministeri controllano, determinando sottoquote di investimento, con relative forniture di manodopera, materie prime e mezzi di produzione, per le singole unità produttive e aziende formalmente statali, ma gestite in modalità privatistica dai dirigenti preposti. La ricchezza sociale che i produttori, ovvero gli operai e i contadini sovietici, creavano, veniva accaparrata e accumulata in senso capitalistico dallo Stato, cioè dalla grande borghesia burocratica a livello centrale e, a livello locale, dalle singole aziende capeggiate da una pletora di medi capitalisti travestiti da dirigenti d’imprese collettive. Tutto ciò sotto un manto ufficiale di pianificazione e senza la reintroduzione a livello formale e giuridico della proprietà privata, pur trovandosi di fronte ad assetti sostanziali di tipo oligarchico e privatistico nel controllo del capitale, dei mezzi di produzione, del potere sulla forza lavoro e della distribuzione della ricchezza. L’accumulazione capitalistica e la riproduzione allargata del capitale, di fatto, avvenivano lungo le forme e le direttrici di un sistema monopolistico di Stato.
Il capitalismo di Stato riuscì in parte, per alcuni anni, a sottrarsi a una serie di squilibri produttivi che normalmente si verificano (e si verificarono anche in quei decenni) nel capitalismo privatistico occidentale. Certi risultati economici che si ebbero nell’epoca di Kruscev e di Breznev, che servirono a comprare il consenso delle masse sovietiche con i provvedimenti che elevarono il loro tenore di vita materiale, risultarono essere non frutto della realizzazione del socialismo, come recitavano le campane del Pcus, ma la stabilizzazione di meccanismi di fortissimo controllo monopolistico a livello statale che ottundevano le contraddizioni del modo di produzione, ne impedivano il manifestarsi e si basavano su un ciclo economico che aveva ancora rilevanti spazi di accumulazione capitalistica. In particolare, la rottura della pianificazione economica e la finalizzazione della produzione all’accumulazione capitalistica e al profitto, diedero temporaneo sviluppo all’industria dei beni di consumo, con il quale la borghesia revisionista di Stato riuscì a comprarsi un certo consenso di massa. Il cosiddetto “socialismo al goulash” rappresentò, inoltre, un’imitazione e subordinazione ideologica al “capitalismo dal volto umano”, allora implementato anche nei paesi del blocco Nato, poiché gli spazi di accumulazione capitalistica sia a est che a ovest permettevano ancora politiche di elevazione materiale della condizione popolare.
Sia per i paesi a capitalismo privato sia per quelli a capitalismo di Stato sotto le vesti socialiste, la seconda metà degli anni Settanta segna il sorgere e il pieno manifestarsi delle dinamiche della crisi. Con modalità differenti derivanti dalle diverse forme dei rapporti capitalisti, essa assume a est una dimensione evidentemente inedita, visto la condizione particolare di un capitalismo de facto rivestito da un carattere formalmente socialista. Il paradosso dialettico è che sono tali vesti formalmente socialiste a essere l’ambito di determinazione delle contraddizioni tipiche del capitalismo.
Così, una cosiddetta pianificazione socialista ridotta a lotta dei gruppi borghesi-burocratici per accaparrarsi quote di capitale riproduce inevitabilmente, nella sostanza, quello che è il mercato concorrenziale nel capitalismo privatistico. E, dunque, diventa la base reale per il verificarsi, nella sostanza, delle leggi di contraddizione del capitalismo tipizzate dal marxismo, in primis la caduta tendenziale del saggio di profitto. Infatti, non essendoci un piano razionale, il capitale accumulato a livello statale viene diviso tra i diversi settori industriali e le diverse aziende che li compongono sulla base delle quote di potere dei gruppi di borghesia burocratica. Questa lotta per la ripartizione diviene l’equivalente della concorrenza nel capitalismo privatistico. Investendo il capitale distribuito a livello centrale, ogni gruppo e fazione di borghesia burocratica inevitabilmente determinano la crescita del capitale costante e la corrispettiva caduta del saggio di profitto. [29]
Quella che gli storici borghesi chiamarono “stagnazione” nell’epoca di Breznev fu propriamente il manifestarsi della crisi del sistema di capitalismo restaurato pur nelle sembianze socialiste. Il progressivo calo generale degli investimenti e della produttività in tutti i paesi del blocco dell’Europa orientale, decisamente impressionante se paragonato agli indici di epoca staliniana e immediatamente successiva alla morte di Stalin, fu determinato dalla profittabilità decrescente del capitale investito proprio come avveniva contemporaneamente nel cosiddetto occidente con la crisi apertasi agli inizi degli anni Settanta.
D’altra parte gli epifenomeni della crisi non furono uguali di là e di qua della cortina di ferro. Se a ovest il capitale puntò alla finanziarizzazione dell’economia per riacquistare quote di profitto e rendita, a est la fuga dalla produzione del capitale poté esprimersi solo nei termini della crescita del parassitismo, degli sprechi e del clientelismo, nella cornice dello statalismo imperante. Se a ovest la sovrapproduzione di capitali determinava sovrapproduzione di merci come riflesso della disperata rincorsa dei privati al profitto, a est la finta pianificazione sociale in mano ai capitalisti-burocrati produsse in gran parte fenomeni di sottoproduzione. Se a ovest la cosiddetta rivoluzione informatica contribuì a rallentare, nel breve periodo, la caduta del saggio di profitto, a est lo sviluppo qualitativo delle forze produttive di fatto si fermò, poiché, il carattere specifico dei rapporti produttivi previsti nel capitalismo di Stato sovietico tendeva ad escludere l’innovazione tecnologica dai fattori concorrenziali e privilegiava l’estensione quantitativa delle forze produttive.
Su due punti, il modello socialimperialista sovietico e quello imperialista atlantico ebbero obbiettive convergenze: la tendenza alla guerra imperialista e allo sviluppo di un settore militar-industriale determinante nell’economia interna e, contemporaneamente, l’attacco alle condizioni di vita del proletariato e delle masse popolari sul fronte interno.
Sul bellicismo sovietico già dicevamo poc’anzi e, rispetto allo sviluppo della crisi, possiamo senza dubbio aggiungere che la crescita ipertrofica del settore militar-industriale rappresentò un fattore di ulteriore indebolimento economico, poiché sottraeva prepotentemente risorse, all’interno del capitalismo di Stato in forma pianificata, a tutti gli altri settori.
Rispetto all’attacco alle condizioni di vita, la restaurazione capitalista venne fatta passare con la retorica corporativistica, consumistica e occidentalista del “socialismo al goulash”, ma nei fatti produsse un immiserimento di massa sempre più crescente. Già a metà degli anni Settanta, la stessa stampa sovietica era costretta ad ammettere come circa un quinto della popolazione urbana, circa 25 milioni di persone, stesse precipitando in condizioni di povertà. L’aumento dello sfruttamento sul lavoro, il taglio ai servizi sociali e l’inflazione che falciava salari e pensioni rappresentarono delle costanti sia per i lavoratori dell’est che dell’ovest a partire dall’inizio degli anni Settanta.
Visto che la borghesia burocratica al potere si presentava come “comunista”, la disaffezione che si produsse a livello popolare verso il sistema venne facilmente raccolta da forze reazionarie legate all’imperialismo Usa, alle potenze europee e al Vaticano (come ad esempio il sindacato Solidarnosc in Polonia). Oppure venne tramutata facilmente in linea di massa per le tendenze che, promettendo miglioramenti con la retorica del cambiamento, traghettarono le masse verso l’affossamento ancora più pesante delle loro condizioni di vita, come avvenne prima con Gorbacev e poi con Eltsin in Urss. La spinta reazionaria della società venne ulteriormente foraggiata dalla riabilitazione a tutti i livelli della cultura borghese e anticomunista che i revisionisti misero in campo, legittimando e, per certi versi, sostenendo gli intellettuali liberali e nostalgici dello zarismo, dando libero spazio all’ideologia sciovinista russa e desistendo dal contrastare l’influenza ideologica del clero. Mentre nelle repubbliche sovietiche non russe, così come nelle democrazie popolari che presentavano un quadro multietnico (Cecoslovacchia, Jugoslavia, Romania…) crebbero i sentimenti nazionalisti e settari alimentati dalle borghesie locali, anche perlopiù travestite da “comuniste”, per riposizionarsi al potere sull’onda della balcanizzazione delle masse.
L’ultimo dato di cui dobbiamo tenere conto per inquadrare il procedere della crisi economica negli ex paesi socialisti è rappresentato dalla compenetrazione economica tra est ed ovest, superando quindi una mera visuale comparativa della dinamica della crisi capitalistica internazionale. Come già si diceva, la progressiva restaurazione del capitalismo in quello che era il campo socialista portò i paesi che lo componevano a un’integrazione sempre maggiore con l’economia imperialista dei paesi della Nato, della Comunità Europea e degli Usa, con un fortissimo disavanzo commerciale e l’indebitamento dei paesi dell’est a favore dell’ovest. La borghesia revisionista, pur dichiarandosi antimperialista e conducendo una competizione con quella atlantista nel dominio mondiale, alimentava tale squilibrio economico, perché era funzionale ai propri interessi di classe ricevere finanziamenti e condurre uno scambio diseguale con la borghesia dell’ovest, soprattutto nella fase di crisi economica. Tutto ciò poteva naturalmente essere scaricato sulle condizioni di vita delle masse dei paesi dell’Europa orientale e rappresentava un ulteriore fattore di distruzione delle conquiste, delle forze produttive e dei rapporti socialisti all’interno di quei paesi. Per la borghesia del campo della Nato ciò rappresentava la possibilità di scaricare sulle condizioni di vita dei popoli dei paesi dell’Europa orientale almeno parte della crisi che investiva la propria economia capitalista. All’inizio degli anni Ottanta l’indebitamento dei paesi del Comecon verso i paesi del campo della Nato era arrivato a 75 bilioni di dollari, di cui 19 costituivano la quota dell’Urss. Già nel 1979, tra il 30 e il 60% della produzione industriale sovietica veniva inviata a ovest per ripagare i capitalisti occidentali dei prestiti in denaro e in tecnologia.
La dissoluzione dell’Urss
La crisi economica e sociale fu il terreno oggettivo nel quale in Urss emerse una nuova linea revisionista, rappresentata da Gorbacev, che si poneva come progetto politico quello della “riforma” dell’Urss. La cosiddetta perestrojka, ovvero “ricostruzione”, dietro le formule sulla democratizzazione della società sovietica, mirava sostanzialmente a passare progressivamente da un capitalismo di Stato ad un capitalismo privatistico, o comunque a ridimensionare grandemente il ruolo dello Stato in economia. Questa linea rappresentava gli interessi della borghesia manageriale e dirigenziale delle aziende di Stato e rispondeva al suo interesse di aprire spazi di accumulazione capitalistica sottraendosi del tutto al controllo centralizzato statale, formalizzando così la reintroduzione di rapporti pienamente capitalistici attraverso le privatizzazioni. Ovviamente ciò trovò l’opposizione della grande borghesia burocratica di Stato, il tallone di ferro del breznevismo, che vedeva i propri interessi di potere oligarchico minacciati dall’avvento del nuovo liberalizzatore.
A ciò si aggiunse l’azione delle borghesie delle nazioni non russe (paesi baltici, Ucraina, Caucaso, centro-Asia) che spinsero verso il separatismo per garantirsi la propria fetta di potere locale.
Nella crisi gli interessi si acutizzano perché gli spazi di rendita e profitto di tutte queste fazioni di classe dominante si assottigliano e ognuna vuole contenderli all’altra. Il malessere delle masse permette inoltre a ognuna di queste fazioni di strumentalizzarlo mobilitandole a proprio favore e contro i rivali. Inoltre, le potenze imperialiste della Nato ovviamente intervengono per sostenere ogni tendenza, in primis in questo caso il “riformismo” di Gorbacev e il nazionalismo delle repubbliche non russe, che permise in definitiva di aprire spazi per la penetrazione imperialista a est e che consentì loro di strombazzare propagandisticamente il fallimento del socialismo.
Questa situazione destabilizzò via via il potere di Gorbacev e la linea della perestrojka che prospettava una transizione graduale verso le forme del capitalismo privato, mantenendo le vestigia ufficiali e l’unità dell’Urss, sul modello di come stava procedendo Deng Xiao Ping in Cina negli stessi anni. Si affermò, inoltre, in alternativa a Gorbacev, la linea propugnata da Eltsin – allora presidente della repubblica russa – di liquidazione immediata e totale dell’Urss.
Quando, nell’estate del 1991, l’ala brezneviana del Pcus tentò di condurre un golpe contro Gorbacev, il fallimento del colpo di mano portava definitivamente alla ribalta, come nuovo alfiere della transizione, Eltsin, appoggiato dalla borghesia che voleva far man bassa nel processo di privatizzazione e dagli imperialisti statunitensi ed europei. In reazione al golpe, egli mise fuori legge il Pcus e l’8 dicembre, assieme ai presidenti di Ucraina, Bielorussia, firmò l’accordo di Belaveza che sancì la sostituzione dell’Urss con la Comunità di Stati Indipendenti e dunque la secessione di fatto di tutte le ex repubbliche sovietiche. Gorbacev fu dunque costretto alle dimissioni il 25 dicembre e il giorno successivo il Soviet Supremo decretò lo scioglimento dell’Urss: la bandiera rossa fu ammainata dal Cremlino e sostituita dal tricolore della federazione russa, sorta dalle ceneri della repubblica sovietica russa.
Sotto Eltsin si determinò, dunque, la completa liquidazione delle forme socialiste in campo economico, sociale e politico; la borghesia di cui era espressione poté far man bassa liberamente di capitale pubblico, tramite un processo di privatizzazioni selvagge e di distruzione delle forze produttive che provocò esiti disastrosi per i popoli ex sovietici. [30] Si andava affermando in particolare il potere economico di un gruppo di capitalisti, in gran parte legati a organizzazioni mafiose, e denominati “oligarchi”, che si era spartito gran parte della ricchezza sociale ex sovietica e legato mani e piedi alla borghesia imperialista statunitense che stava di fatto assoggettando il paese sotto la sua influenza. Ciò produsse anche contrasti dilanianti all’interno della stessa classe dominante russa e un’opposizione di massa alla cricca di Eltsin il quale, nell’autunno del 1993, non esitò a far bombardare il parlamento perché si opponeva alle sue politiche e a far sparare sui manifestanti, molti dei quali sventolanti bandiere sovietiche, accorsi in piazza contro questo vero e proprio golpe, provocando centinaia di morti.
Solo l’affermazione del potere di Putin, pur cresciuto politicamente come rampollo di Eltsin, fermerà il processo di rapina economica selvaggia e di colonizzazione della Russia, determinando una rinascita su tutti i piani della potenza imperialista di Mosca. E solo con la guerra civile in Ucraina, dopo il golpe di Euromaidan del febbraio 2014, si fermerà stabilmente l’avanzata dell’imperialismo delle potenze della Nato verso l’area ex sovietica, grazie all’insurrezione delle masse popolari del Donbass, scese inizialmente nelle strade per difendere le statue di Lenin dalla furia dei golpisti, e a causa del posizionamento di difesa strategica che la Russia assunse, innanzitutto con l’annessione della Crimea.
Conclusioni
L’opera distruttrice del revisionismo moderno pone a tutti i comunisti la questione storica e teorica della transizione al comunismo. Ovvero ci costringe a confrontarci alla realtà della prassi che è andata oltre la comprensione teorica della transizione così come fu posta da Marx, Engels e Lenin [31] e ci pone le questioni delle contraddizioni che emersero dal processo di costruzione del socialismo, dalle quali sorse il revisionismo moderno.
Il Partito comunista cinese (Pcc), sotto la direzione di Mao Tse Tung, sicuramente comprese al meglio come la fase socialista di transizione sia segnata fondamentalmente dalla lotta tra la tendenza all’avanzamento verso il comunismo, che il proletariato rivoluzionario e i comunisti devono rappresentare, e la tendenza alla restaurazione del capitalismo, che le rimanenze di rapporti capitalistici alimentano e i revisionisti rappresentano politicamente. Commemorando il centenario della Comune di Parigi, nel 1971, i comunisti cinesi scrissero “La società socialista copre una fase storica assai lunga. In questa fase storica, esistono sempre le classi, le contraddizioni di classe e la lotta di classe. La lotta rimane imperniata sul problema del potere politico. La classe sconfitta continuerà a dibattersi; questa gente esiste ancora e anche questa classe. Per restaurare il capitalismo, essa cerca invariabilmente i suoi agenti in seno al partito comunista. Perciò il proletariato non solo deve guardarsi dai nemici come Thiers e Bismarck che rovesciarono con la forza delle armi il potere politico rivoluzionario, ma deve inoltre guardarsi, e in modo particolare, dagli arrivisti e dai cospiratori come Kruscev e Breznev che hanno usurpato dall’interno la direzione del partito e dello Stato. Per consolidare la dittatura del proletariato e prevenire la restaurazione del capitalismo, il proletariato deve condurre la rivoluzione socialista non solo sul fronte economico, ma anche sul fronte politico, ideologico e culturale ed esercitare una dittatura totale sulla borghesia nel campo della sovrastruttura, inclusi i vari settori della cultura”. [32] Tale fu l’obbiettivo della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (1966-1976), il più avanzato ed importante sviluppo della lotta di classe del proletariato nella storia dei paesi socialisti, guidato da Mao Tse Tung e dalla sinistra del Pcc.
La lotta ideologica e politica dei comunisti cinesi contro il revisionismo moderno si espresse su tre contraddizioni che determinano lo scontro tra via comunista e via capitalista nel socialismo: la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione e sociali, quella tra struttura e sovrastruttura e quella tra masse popolari e quadri e dirigenti comunisti. Contraddizioni che, evidentemente sono profondamente intrecciate o meglio fuse una nell’altra, essendo tutte e tre manifestazioni specifiche e concrete della contraddizione fondamentale tra proletariato e borghesia, tra avanzamento verso il comunismo e restaurazione del capitalismo, nella fase di transizione.
Rispetto alla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione e sociali, il dato fondamentale dello sviluppo delle forze produttive con l’instaurazione del socialismo venne sicuramente ritenuto confermato dall’esperienza storica dei paesi socialisti. Ma allo stesso tempo, il bilancio che i comunisti cinesi fecero sopratutto della costruzione del socialismo nell’Urss, evidenziò come allo sviluppo quantitativo delle forze produttive non si accompagnò automaticamente la costituzione di rapporti di produzione e sociali che rompessero con l’impostazione capitalista. Se il dato di fondo della socializzazione della produzione sicuramente si realizzò, nei rapporti produttivi reali e concreti mancò il superamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, il potere della tecnica, e dunque dei tecnici, si ampliò e la burocrazia dirigenziale poté proliferare finché, addirittura, ruppe il fondamento della socializzazione, con Kruscev e poi Breznev, per mutarsi in borghesia in forma burocratica e tecnocratica.
Allo stesso modo, nel campo della contraddizione tra struttura e sovrastruttura, si pose la questione della mancato corrispondenza tra l’avanzamento del socialismo sul piano strutturale, economico-sociale e l’evoluzione delle masse popolari nella partecipazione diretta al potere politico e nella rivoluzione dei rapporti giuridici, delle ideologie e dei costumi culturali. Questione posta, rispetto all’esperienza dei paesi socialisti, non nel senso del negare l’enorme progresso in termini di istruzione e cultura che essi riuscirono a comportare per le masse popolari, ma nel criticare la realtà di come i rapporti politici, giuridici e culturali dividessero la società socialista lungo linee di potere dalle quali la classe borghese restauratrice era riuscita a riemergere, procedendo in senso reazionario a partire dalle sue posizione nella sovrastruttura per ricostituire rapporti capitalistici nella struttura.
Infine, la contraddizione tra masse popolari e quadri e dirigenti comunisti può essere riassunta nel principio per cui la direzione politica è giustificata, sul piano rivoluzionario, solo nel senso di essere avanguardia, cioè nel costituire le condizioni per il suo stesso superamento da parte di coloro che sono diretti. Ciò significa che la posizione dei comunisti nella società socialista non è quella di amministratori dell’esistente, ma si conferma quella di promotori della trasformazione dell’esistente, cioè del superamento delle contraddizioni sociali in direzione del comunismo. Il revisionismo moderno si è affermato laddove la componente politico-soggettiva comunista non ha negato il proprio ruolo avanzando verso il comunismo, cioè svolgendo il ruolo di avanguardia delle masse popolari affinché il suo dato qualitativo plasmi il dato quantitativo che esse incarnano. Così facendo, l’avanguardia comunista, diventando ceto politico, ha svolto un ruolo di giustificazione in sé per sé, tramutandosi dapprima in amministratore dell’esistente e poi in retroguardia che restaura il passato, passando dall’essere burocrazia politica al ruolo di borghesia capitalista dipinta di rosso. La transizione in quanto tale assume un senso proprio perché è un passaggio obbligato verso il nuovo: se la soggettività che deve guidare questo sviluppo abdica dal suo ruolo la transizione non si realizza – e se non si va avanti significa che si va indietro – e l’elemento soggettivo della trasformazione diviene elemento soggettivo della conservazione e poi della reazione.
A questo passaggio si riconnette la concezione della lotta tra due linee in seno al movimento operaio e comunista che Mao Tse Tung e il Pcc sotto la sua direzione compresero come connaturante l’esistenza stessa del processo rivoluzionario e la vita dei partiti comunisti. Questa lotta tra due linee è il riflesso della contraddizione e della lotta di classe nella società. Nel socialismo essa rifletté specificatamente lo scontro tra gli interessi delle vecchie classi e della nuova borghesia che si sviluppava dai rapporti sociali predetti (nella produzione, nella sovrastruttura, nel movimento comunista) e l’avanzamento del proletariato dal socialismo verso il comunismo. La contesa di Marx ed Engels contro il socialismo utopico, reazionario e l’anarchismo, la battaglia di Lenin e dei bolscevichi contro i rinnegati della Seconda Internazionale e i menscevichi, lo scontro tra Stalin e la sinistra del Pcus contro Trotskji, Bucharin e i loro seguaci, la lotta di Mao Tse Tung e della sinistra del Pcc contro la destra revisionista, rappresentarono, nella concretezza della storia del movimento operaio e comunista, la contraddizione tra le due linee.
In tutte queste battaglie, che furono vitali per dare al proletariato una guida ideologica e politica per la sua missione storica di trasformazione della società capitalista, la sinistra vinse sempre quando riuscì a organizzarsi e a darsi una pratica, che nel rapporto con le masse significa darsi una “linea di massa”. [33] Invece, purtroppo, perse quando l’elemento cosciente o comunque quello più avanzato non riuscì ad essere tale anche nella pratica, fermandosi rispetto all’avanzamento rivoluzionario, finendo così schiacciato dalle implacabili contraddizioni reali mossi dalla destra, dal revisionismo e dunque dalla borghesia. Così fu per l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht nel 1919, su mandato del governo socialdemocratico tedesco, quando Kruscev si affermò al potere dopo la morte di Stalin; accadde ciò che in Cina, dove, nonostante il maoismo e la rivoluzione culturale, la destra del partito riuscì a realizzare il golpe revisionista del 1976 da cui nacque il regime capitalista e imperialista oggi al potere a Pechino. Laddove la sinistra non ha saputo svilupparsi nella pratica dello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione – l’unico campo dove essa possa effettivamente svilupparsi – allora la destra è dilagata.
L’elemento soggettivo, ovvero la coscienza dell’oggettivo, organizzata e capace di forza concreta, in ultima analisi può decidere di tutto.
Quindi, in ultima battuta, traiamo tre conclusioni dalla storia dei paesi socialisti, connessa al nostro presente.
La prima: la vittoria del revisionismo moderno è stata effettivamente un affondo strategico epocale contro il movimento comunista, nei termini della lotta di classe all’interno della fase di transizione e non, come dice la borghesia, nei termini del crollo dell’Urss e dei paesi del Patto di Varsavia nel biennio 1989-91, perché allora in quei regimi era già stato reintrodotto il capitalismo.
La seconda: la “morte del comunismo”, proclamata dalla borghesia ai quattro venti, è il risvolto fondamentale dell’ideologia per cui l’unico mondo possibile è quello presente e dunque rappresenta la necessità di obbligare intellettualmente e moralmente le classi oppresse ad accettarne il carico di sfruttamento, oppressione e barbarie. Viceversa, il comunismo emerge come rovesciamento delle contraddizioni oggettive che il capitalismo dimostra di avere a ogni piè sospinto, a partire dalla crisi economica per arrivare all’avanzare della guerra imperialista che pone un’ipoteca sul futuro dell’intera umanità.
La terza: il comunismo o, meglio, la necessità del comunismo, emerge dalle contraddizioni oggettive ma non può farsi avanti di nuovo nella storia se mancano i comunisti, se non si sostanzia come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. [34] Così è stato purtroppo nei paesi socialisti, laddove alle contraddizioni oggettive della fase di transizione ha risposto il revisionismo moderno, aggravandole nella direzione della restaurazione. Così dobbiamo evitare che succeda oggi, nel pieno dell’aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo.
Dobbiamo farci forza della straordinaria epopea che il movimento comunista ha costruito, di ciò che i paesi socialisti hanno rappresentato prima che la borghesia vi ritornasse al potere, del fatto che un’altra società – che essi hanno incarnato – è possibile. Dobbiamo farci forza di un bilancio storico che deve farci uscire a sinistra dai nostri errori, un bilancio di rilancio della lotta di classe, che solo il maoismo, formatosi sopratutto nella lotta al revisionismo moderno, riesce a darci.
Altro che “morte del comunismo”…
o comunismo o morte,
o comunismo o barbarie!
Note
[27] Cfr. AA. VV., Capitalismo monopolistico di Stato in Urss, edizioni Lavoro Liberato, 1977, p. 140.
[28] Così recitava l’editoriale della Pravda il 14 gennaio 1966. Citato in Bland B., “Restoration of capitalism in the Soviet Union”, 1980, marxists.org/archive/bland/index.htm .
[29] Il saggio di profitto corrisponde al rapporto tra plusvalore da una parte e capitale costante più capitale variabile dall’altra. Il singolo capitalista (qualunque soggettività lo incarni, nel caso qui analizzato si tratta di borghesie di Stato) è costretto, dalla concorrenza, ad aumentare l’investimento in capitale costante, cioè in miglioramento delle tecniche produttive e degli impianti. Ciò determina, nel medio-lungo termine, la caduta del saggio di profitto e costituisce fattore fondamentale della crisi del modo di produzione capitalistico.
[30] Vedi Antitesi n.3 “Comunisti: imparare dal passato, agire nel presente, trasformare il futuro”
Sezione 1: Sfruttamento e crisi
Articolo: “La restaurazione capitalista nei paesi socialisti – parte prima”
Paragrafo: “La morte del comunismo”
http://www.tazebao.org/la-restaurazione-capitalista-nei-paesi-socialisti-parte/
[31] Vedi Antitesi n.3 “Comunisti: imparare dal passato, agire nel presente, trasformare il futuro”
Sezione 1: Sfruttamento e crisi
Articolo: “La restaurazione capitalista nei paesi socialisti – parte prima”
Paragrafo: “La questione della transizione i Marx, Engels e Lenin“
http://www.tazebao.org/la-restaurazione-capitalista-nei-paesi-socialisti-parte/
[32] Redazioni del Quotidiano del popolo, di Bandiera rossa e del Quotidiano dell’esercito popolare di liberazione, “Viva la vittoria della dittatura del proletariato!”, 1971, in Opere di Mao Tse Tung, 25 volumi in versione cd rom, vol. 24, pp. 154 ss.
[33] “In tutto il lavoro pratico del nostro partito, una direzione giusta deve fondarsi sul seguente principio: dalle masse alle masse. Questo significa che bisogna raccogliere le idee delle masse (frammentarie, non sistematiche), sintetizzarle (attraverso lo studio trasformarle in idee generalizzate e sistematiche), quindi portarle di nuovo alle masse, diffondere e spiegare queste idee finché le masse non le assimilano, vi aderiscono fermamente e le traducono in azione e verificare in tale azione la giustezza di queste idee. Poi sintetizzare ancora una volta le idee delle masse e riportarle quindi alle masse perché queste idee siano applicate con fermezza e fino in fondo. E sempre così, ininterrottamente, come una spirale senza fine; le idee ogni volta saranno più giuste, più vitali e più ricche. Questa è la teoria marxista della conoscenza” Mao Tse Tung, “Alcune questioni riguardanti i metodi di direzione”, 1943, Ivi, vol. 8, p. 169.
[34] F. Engels – K. Marx, Ideologia tedesca, 1846,
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/index.htm
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scintillarossa.altervista.org