Antitesi n.04Classi sociali, proletariato e lotte

Dalla fabbrica delle merci a quella dei servizi

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.04 – pag. 29


Nel precedente numero di Antitesi abbiamo cercato di delineare i cambiamenti del modo di produzione capitalista e, nello specifico, ci siamo soffermati sull’industria e sull’introduzione di nuove organizzazioni produttive all’interno del manifatturiero. In questo articolo cercheremo di approfondire la categoria dei “servizi” e del “terziario” e la natura oggettiva dei lavoratori di questi settori.

Il mito del terziario

A partire dalla metà degli anni ottanta, dopo il riflusso seguito alle grandiose lotte degli anni settanta e alla temporanea sconfitta politico-militare del movimento rivoluzionario in Italia, i neo-operaisti e i post-operaisti hanno decretato “la fine della classe operaia”. Vista la “sconfitta” dell’operaio massa, sono andati alla ricerca dei nuovi soggetti della trasformazione. [1] L’abbandono della lettura oggettiva delle contraddizioni del sistema capitalista ha portato i vari “guru” a grossi abbagli: dall’apologia della globalizzazione, alla centralità dei “knowledge workers”, alle varie folgorazioni sulla new economy. La base di tutte queste visioni è l’idea che il processo rivoluzionario e il superamento del modo di produzione capitalistico siano il risultato non dello scontro di classe violento, della rottura rivoluzionaria che ha per oggetto la presa e la tenuta del potere, ma il prodotto di un crescendo lineare di lotte economiche che le soggettività rivoluzionarie devono portare alle estreme conseguenze al fine di portare alla crisi il sistema capitalista. Una volta determinatosi un riflusso nelle lotte economiche ecco che la classe operaia inizia a perdere valore, si cerca di metterne in luce un presunto ruolo decadente nel processo produttivo, negando di conseguenza la sua centralità dal punto di vista politico. A conti fatti, l’operaismo, una volta raggiunto il fondo negando il ruolo della classe operaia nel processo rivoluzionario e teorizzando il superamento da parte del capitalismo delle sue contraddizioni intrinseche, dimostra la propria collocazione all’interno del pensiero riformista borghese. [2]

Come abbiamo già avuto modo di affermare, il modo di produzione capitalista è cambiato, si è modificato, sotto il peso delle sue contraddizioni. La crisi non è una scelta della borghesia contro i proletari o un effetto della lotta di classe, la crisi è una conseguenza del processo di accumulazione del capitale. Il cuore del problema, oggi come ieri, rimane la produzione e la realizzazione del plusvalore.

Se agli operaisti va dato merito di aver saputo leggere i cambiamenti che sono avvenuti a livello produttivo e le trasformazioni imposte dalla vittoria del capitale sulla classe operaia, dall’altro va criticata l’interpretazione che hanno dato a questi stessi cambiamenti, ovvero come una affermazione definitiva della non-centralità della classe operaia nei nuovi processi, e la ricerca in presunti “nuovi” soggetti delle potenzialità di trasformazione sociale. Con l’effetto pratico di ritenere irrilevante l’intervento politico diretto nelle fabbriche e ponendo invece il quartiere e in generale il “sociale” come centro dell’iniziativa politica.

Dall’altra parte, la borghesia ha supportato tali idee con l’intento di dividere la classe lavoratrice e, attraverso i suoi mezzi di informazione, ha veicolato la tesi che vedeva nello sviluppo dei servizi finanziari, del turismo, dei servizi alla cultura, del telelavoro, nella informatizzazione le possibilità di sviluppo e di occupazione future per il capitalismo italiano, spremendo limoni sugli occhi dei proletari mentre ne attaccava le conquiste sociali.

Quando però i padroni analizzano le situazioni produttive, viene a galla chiaramente come i processi di terziarizzazione siano indirizzati ad una maggiore profittabilità del sistema manifatturiero. ciò emerge ad esempio dal documento elaborato dal Servizio Studi Intesa Sanpaolo: “La terziarizzazione dell’economia europea: è vera deindustrializzazione?”, nel quale si afferma che lo sviluppo dei servizi è direttamente connesso e funzionale al sistema dell’industria. [3]

Le esternalizzazioni, infatti, sono una diretta conseguenza del cambiamento di paradigma all’interno del modo di produzione capitalista posto di fronte alla crisi strutturale degli anni ’70. A far da apripista è l’industria automobilistica nella quale si sperimenta la cosiddetta produzione modulare, successivamente riprodotta in tutti i settori manifatturieri. La logica dell’outsourcing consiste nel sostituire, attraverso nuove forme, l’azione dei fornitori che si incaricano dell’erogazione di materie prime, articoli semi-elaborati, componenti, moduli e servizi, che precedentemente erano a carico delle imprese in maniera organica. Queste politiche di de-concentrazione dei processi di fabbricazione hanno dato l’avvio alla formazione di imprese appaltatrici e sub-appaltatrici dalle quali dipendono segmenti di lavorazione che, agli occhi della statistica borghese, appaiono come un servizio esterno rispetto a ciò che si realizza nell’impresa, ma che al contrario è parte della sua estensione.

Andando a guardare i numeri possiamo notare come questo processo abbia portato i servizi a svolgere nel 2015 “un ruolo sempre più rilevante: in Italia spiegano circa il 73 per cento del valore aggiunto dell’economia, a fronte di circa il 20 per cento rappresentato dalla manifattura.” [4] Questo fenomeno è spiegabile aggiungendo altri due fattori al ragionamento: in primis, l’internalizzazione delle imprese e lo sviluppo di nuovi servizi in relazione a questo processo e, in secundis, l’introduzione dell’informatica e lo sviluppo specifico di imprese in questo ambito.

Alla base di questi cambiamenti è la maggiore profittabilità della produzione manifatturiera alla ricerca di minori costi di produzione e di una maggiore flessibilità. Lo sviluppo dell’outsourcing è parallelo per le stesse ragioni a quello delle delocalizzazioni degli stabilimenti o della chiusura di aziende obsolete: un quadro complessivo che ha alimentato l’idea di un processo di de-industrializzazione e di modificazione del modo di produzione capitalista verso un suo nuovo step post-industriale, visione negata quantomeno dal dato sull’aumento della produttività in Italia nello stesso arco di tempo. [5]

Un altro aspetto da considerare quando si parla di terziario è l’ingresso del capitale privato in numerosi settori di competenza principalmente statale: come la sanità, le telecomunicazioni, la previdenza, il trasporto delle persone, i rifiuti solidi urbani, etc. aprendo al mercato attività che prima le erano escluse. Basti pensare al comparto della telecomunicazione che nel 2014 vede una natalità d’impresa poco al di sotto dei 20 punti percentuali contro il -2% del metalmeccanico. [6] Questo dato serve per comprendere la direzione degli investimenti del capitale, il quale, di fronte alla crisi di un settore, si dirige verso quelli più remunerativi siano essi manifattura o servizi.

Dal punto di vista dei lavoratori, le esternalizzazioni, così come le privatizzazioni sono un attacco al salario e ai diritti conquistati durante il ciclo di lotta precedente. La classe operaia pur rappresentando la maggioranza relativa dei salariati è quantitativamente monca di numerosi lavoratori che ora sono assunti in cooperative, piccole aziende di fornitura e sub-appalto, vengono assunti con forme contrattuali diverse come: interinali, apprendisti, stagisti in un circolo vizioso che ha trasformato le fabbriche da luoghi di concentrazione omogenea a gironi infernali stratificati per condizione di sfruttamento.

Il nodo aperto nel dibattito è quindi sulla natura dei lavoratori dei servizi. Se i lavoratori dei servizi sono niente di diverso dalla classe operaia oppure, come affermano gli operaisti, al suo interno si annida un nuovo soggetto che è in un rapporto nuovo e differente con il capitale.

In questo articolo ci proponiamo di sviluppare questo nodo a partire dalle categorie marxiste classiche cercando di valutarne la validità nella fase attuale.

Lavoro produttivo e lavoro improduttivo alcuni cenni teorici

Nell’analisi che ci proponiamo di attuare è importante dare delle definizioni teoriche in merito al lavoro produttivo e improduttivo e un approfondimento sullo sviluppo del settore dei servizi, il cosiddetto terziario.

In senso generale, ovvero staccato e astratto dal modo di produzione dominante, lavoro produttivo è una qualsiasi attività lavorativa che produce valori d’uso e quindi in merito alla produzione di valore d’uso tutto il lavoro è lavoro produttivo.

Ma “La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sé ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale.” [7]

Nel modo di produzione capitalistico, finalizzato alla riproduzione e all’accrescimento del capitale, alla produzione di plusvalore, la differenza tra lavoro produttivo e improduttivo sta nella diversa relazione che questo lavoro ha con il capitale.

Lavoro produttivo, quindi, è quella attività, materiale o immateriale, che produce plusvalore, poiché il capitalista ottiene plusvalore solo dall’impiego di forza lavoro, ed esclusivamente a questo valore egli è interessato non al suo valore d’uso. O meglio, per il capitalista, il valore d’uso che la forza lavoro possiede è propriamente quello di produrre plusvalore. In questo senso, qualsiasi lavoro può essere indifferentemente produttivo o improduttivo a seconda se rientra o meno nel rapporto di sfruttamento dominante, ovvero se produce plusvalore per il capitalista. A mo’ di esempio possiamo citare lo stesso Marx a riguardo: “un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale.” [8]

Affermato che lavoro produttivo è quella attività lavorativa che è in rapporto diretto con il capitale, in quanto producente plusvalore, ne discende la definizione di lavoro improduttivo ovvero come quel lavoro che non produce plusvalore.

Un esempio di lavoro improduttivo è quello riguardante i lavoratori del commercio e in generale della sfera della circolazione del capitale. Infatti, ricordiamo che “il processo di circolazione è una fase del processo di riproduzione. Ma nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore. Si hanno solo mutamenti di forma della stessa massa di valore. Si verifica in realtà unicamente la metamorfosi delle merci che in quanto tale non ha nulla a che vedere con la creazione o la trasformazione di valore”. [9] Ne consegue che i lavoratori addetti a questi settori (commessi, cassieri, banconieri, ecc.) vanno considerati come improduttivi in virtù del fatto che il capitalista del commercio e in generale della circolazione ottiene i suoi profitti non pagando integralmente al capitalista produttivo il lavoro non pagato contenuto nella merce, mentre vendendo a sua volta le merci, si fa pagare questa parte ancora incorporata nelle merci e per cui non ha pagato. Per esemplificare questo contenuto ai nostri lettori possiamo citare Foodora, Deliveroo o Just Eat; queste aziende di food delivery sono salite agli onori della cronaca grazie alle mobilitazioni dei riders, i ragazzi in bici che sfrecciano da una parte all’altra delle città per consegnare i cibi, a causa delle condizioni di sfruttamento nella quale lavorano. Da dove provengono i profitti di Foodora, Deliveroo o Just Eat? La risposta è nella commissione che i ristoratori pagano alle imprese che gestiscono l’app che varia dal 15% (escluso servizio di consegna) fino al 30% di ogni scontrino battuto dai ristoratori per mezzo dell’applicazione. Citando Marx “Come il lavoro non pagato degli operai crea direttamente del plusvalore per il capitale produttivo, così il lavoro non pagato dei lavoratori commerciali procura al capitale commerciale una partecipazione a quel plusvalore”. [10]

Ne consegue che dal punto di vista dei proletari essere lavoratori produttivi o improduttivi non cambia nulla. Dal nostro punto di vista, invece, è importante spiegare questi concetti in virtù del fatto che coloro i quali negano l’esistenza della classe operaia negano altresì l’esistenza dei lavoratori produttivi e in definitiva il funzionamento stesso del sistema nel quale viviamo: negano la ragion d’essere propria del capitalismo.

Il settore dei servizi alla produzione industriale

Il settore dei servizi viene considerato spesso un settore improduttivo in quanto riferito principalmente alla sfera del pubblico impiego. La macchina statale (servizi di polizia, magistratura, burocrazia, ministeri e l’insieme di tutte le articolazioni dell’apparato pubblico, compresa sanità e istruzione) è funzionale al mantenimento del sistema capitalista, ad esempio nella formazione e riparazione della capacità lavorativa, oppure nel mantenimento e nella gestione dell’ordine pubblico e della pace sociale.Ma proprio perché il loro lavoro non produce plusvalore essi sono da considerarsi lavoratori improduttivi.

Ma non tutti i servizi sono improduttivi di plusvalore. Il servizio è un altro modo di esprimere il particolare valore d’uso del lavoro in quanto utile non come cosa, in questo caso, ma come attività e in quanto valore d’uso esso è una merce vendibile come qualsiasi altra. E come abbiamo già affermato è indifferente appunto se un capitalista investa nella produzione di cose o di attività, l’importante è che esse contengano plusvalore.

Gli occupati nel settore dei servizi, in Italia, rappresentano il 67,6% del totale degli occupati, il 28,6% nell’industria e il 3,8% nell’agricoltura (dati Istat relativi al 2016). Ma in merito ai servizi connessi all’industria il dato più rilevante è un aumento progressivo negli anni, fino ad arrivare al 20% del totale degli occupati.

Analizzando il settore dei servizi produttivi, possiamo constatare come una delle branchie che si è sviluppata maggiormente negli ultimi anni sia quello dei trasporti e magazzinaggio e in generale della movimentazione delle merci, che occupa circa un milione e centomila lavoratori in Italia [11] e sul quale è intervenuto un processo di ristrutturazione importante.

Il comparto della logistica riveste un ruolo centrale in quanto più merci movimenta e più velocemente lo fa più “abbrevia il tempo di circolazione, esso accresce il rapporto del plusvalore al capitale anticipato, quindi il saggio del profitto”. [12] Il suo sviluppo in termini quantitativi deriva dalla riorganizzazione capitalistica all’interno della crisi, con una nuova divisione del lavoro incentrata sull’internazionalizzazione della produzione e dei mercati di sbocco, con il conseguente decentramento dei processi prima concentrati localmente e la costituzione di filiere produttive e magazzini di stoccaggio in altri paesi, affidando quindi alla movimentazione delle merci un ruolo di primo piano nella valorizzazione del capitale.

In Italia, le Infrastrutture Intermodali venivano introdotte con il Piano Generale dei Trasporti nel 1987 con l’obiettivo di riequilibrare lo sviluppo del trasporto ferroviario rispetto a quello stradale e alleggerire i centri urbani dalla congestione e dall’inquinamento della commistione del traffico merci. Il risultato da perseguire era quello di accentrare i traffici merci verso nuove aree attrezzate dove essere convogliate per ferrovia e poi ridistribuite su gomma tramite consegna e ritiro dei contenitori nel breve e medio raggio, di espletare operazioni doganali e offrire servizi aggiuntivi agli operatori del settore. Negli anni ‘90 venivano individuati i primi centri di primo livello localizzati principalmente nel Nord e Centro Italia. Il fatturato delle aziende della logistica in conto terzi, soprattutto straniere, che hanno potuto vantare anni di vantaggio in questo settore rispetto alle concorrenti italiane, si aggira attualmente sugli 80 miliardi nel 2016, con un trend positivo medio di 1,4 punti percentuali annui. [13]

Nel settore della logistica, negli anni, si è vista la maturazione di una componente di classe operaia molto combattiva e determinata. Le condizioni di sfruttamento in questi settori è altissimo: i turni, l’intensità di lavoro massacrante, i bassi salari, il caporalato e le forme di comando interne ai siti hanno fatto da molla per lo sviluppo di mobilitazioni che sono riuscite ad estendersi e radicalizzarsi in molti magazzini estendendo pratiche di lotta dove il protagonismo dei lavoratori è la forza trainante e riuscendo a strappare importanti vittorie. A fronte di queste mobilitazioni, la borghesia oppone tutta la sua forza con denunce, serrate, aggressioni fisiche alle avanguardie sindacali e ai picchetti. Ricordiamo su tutte la morte del lavoratore Abd El Salam Ahmed El Danf travolto da un tir durante un picchetto alla Gls di Piacenza nel settembre 2016.

La logistica e la movimentazione delle merci è una di quelle parti della produzione manifatturiera che è stata esternalizzata con l’introduzione della produzione modulare o outsourcing e che precedentemente queste operazioni erano sotto il diretto controllo dell’impresa produttrice. Un esempio è l’affidamento del 1994 della Fiat Auto alla TNT Automotive Logistics della logistica dei ricambi, un operazione di riorganizzazione che porterà la Fiat ad esternalizzare tutta la sua attività logistica (ritiro materiali dei fornitori, trasporto e gestione del magazzino) alla TNT nel ’98, la quale fonderà una società ad hoc la TNT Production Logistics dove verranno trasferiti 2000 operai precedentemente sotto contratto Fiat. Andando a guardare i dati della statistica borghese, questi 2000 operai non sarebbero più addetti alla manifattura e alla produzione auto con il relativo CCNL, sindacato, ecc., ma, come per magia, ora sono lavoratori dei servizi pur svolgendo le stesse mansioni di prima. Ma appunto, questa è la visione della borghesia. Dal nostro punto di vista non è cambiato nulla, solamente che ad ingrassare sul lavoro di quegli operai non c’è più il capitalista di prima, ma uno nuovo.

Il motivo che spinge aziende come Fiat ad operare queste scelte sono diverse: in primo luogo la minore estrazione di plusvalore da alcune parti del processo produttivo rispetto ad altre, cosa che le rende cedibili, mentre per un altro capitalista quello stesso lavoro può essere altamente remunerativo; in secondo luogo la necessità di avvalersi di specialisti per una determinata mansione, quindi sfruttando la capacità di una piattaforma logistica già avviata e consolidata a livello mondiale senza investire nulla; terzo, per attaccare i rapporti di forza costruiti dai lavoratori alle sue dipendenze semplicemente diminuendone la concentrazione e la quantità.

Ad oggi, quindi, molti lavoratori dei servizi sono direttamente collegati alla produzione. Essi svolgono compiti nell’industria che vanno dal supporto alla produzione di merci, che ne garantiscono la continuità ed efficienza o direttamente addetti ad alcuni reparti produttivi all’interno degli stabilimenti stessi. Ad esempio gli addetti alla manutenzione dei macchinari o gli addetti al controllo qualità dei prodotti finiti, che partecipano alla produzione di merci dall’esterno del processo produttivo in senso stretto, ponendolo nelle condizioni di perpetuarsi. Nondimeno però il loro lavoro concorre al valore della merce e dunque all’estrazione di plusvalore per il capitalista. Sono dunque assimilabili oggettivamente alla classe operaia industriale, in quanto il loro lavoro è condizione per la realizzazione di plusvalore per il capitalista della manifattura, proprio come gli operai direttamente addetti alla produzione.

Un altro esempio è quanto avvenuto nella grande cantieristica dove vi è stato l’affidamento di mansioni necessarie alla continuità della produzione a ditte terze, ma comunque sotto il completo controllo della direzione di produzione, con l’enorme sviluppo di ditte in appalto e sub-appalto responsabili di interi settori complementari alla produzione di navi. Questo emerge in maniera preminente alla Fincantieri, dove i dipendenti diretti sono un terzo circa dei dipendenti indiretti. Alla Fincantieri di Marghera, per esempio, questo è un dato costante da più di trenta anni: un migliaio di lavoratori hanno la “tuta blu con la scritta Fincantieri”, circa tre volte tanto di lavoratori hanno “tute blu” diverse e si assiste all’affidamento di tutte quelle mansioni, un tempo di diretto controllo della direzione di fabbrica ed affidate a personale dipendente diretto dello stabilimento, ora affidate ad altri (ponteggi, assemblaggio, montaggio arredamenti, impianti aerazione ed elettrici, ecc.) tenendo una forza lavoro variabile nei numeri e nel tempo a seconda delle esigenze di produzione just in time. La multinazionale ha così scaricato ed abbattuto i costi di produzione utilizzando un esercito industriale completamente flessibile alle esigenze produttive e costantemente ricattabile in funzione delle necessità della produzione. Un dato che è iniziato a partire dalla fine degli anni ottanta, grazie anche al disarmo generale subito dalla classe operaia ad opera dei sindacati di regime e dal ricatto imposto dalla ristrutturazione capitalista sulla testa degli operai. Ancora oggi si vede una divisione di questi settori operai che, al momento non hanno sviluppato un processo di unificazione delle lotte, nonostante, anche per i dipendenti diretti dei cantieri, le condizioni di vita e di lavoro siano notevolmente peggiorate in nome delle esigenze della produzione capitalista, come dimostrano gli ultimi casi di lotte contro una turnazione maggiore (il cosiddetto 6×6, sei ore di lavoro per sei giorni) imposta dai padroni col consenso sindacale confederale o l’ultima sigla dell’accordo integrativo interno che è arrivato ad incidere pesantemente sul salario dei lavoratori. Questa è una delle grandi vittorie che la borghesia è riuscita ad ottenere: dividere la classe per sfruttarla meglio.

Privatizzazioni e servizi alla persona

Della categoria dei servizi fanno parte anche quei lavoratori che non svolgono attività impiegate nella produzione manifatturiera (insegnanti di scuole private, infermieri in strutture private, imprese di pulizie, addetti ai call-center, etc.). Svolgendo attività che producono dei valori d’uso e inseriti all’interno di un rapporto sociale che arricchisce un capitalista (il proprietario della scuola, il consiglio d’amministrazione dell’ospedale, etc.), i lavoratori di queste settori si possono considerare come lavoratori produttivi tanto quanto gli operai di una fabbrica di auto o di bottoni, proprio perché, a prescindere dal valore d’uso da essi prodotto, al capitalista interessa unicamente che nei servizi da loro prodotti sia contenuto maggior valore di quello speso in macchinari materie prime e forza lavoro: che vi sia contenuto cioè del plusvalore.

Il capitale, in questa fase contraddistinta dalla crisi, cerca nuovi settori di investimento e di sviluppo, nuovi terreni dove possa aumentare la quantità generale del plusvalore estratto e valorizzare capitale in settori che prima non ne erano coinvolti. Questo è avvenuto con le privatizzazioni e l’esternalizzazione di attività prima effettuate da personale assunto direttamente dall’ente statale ed ora affidato ad imprese private. Per capire il valore di questo mercato e quanto facesse gola alla borghesia basti pensare che nei primi anni ‘90 il valore aggiunto delle imprese pubbliche costituiva quasi il 18% del Pil. L’Iri, l’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni) e l’Ente per le Partecipazioni e Finanziamenti dell’Industria Manifatturiera (Efim) occupavano più di mezzo milione di lavoratori. Inoltre, con la legge 142/1990, i servizi pubblici locali (Spl) che venivano erogati dagli Enti Locali e soprattutto dai Comuni vengono messi in vendita tramite un processo di esternalizzazione che si è concretizzato in: privatizzazioni formali, ossia la creazione di società di capitali a piena partecipazione pubblica derivata quasi sempre dalla trasformazione societaria di enti pubblici economici o aziende speciali; privatizzazioni sostanziali, avvenute attraverso la cessione a privati della società affidataria del servizio o del controllo di essa; affidamento al mercato, ossia ricorso a soggetti terzi (a capitale privato, pubblico o misto), stabiliti dopo una gara pubblica, che si occupano del servizio.

Successivamente, con la Legge Finanziaria del 2003 e del 2004, il governo ha compiuto una separazione tra i servizi pubblici a rilevanza industriale e quelli esenti da tale rilevanza, introducendo per i primi una differenziazione tra le reti (beni e dotazioni patrimoniali finalizzati all’erogazione del servizio), che rimangono pubbliche e la gestione del servizio che invece è aperta al mercato attraverso le gare. Questo ha fatto sì che si siano create due diverse posizioni e due diverse funzioni; da una parte l’Ente Locale che ha il compito di controllare e indirizzare e, dall’altro, il soggetto esterno che eroga di fatto il servizio e trae un profitto.

Questi processi di privatizzazione hanno portato il lavoro di questi comparti da improduttivi a produttivi di plusvalore. Il primo effetto di questo cambiamento sono state le notevoli ristrutturazioni che hanno coinvolto i lavoratori in massicci licenziamenti, peggioramenti sul fronte dei salari, estensione della precarietà con l’utilizzo di varie forme contrattuali di lavoro a termine, peggioramenti delle condizioni di lavoro per i cambiamenti di orari, turnistica, ecc.

Nell’istruzione pubblica, ad esempio, è avvenuto con l’affidamento a ditte private della gestione delle mense scolastiche, nella sanità con lo scorporo di alcune funzioni come i centri di prenotazione o il servizio infermieristico ausiliario, dove si hanno infermieri dipendenti della struttura pubblica e gli ausiliari (gli operatori socio sanitari Oss) dipendenti di aziende private o cooperative.

Nella sanità la mercificazione della salute si è inoltre sviluppata con l’introduzione dei project financing. I capitali privati si sono inseriti nella costruzione di nuovi ospedali pubblici in cambio della concessione di utilizzo dei macchinari sanitari e la gestione dei servizi, riuscendo così a penetrare in regime di monopolio all’interno della sanità pubblica. Il primo project financing nella sanità ha riguardato la costruzione del nuovo ospedale di Mestre (Ve), l’ospedale “All’Angelo”. La società di gestione dell’ospedale è la Veneta Sanitaria Finanza di Progetto spa (Vsfp), composta da una Ati (associazione temporanea di impresa) che comprende le ditte Astaldi, già presente nelle opere del Tav in Val di Susa, Mantovani, principale azienda nella costruzione del Mose, Gemmo, Cofely Sinergie, Mattioli e Studio Altieri. Nella costruzione dell’ospedale hanno investito 105 milioni (con un capitale liquido di circa 20 milioni, il resto in mutui con le banche), contro i 124 del pubblico, e ricevono un canone annuale di 71,5 milioni di euro per 24 anni, durata della concessione, pagati dall’Azienda Ulss veneziana che in questo modo rimborsa a peso d’oro il capitale investito per i muri, paga gli interessi finanziari e i servizi che riguardano radiologia, laboratori di analisi, energia e calore, verde, sistema informatico, rifiuti, manutenzioni, fornitura macchine con istruzione del personale, ristorazione, pulizie, trasporti interni. Gli enormi profitti che i privati ottengono nella gestione dell’ospedale sono ovviamente scaricati sulle spalle delle masse popolari e dei lavoratori che hanno visto peggiorare le proprie condizioni di lavoro e i costi sanitari aumentati: si stima che un semplice prelievo di sangue all’ospedale All’Angelo costi il 40% in più che in un’altra struttura sanitaria.

Altro esempio riguarda la privatizzazione di Poste Italiane. Con la privatizzazione iniziata nel 1998 dal governo Prodi, affidata all’allora amministratore delegato di Poste Italiane Corrado Passera, si diede avvio ad una innovazione tecnologica complessiva che trasformò Poste nella rete informatica più vasta d’Italia, volta a rendere l’azienda più appetibile all’investimento del capitale privato. Inoltre, venne effettuato un taglio del personale pari a ventiduemila unità e i nuovi assunti videro solo contratti triennali di apprendistato e in generale ci fu un peggioramento delle condizioni di lavoro. Obiettivo dell’operazione era quello di scorporare la parte di gestione finanziaria da quella dei servizi postali classici. Nacque così BancoPosta, con 140 mila dipendenti, 13 mila uffici in tutto il territorio e 33 milioni di clienti, diventando praticamente la cassa di risparmio di gran parte degli italiani, con i suoi 498 miliardi di euro.

Questo processo di privatizzazione ha avuto un ulteriore acceleramento con il decreto del governo Renzi del 2015 che ha proceduto alla quotazione in borsa del 35,5% del capitale di Poste Italiane, aprendo così maggiormente al capitale privato.

La fornitura dei servizi postali si aprì agli operatori privati nel 2011, con un’operazione iniziata con l’allora governo Berlusconi e perfezionata col governo Monti, che ha visto l’inserimento di multinazionali come la Sda e di moltissimi altri operatori che gestiscono parte della consegna di pacchi postali, raccomandate, assicurate e altro, che basano il loro profitto sulla intensità di sfruttamento dei lavoratori, con contratti di fittizia collaborazione, molto spesso basati sul pagamento a cottimo. Proprio nella Sda e nelle cooperative che ne gestiscono in appalto i magazzini, si sono sviluppate in questi ultimi mesi delle durissime lotte dei lavoratori per protestare contro le pesanti condizioni di lavoro e salariali e che hanno causato un grande ritardo nelle consegne dei pacchi postali.

Rispetto a quanto detto finora è interessane notare quanto sta avvenendo in un altro settore di pubblica utilità, già di per sé privatizzato, quello dei tassisti: Negli ultimi anni la multinazionale Uber cerca di inserirsi nel mercato del trasporto non di linea cittadino in concorrenza con gli autisti dotati di licenza. Lo scontro è chiaramente tra un settore della piccola borghesia, di fatto proprietaria unicamente delle licenze (le cui cifre nelle città principali si aggira attorno ai 150.000/200.000 di Milano e Roma con punte fino ai 400.000 di Venezia) e, dall’altro, un esponente del grande capitale che tramite le innovazioni tecnologiche sul mercato (la famosa app per smartphone) può vendere lo stesso prodotto a prezzi inferiori, garantendosi comunque lauti profitti grazie alla riduzione del capitale organico, poiché i lavoratori Uber, formalmente indipendenti, utilizzano la propria auto, con le spese di manutenzione, carburante e assicurative a proprio carico.

All’interno di questo scontro si intravede però cos’è la liberalizzazione e l’esternalizzazione dei servizi: se in un primo momento aprono spazi di mercato anche alle piccole imprese (vedi le varie cooperative o piccole imprese aperte magari da ex lavoratori dipendenti), in un secondo momento si scontrano con le leggi del mercato, nel quale è il grande capitale a farla da padrone.

Un altro fattore del quale tener conto è l’effetto dell’apertura al mercato privato dei servizi di pubblica utilità per i dipendenti pubblici stessi. Quest’ultimi oltre all’attacco mediatico che li ha dipinti come “parassiti”, “scansafatiche”, “inutili”, etc. sono stati oggetto di una ristrutturazione pesante in termini di salari e tempi di lavoro. Basti pensare al fatto che il Ccnl del pubblico impiego è bloccato dal 2010. Ma in questa fase di crisi generale del sistema capitalista la loro condizione è minacciata proprio per il fatto di essere improduttivi nel senso di produzione di plusvalore. Le politiche di tutti i governi borghesi che si sono succeduti in questi anni, improntate al taglio della spesa pubblica, hanno colpito soprattutto i lavoratori del settore pubblico in termini di blocco dei salari, blocco del turn-over, aumenti e flessibilità degli orari e dei ritmi. Questo è stato ratificato anche con passaggi formali come i ferrei patti di stabilità nel rapporto dello Stato con gli enti locali, comuni, regioni, città metropolitane che tagliano e limitano i bilanci di questi enti e che hanno prodotto la riduzione dei servizi sociali per le masse popolari (scuola, case, sanità). O con l’inserimento nella carta costituzionale del pareggio di bilancio, voluto prima dal governo Berlusconi nel 2011 e concretizzato nel 2012 con l’allora mercenario del capitale Monti al governo e con il voto unanime del parlamento che obbligano all’osservanza dei vincoli economici derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea.

Conclusioni

Abbiamo sin qui visto come la parte del proletariato non strettamente industriale, genericamente inteso come lavoratore dei servizi, sia strettamente connesso alla riproduzione del capitale e come il capitale abbia cercato di acquisire nuovi settori di investimento per l’estrazione di plusvalore.

Se questa connessione emerge da un’analisi dall’interno dei meccanismi di riproduzione del capitale, oggettivamente non emerge invece dal punto di vista soggettivo dell’unità di classe. Anzi, il dato che dobbiamo rilevare dalla realtà che come comunisti viviamo è quello di una frammentazione, sia all’interno della classe operaia, che del proletariato in generale sul piano economico-sociale, che si riflette in una inazione politica generale. [14]

Qui, ribadendo ulteriormente la questione della centralità operaia, abbiamo anche visto la sua estensione in settori apparentemente non produttivi dovuta ai processi riorganizzativi del capitale a fronte della crisi generale del sistema capitalista. Attraverso questi processi riorganizzativi (privatizzazioni nel settore pubblico, esternalizzazioni e ristrutturazioni) il capitale ha proceduto di fatto ad una “operaizzazione” dei lavoratori facenti parte di questi processi, trasformandoli, o meglio sussumendoli, in lavoratori produttori di capitale potenziale, di plusvalore, e quindi in classe operaia.

Il ruolo che la centralità della classe operaia assume nel processo rivoluzionario per l’abbattimento del modo di produzione capitalista, ruolo che è una diretta conseguenza oggettiva dei rapporti di produzione capitalistici, che dialetticamente è riproduzione di questi rapporti, ma anche distruzione degli stessi, lo può espletare soggettivamente quando ha una capacità di direzione politica nei confronti degli altri settori del proletariato e delle altre classi nella lotta contro i capitalisti, costituendosi come soggetto per la trasformazione rivoluzionaria della società.

Compito dei comunisti è lavorare perché questo ruolo si possa esplicare oggi nella lotta anticapitalista, e far sì che la classe operaia soggettivamente assuma il ruolo di direzione politica degli altri settori del proletariato.

In questi anni di pesante crisi economica molti sono stati gli esempi di lotte che il proletariato ha attuato contro i licenziamenti e gli attacchi dei padroni alle conquiste dei lavoratori. Le durissime lotte dei lavoratori del comparto della logistica e la grande diffusione che esse stanno ottenendo, influenzando anche altri settori di lavoro, così come le ribellioni che travalicano i confini sindacali che sono avvenute in grandi fabbriche come l’Ilva e l’Alcoa, scalzando la direzione revisionista dei sindacati confederali, valorizzano il protagonismo operaio e dimostrano a tutti la volontà di lotta della classe operaia, che non si fa rabbonire dai pompieri sociali di mestiere, resistendo al tentativo da parte dei padroni di scaricare sui lavoratori il peso della crisi.

È necessario che i comunisti mettano in atto tutte quelle azioni pratiche e organizzative che si indirizzano verso l’unificazione dei vari segmenti di classe del proletariato sulla base della iniziativa politica per la prospettiva rivoluzionaria, proponendo come centrale l’intervento politico nei luoghi di lavoro, nei vari comparti produttivi e nei servizi.

Unificazione politica della classe che dovrà avvenire attraverso momenti organizzativi pratici coinvolgenti i diversi settori del proletariato, riconoscendone il ruolo oggettivamente antagonista al modo di produzione capitalista, partendo principalmente dalle lotte che il proletariato esprime nella resistenza e nella difesa delle proprie conquiste. Momenti organizzativi che mettano in primo piano la necessità di uscita dal sistema capitalista, da questo sistema di sfruttamento, che pongano la questione della lotta per il potere della classe operaia.

Note

[1] “Dentro l’esperienza di Potere Operaio siamo riusciti ad intuire che la proposta di comunismo non veniva ormai più dalla fabbrica ma dall’autonomia di un nuovo proletariato sociale, immateriale e produttivo”. Citato da una recensione di Toni Negri al libro di Bifo: F. Berardi, La nefasta utopia di Potere Operaio, Milano, Castelvecchi, 1998) pubblicata da il manifesto il 20 maggio 1998. 

Negri non ha dubbi, la profezia di Marx è già realizzata: a creare ricchezza non è più il lavoro, ma la scienza e la tecnica, il general intellect che non risiede nella fabbrica ma nella società” in M. Turchetto, Operaismo: ascesa, metamorfosi, eclissi, p. 17.

[2] Vedi anche Antitesi n. 2 “Tendenze globali nella crisi del capitalismo”
Sezione 1: Sfruttamento e crisi
Articolo “Il proletariato internazionale e la crisi”
http://www.tazebao.org/il-proletariato-internazionale-e-la-crisi/

[3]  Clash City Workers, “Dove sono i nostri? Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi”, edizioni La Casa Usher Firenze-Lucca 2014 pag. 24-25. Vedi anche Antitesi n.1 p. 26

[4]  http://www.istat.it/it/files/2015/02/Rapporto-competitivit%C3%A0-2015.pdf

[5] http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-05-29/produttivita-sonno-durato-20-anni-103704.shtml?uuid=AD4fikR

[6] https://www.istat.it/it/archivio/189155

[7] Karl Marx, Il capitale, Libro primo, quinta sezione, capitolo quattordicesimo, p. 556, Editori Riuniti, 1989, Roma

[8] Idem

[9] Karl Marx, Il Capitale, reperibile su
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_3/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_III_-_16.htm

[10] Karl Marx, Il Capitale, reperibile su
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_3/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_III_-_17.htm

[11] http://contropiano.org/news/lavoro-conflitto-news/2017/04/20/nel-cuore-della-logistica-conflitto-pesa-091034

[12] Karl Marx, “Il Capitale” Libro terzo, quarta sezione, capitolo sedicesimo, pp. 336-337

[13] http://www.ilsussidiario.net/News/Impresa/2015/11/12/I-NUMERI-Riparte-la-logistica-Nel-2016-fatturato-Italia-oltre-gli-80-miliardi-/654925/

[14] V edi Antitesi n.3 “Comunisti: Imparare dal passato, agire nel presente, trasformare il futuro – prima parte
Sezione 2: Classi sociali, proletariato e lotta
Articolo: “Dalla frammentazione della classe, all’unità del politico
http://www.tazebao.org/classi-sociali/

Sitiografia:

www.marxismo.net

www.istat.it/it/files/2016/12/ItaliaCifre2016.pdf

www.ilsole24ore.com/…/i-conti-d-oro-ospedale-mestre-063742.sht

www.astaldi.com/en/documents/edilizia-e-territorio-finisce-la-tav-le-strategie-dei-big

www.lavocedellelotte.it/it/2017/06/03/dove-porta-la-privatizzazione-di-poste-italiane/

http://www.02blog.it/post/58321/che-cose-uber-il-servizio-di-auto-a-noleggio-che-fa-arrabbiare-i-tassisti-milanesi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *