Antitesi n.03Sfruttamento e crisi

La restaurazione capitalista nei paesi socialisti – prima parte

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.03 – pag.4


La “morte del comunismo”

Il muro di Berlino è caduto addosso a noi operai”. Così, più di una decina d’anni fa, durante un dibattito pubblico a Sesto San Giovanni (Milano), un anziano compagno riassunse con pochissime parole, ma con estrema efficacia, il portato devastante che il crollo dell’Urss e degli altri paesi cosiddetti socialisti ebbe per i lavoratori di tutto il mondo. [1]

Infatti, per tutte le classi sfruttatrici del mondo, poter proclamare la “morte del comunismo”, rappresentò, oltre a tutte le conseguenze globali sul piano economico, politico e militare del venir meno dell’area del Patto di Varsavia, una sorta di palingenesi storica.

Quest’ultima avrebbe dovuto consistere nell’ingresso dell’umanità in una nuova era, dove l’idea della divisione in classi della società e la pratica della lotta di classe erano defunte, difronte alla superiorità per tenuta interna e proiezione mondiale del modello “democratico occidentale”. Per la borghesia monopolista, in primis per le sue fazioni unite nell’alleanza antisovietica della Nato, si trattò dell’equivalente ideologico dell’armamento nucleare a livello militare: negare la possibilità che, attraverso la lotta di classe sul fronte interno delle singole società capitalistiche e attraverso la liberazione dal dominio neocoloniale sul fronte esterno internazionale, vi potesse essere, per i lavoratori e gli oppressi in genere, un’alternativa storica possibile all’imperialismo, rendeva di fatto legittimo lo sbarazzarsi completo di tutte le forze e di tutti gli ostacoli che gli si opponevano. Il sistema del capitalismo imperialista, che concentra la ricchezza mondiale nelle mani del 1% della popolazione a prezzo dello sfruttamento e dell’oppressione sociale del restante 99%, doveva essere considerato l’unico mondo possibile e quindi anche il migliore, il più avanzato e sempiterno modo di organizzare la vita sociale da parte dell’umanità. Infine, la cosiddetta globalizzazione dell’economia, sempre secondo la narrazione occidentalista, una volta superato lo scoglio dell’Urss e della “cortina di ferro”, avrebbe unito i popoli in un’era di pace e prosperità.

Le classi dominanti pesarono queste loro “verità” sulla bilancia dei rapporti di forza generali tra le classi, in primis il proletariato, e la videro pendere al massimo a loro favore. Del resto non fu assolutamente un caso, come approfondiremo successivamente, che l’implosione dei regimi socialisti dell’Europa Orientale avvenne proprio nella fase in cui si andava via via manifestando la crisi generale del sistema di produzione capitalistico, con gli Usa e il Giappone in recessione a partire dall’inizio degli novanta, l’aumento esponenziale della disoccupazione in Europa tra gli anni ottanta e novanta e il verificarsi di numerosi dissesti finanziari, tra cui il tracollo svalutativo della lira italiana nel biennio 1992-1993.

Nel concreto contesto di questa crisi, la caduta di quello che era stato il campo socialista, consentiva di preventivare, con il ricatto ideologico-politico del cosiddetto “unico mondo possibile”, lo svilupparsi della tendenza alla lotta di classe, isolando le soggettività rivoluzionarie e aprendo spazi al ceto politico dei partiti revisionisti-riformisti ex filosovietici, di modo che non svolgessero semplicemente un ruolo indiretto di egemonia e controllo sulla classe, ma capitalizzassero decenni di tale funzione, entrando finalmente nelle sfere e nei vertici dei regimi borghesi. La parabola del Pci-Pds-Ds-Pd in Italia, da questo punto di vista, è esemplare. Tutto ciò fu funzionale alle politiche generali che la borghesia imperialista e le classi dominanti attuarono nei diversi paesi, conducendo degli attacchi via via più profondi alla condizione operaia e popolare, distruggendo gran parte delle conquiste che le lotte dei decenni scorsi avevano strappato, nell’ambito delle quali si era rafforzata anche la prospettiva del rovesciamento generale del sistema capitalista mediante la rivoluzione proletaria. Per la grande borghesia, si trattava di una riconquista di spazi di profitto e rendita, a spese dell’aumento dello sfruttamento e della spoliazione sociale, oggettivamente necessari nella crisi generale del sistema capitalista, giustificati idealmente dal neoliberismo, imposto come pensiero unico e fondato sull’anticomunismo.

Gli ultimi prodotti di questo arretramento storico della condizione operaia e proletaria sono stati, per citare due esempi, il Jobs Act in Italia e la legge El Khomri in Francia.

Se tale andamento dei fatti riguarda soprattutto i paesi dell’Europa Occidentale, nei quali, per l’appunto, le classi dominanti utilizzarono la “fine del comunismo” per avanzare nei rapporti di forza interni con la classe lavoratrice, le cose non andarono e non vanno affatto meglio per quest’ultima in quelli che furono gli ex regimi socialisti. L’agenzia Onu per lo sviluppo, nel 1999, stimò in 10 milioni i morti provocati dal crollo dell’Urss e degli altri paesi ex socialisti, dovuti ai più svariati fattori che ne accompagnarono il tracollo. Ad esempio, in Russia, a causa dello smantellamento delle conquiste sociali del periodo sovietico, tra il 1990 e il 1995, vi fu un aumento del tasso di mortalità del 41%: complessivamente tre milioni di morti in più; il doppio di quanti, durante l’aggressione nazifascista nella Seconda guerra mondiale, si produssero tra i civili per cause relative alle difficilissime condizioni di vita. Tuttora, la condizione di durissimo sfruttamento a cui è sottoposta la classe operaia dei paesi dell’Europa Orientale, ne ha fatto un eldorado per i capitalisti, soprattutto quelli dell’Europa Occidentale, che vi hanno delocalizzato una fetta consistente delle loro produzioni. E, naturalmente, la costante minaccia in tal senso rispetto agli operai dei paesi “occidentali”, diede una dimensione perfettamente concreta a quel disastroso avanzamento nei rapporti di forza a favore della borghesia che fu conseguente al dissolvimento dei regimi cosiddetti socialisti. [2]

I 10 milioni di proletari e lavoratori morti nella restaurazione politico-economica in Europa Orientale e nell’area ex-sovietica costituiscono una sorta di bilancio di guerra e, nei fatti, tale processo rappresentò, in quel conflitto politico-militare che il campo socialista a guida sovietica e quello capitalista a guida Usa combatterono nella seconda metà del secolo scorso, una vittoria ottenuta per implosione interna dell’avversario. Questo riposizionamento dell’imperialismo delle potenze atlantiche sugli scenari mondiali, a livello economico, politico, militare e finanche culturale-ideologico (il mito della “democrazia occidentale”), rappresentò un grandioso passo in avanti strategico per le loro mire globali, permettendo un rallentamento momentaneo dello sviluppo della crisi perché distrusse ampi porzioni di forze produttive e capitali, nonché aprì nuovi spazi di accumulazione nei mercati riconquistati ai nemici del Patto di Varsavia. Gli anni novanta furono definiti, dagli apologeti coscienti e involontari dell’imperialismo yankee, quelli dell’unipolarismo degli Usa, innanzitutto “dimenticando” come nello stesso campo della Nato permanevano diverse potenze imperialiste, con interessi a volte contrapposti.

Ma ogni guerra evitata, nella fase di crisi dell’imperialismo, significa una guerra futura ancora più devastante. Già nella fase contemporanea e immediatamente posteriore al disfacimento dell’Urss e dei paesi ex socialisti, fu chiaro che l’imperialismo delle potenze atlantiche si faceva strada nelle loro crepe e poi macerie, laddove trovava il minimo ostacolo, attraverso la balcanizzazione e la guerra (come dimostra il caso dell’Afghanistan, del Caucaso e della Jugoslavia) e, sempre con questi stessi mezzi, rilanciava il proprio potere nelle aree strategiche del pianeta (il 1991, anno di scioglimento dell’Urss, fu anche quello della Prima guerra del Golfo). Le direttrici dei conflitti di allora – mondo arabo, Asia Centrale ed est Europa – sono le stesse di oggi, solo che sono divenute ben più vaste (pensiamo all’incendio mediorientale) oppure potenzialmente molto più gravi (come nel caso dello scontro Russia/Ue e Usa per spartirsi l’Europa Orientale).

Tutte le menzogne della borghesia imperialista europea e statunitense, successive alla caduta del “muro di Berlino”, si sono rivelate per quelle che erano. L’odierno aggravamento della crisi ha esacerbato la divisione in classi delle società un tempo definite “ricche”. La tendenza alla guerra a livello mondiale si è acutizzata, arrivando a toccare stabilmente, con gli attacchi di ritorsione dei gruppi islamisti-jihadisti, anche alle metropoli dei paesi imperialisti che promuovono le aggressioni neocoloniali. Persino la “globalizzazione” capitalista è sulla via del tramonto, a causa delle misure protezionistiche che numerosi governi stanno attuando.

Su una cosa, in parte, la borghesia imperialista è riuscita a mantenere le sue premesse: la “fine del comunismo”. Da questo punto di vista, di egemonia soggettiva, sicuramente la caduta dei cosiddetti paesi socialisti ha dato un vantaggio enorme al nostro nemico di classe: quello di danneggiare gravemente la parte più avanzata del proletariato che, a partire dalle contraddizioni oggettive del presente, possa lottare per la sua trasformazione. In una parola, i comunisti. Essi sono stati gravemente indeboliti a causa del fatto, divenuto definitivamente “storia” secondo l’egemonia della classe dominante, che il crollo dell’Urss e degli altri paesi dell’est, come dicevamo, rappresentasse la fine di ogni alternativa al sistema economico, sociale e politico capitalista.

Ovviamente, l’arretramento dei comunisti, peraltro con notevoli eccezioni [3], non si spiega solo rispetto a tale fattore negativo, ma certamente esso tende ad avere un effetto politico-ideologico paralizzante. Una delle prime cose che qualsiasi compagno e compagna che inizia a praticare attività politica si sente rinfacciare è il “fallimento del comunismo”. E finché lo dicono i nostri nemici di classe o coloro che ne subiscono pienamente l’egemonia non c’è nulla da stupirsi: in fondo lo hanno sempre detto. Il grave è che lo dicono, legittimamente, anche operai, lavoratori e proletari che su molte altre questioni riescono ad avere una coscienza autonoma dalla classe dominante.

Nel rilancio della nostra azione di comunisti, a partire dalla nostra formazione politica, a cui questa rivista vuole essere funzionale, occorre dunque fare un bilancio dell’esperienza dei paesi socialisti. Se non vogliamo accettare la tesi borghese della “fine del comunismo”, dobbiamo formulare una “antitesi” proletaria che raccolga il patrimonio del passato per rilanciare la lotta nel presente, in funzione e verso la sintesi futura del comunismo.

La questione della transizione in Marx, Engels e Lenin

Il marxismo ci ha insegnato che “la storia di tutta la società, svoltasi fin qui, è storia di lotte di classe” [4] e che la borghesia ha abbattuto il sistema feudale, imponendo il proprio dominio come classe e strutturando la società come capitalista. “Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha distrutto le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche. Nondimeno l’epoca nostra, che è l’epoca della borghesia, presenta una notevole differenza rispetto alle altre, in quanto in essa le opposizioni di classe si sono semplificate. L’intera società si va sempre più scindendo in due campi nemici, in due classi direttamente opposte: la borghesia e il proletariato”. [5] In linea generale, il cambiamento sociale è frutto della contraddizione tra rapporti di produzione, che strutturano il dominio delle vecchie classi, e forze produttive, che possono emergere e liberarsi solo con l’azione rivoluzionaria delle nuove classi. “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”. [6]

Ma quali sono le differenze di fondo che dividono la contemporanea e attuale lotta rivoluzionaria del proletariato per il superamento della società capitalistica e quella che combatté a suo tempo la borghesia contro la società feudale?

La prima è relativa alla posizione occupata dalla classe rivoluzionaria nelle società che essa deve trasformare. Mentre la borghesia, nella società feudale, è già una classe che detiene il potere economico, e dunque rapporti capitalistici di produzione e appropriazione della ricchezza sono già presenti nella società, nella società capitalistica il proletariato è una classe totalmente oppressa, che non detiene il potere economico, la quale non può contare su rapporti economico-sociali sviluppati in senso socialista, ma unicamente sul carattere sociale e collettivo dello sviluppo delle forze produttive. [7] Quindi nella costruzione della propria egemonia sociale, mentre la borghesia è rafforzata dal detenere potere economico e su questo può puntare i piedi per arrivare a detenere il potere politico, il proletariato può contare solo sull’azione politica e sul suo sviluppo fino alla conquista del potere statuale. Ad esempio, se l’affermazione al potere della borghesia in Europa è avvenuta con il sovvertimento violento dell’ordine feudale, è altresì innegabile che, in parte, questo processo, guardando a specifiche situazioni storiche e soprattutto in determinati paesi tra cui il nostro, si è svolto mediante la fusione, la cooptazione, l’alleanza e il ricambio pacifico tra le due classi sfruttatrici. La crescita del potere economico della borghesia era tale che essa inevitabilmente allargava la sua influenza sul potere politico e su quella classe nobiliare da cui era tradizionalmente detenuto, fino a riuscire progressivamente a sostituirla come classe dominante. [8]

La seconda è relativa al rapporto tra classe dominante e classe dominata nel loro succedersi al potere. La grande borghesia e la classe feudale-aristocratica hanno un ruolo equivalente rispetto al resto delle classi e della società, quello di oppressori e sfruttatori. Pertanto, l’affermazione al potere della prima rispetto alla seconda poteva comunque basarsi, almeno in una prima fase, su larga parte delle sovrastrutture politiche, culturali e ideologiche che quest’ultima aveva costruito, a sua volta sedimentatasi su quelle prodotte dalle altre classi dominanti ancor prima al potere, per poi, all’occorrenza, rivederle nel procedere dei tempi. Un esempio chiaro, in tal senso, proviene dalle religioni, transitate nei secoli dalle diverse classi dominanti, principalmente come prodotto ideologico del loro potere e ad esso rese funzionali.

Viceversa, la classe operaia è la prima classe completamente sfruttata e oppressa che può arrivare al potere e facendolo deve emancipare non solo sé stessa, ma l’intera società, ovvero tutte le classi e le masse popolari che la borghesia imperialista opprimeva. Il suo potere è sicuramente destinato a scontrarsi con la classe capitalista spodestata e con tutti gli altri settori di società che quest’ultima mobilita a proprio favore. Altrettanto sicuramente va detto che, per quanto riguarda la classe operaia, la sua oggettiva posizione di classe sfruttata e la sua funzione storica soggettiva di liberazione della società dallo sfruttamento e dalla divisione in classi, non le consentono di dispiegare per la propria causa il patrimonio di egemonia che le classi precedentemente dominanti hanno sviluppato.

In poche parole, per riassumere queste due caratteristiche, si può dire che, con la rivoluzione proletaria, per la prima volta nella storia umana, il potere è nelle mani di coloro che lavorano, che producono la ricchezza sociale con la loro opera, e non nelle mani di coloro che la gestiscono o ne traggono privilegi e arricchimento proprio. Si tratta della più forte rottura storica mai avvenuta, se pensiamo che tutte le classi dominanti che si sono avvicendate al potere avevano la caratteristica di fondare la propria posizione sullo sfruttamento altrui, riuscendo a imporre come “legge naturale”, nella mentalità comune, dall’antichità fino ad oggi, il fatto che i “ricchi” vivano sulle spalle e governando i “poveri”. Già la portata di questa “legge naturale”, con tutto ciò che ne consegue in termini culturali e finanche psicologici, passata nei secoli dei secoli di mano in mano alle classi dominanti di ogni risma fino alla contemporanea borghesia imperialista, ci fa capire meglio quanto si diceva prima, nei termini della continuità tra gli oppressori e del balzo impressionante che, improvvisamente, la storia fa, con la rivoluzione proletaria, quando il potere è, per la prima volta, nelle mani degli oppressi.

Infatti, queste due questioni rimandano in realtà ad una: quella del potere politico. Il proletariato è una classe eminentemente politica nel suo agire, poiché solo con l’esercizio del potere politico può mutare una struttura che lo vede classe sfruttata e oppressa, per rompere e trasformare i rapporti di produzione che, pur collocandolo come forza produttiva sociale fondamentale, lo imprigionano dentro di essi. E, insieme ad essi, tutti i rapporti sociali alienanti e oppressivi che ne conseguono. Solo esercitando il potere politico, il proletariato può dunque rivoluzionare la struttura economico-sociale e, allo stesso tempo, sviluppare gli strumenti, un patrimonio e un’egemonia nella società che gli consentono di essere classe dominante, rompendo storicamente l’assioma che ha visto essere classi dominanti unicamente quelle sfruttatrici e accaparratrici.

Marx ed Engels prefigurarono in questi termini il passaggio dal capitalismo al comunismo: “Emancipando sé stesso dallo sfruttamento capitalistico, superando il sistema capitalista, il proletariato abolisce la divisione in classi della società e dunque libera ed emancipa l’intera società. Quando nel corso degli eventi le differenze di classe saranno sparite e tutti i mezzi di produzione saranno concentrati nelle mani degli individui associati, il potere pubblico avrà naturalmente perso ogni carattere politico. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, non è se non il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Ora, se il proletariato nella lotta contro la borghesia è spinto a costituirsi in classe, e se attraverso la rivoluzione diventa classe dominante, distruggendo violentemente gli antichi rapporti di produzione, in questo modo esso, abolendo tali rapporti, abolisce le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, e cioè abolisce le classi in generale e il suo proprio dominio di classe. Al posto della società borghese, con le sue classi e i suoi antagonismi di classe, subentrerà un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti”. [9]

Si tratta dunque di una fase di transizione, nella quale il proletariato esercita il proprio potere politico come classe dominante, al fine della trasformazione della società e ovviamente per la difesa stessa di questo potere e di questo processo di trasformazione dai tentativi di restaurazione da parte delle classi spodestate: “Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato”. [10]

Marx ed Engels elaborarono e svilupparono la loro teoria della dittatura del proletariato sulla base dell’esperienza della Comune di Parigi del 1871, ovvero della prima esperienza di conquista del potere politico da parte della classe lavoratrice. [11] Con la Rivoluzione Sovietica del 1917, la classe operaia riuscì nuovamente a imporre la propria dittatura, superando i limiti per i quali la Comune era stata soffocata dai reazionari, fondando così il primo Stato socialista.

Si realizzò così un’evoluzione nella prassi-teoria della rivoluzione proletaria e in particolare della presa ed esercizio del potere da parte del proletariato, che fu condensata nell’elaborazione ideologica di Lenin. Quest’ultimo, alla vigilia della presa del potere del proletariato nel 1917, riprendendo quanto scritto da Marx ed Engels, affermò: “La dittatura del proletariato, periodo di transizione verso il comunismo, istituirà per la prima volta una democrazia per il popolo, per la maggioranza, accanto alla repressione necessaria della minoranza, degli sfruttatori. (…) È questa società comunista appena uscita dal seno del capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia società, che Marx chiama “la prima fase” o fase inferiore della società comunista. I mezzi di produzione non sono già più proprietà privata individuale. Essi appartengono a tutta la società. (…) Nella prima fase della società comunista (comunemente chiamata socialismo), il “diritto borghese” non è completamente abolito, ma solo in parte, soltanto nella misura in cui la rivoluzione economica è compiuta, cioè unicamente per quanto riguarda i mezzi di produzione. Il “diritto borghese” riconosce la proprietà privata su questi ultimi a individui singoli. Il socialismo ne fa una proprietà comune. In questa misura – e soltanto in questa misura – il “diritto borghese” è abolito. (…) Questa espropriazione renderà possibile uno sviluppo gigantesco delle forze produttive. E vedendo come, già ora, il capitalismo intralci in modo assurdo questo sviluppo, e quali progressi potrebbero essere realizzati grazie alla tecnica moderna già acquisita, abbiamo il diritto di affermare con assoluta certezza che l’espropriazione dei capitalisti darà necessariamente un gigantesco impulso alle forze produttive della società umana. Ma non sappiamo e non possiamo sapere quale sarà la rapidità di questo sviluppo, quando esso giungerà a una rottura con la divisione del lavoro, alla soppressione del contrasto fra il lavoro intellettuale e fisico, alla trasformazione del lavoro nel “primo bisogno della vita”. Abbiamo perciò diritto di parlare unicamente dell’inevitabile estinzione dello Stato, sottolineando la durata di questo processo, la sua dipendenza dalla rapidità di sviluppo della fase più elevata del comunismo, lasciando assolutamente in sospeso la questione del momento in cui avverrà e delle forme concrete che questa estinzione assumerà, poiché non abbiamo dati che ci permettano di risolvere simili questioni. Lo Stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà realizzato il principio: “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”, cioè quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo ch’essi lavoreranno volontariamente secondo le loro capacità. “L’angusto orizzonte giuridico borghese”, che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock: – non avrò per caso lavorato mezz’ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro? -, questo ristretto orizzonte sarà allora sorpassato. La distribuzione dei prodotti non renderà più necessario che la società razioni i prodotti a ciascuno: ciascuno sarà libero di attingere “secondo i suoi bisogni”. [12] Lenin ribadì con ancora più forza i medesimi concetti anni dopo la presa del potere, affermando che, per quanto riguarda la dittatura del proletariato, “Il suo scopo è di creare il socialismo, di eliminare la divisione della società in classi, di fare di tutti i membri della società dei lavoratori, di togliere la base a ogni sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Questo scopo non può essere raggiunto di colpo; esso esige un periodo abbastanza lungo di transizione dal capitalismo al socialismo, perché la riorganizzazione della produzione è cosa difficile, perché occorre del tempo per operare delle trasformazioni radicali in tutti i campi della vita, perché la forza enorme dei costumi economici piccolo-borghesi e borghesi può essere vinta soltanto attraverso una lotta lunga e accanita. (…) L’abolizione delle classi è il risultato di una lotta di classe lunga, difficile, ostinata, la quale, dopo l’abbattimento del potere del capitale, dopo la distruzione dello Stato borghese, dopo l’instaurazione della dittatura del proletariato non scompare (…), ma cambia soltanto le sue forme, diventando per molti aspetti ancora più accanita”. [13] E ancora “in uno Stato proletario di tipo transitorio, quale è il nostro, l’obbiettivo di ogni azione della classe operaia non essere che il rafforzamento dello Stato proletario e del potere statale della classe proletaria mediante la lotta contro le deviazioni burocratiche di questo Stato, contro i suoi errori e le sue debolezze, contro gli appetiti di classe dei capitalisti che si sforzano di sbarazzarsi del suo controllo, etc”. [14]

Dunque, la questione della transizione da capitalismo a comunismo, come venne compresa teoricamente da Marx, Engels e Lenin, può essere riassunta nei termini che seguono. Il socialismo non è una formazione economico sociale in sé e per sé definita, ma occupa una fase di passaggio dal capitalismo al comunismo, nella quale la struttura economica e con essa l’intera società presenta in parte rapporti, forme e caratteri derivati dal sistema capitalista e in parte rapporti, forme e caratteri, per l’appunto socialisti, frutto della trasformazione rivoluzionaria. La lotta di classe permane come motore principale di trasformazione della società e dunque di avanzamento dal vecchio sistema capitalista al nuovo sistema comunista e dirigere il suo esercizio compete alla dittatura del proletariato, al proletariato organizzato in classe dominante e forza dirigente dello Stato socialista. Alla base fondamentale di tale trasformazione vi sta ancora il processo di contraddizione tra sviluppo delle forze produttive, che assumono via via carattere collettivo con la costruzione del socialismo, e rapporti sociali, che dovranno essere trasformati per corrispondere a tale sviluppo e avanzare verso così dal socialismo al comunismo. Ovviamente, oltre alla trasformazione interna, lo Stato socialista è strumento di difesa dalle aggressioni esterne dei paesi capitalisti, le cui classi dominanti puntano inevitabilmente ad arrestare e soffocare il potere dei lavoratori, che alimenta la prospettiva rivoluzionaria nei loro stessi paesi. Così avvenne per la Comune di Parigi, ma non per l’Unione Sovietica che, grazie alla dittatura del proletariato, seppe trasformare in avanzamento del movimento comunista sia l’aggressione dei paesi capitalisti negli anni subito successivi alla Rivoluzione, sia quella condotta dai nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale.

La costruzione del socialismo

Le considerazioni che svolgiamo in questo articolo riguardano nello specifico l’Urss e i paesi dell’Europa Orientale, dunque l’insieme dei regimi crollati nel biennio 1989-1991, ma le formuliamo basandoci sull’intera esperienza rivoluzionaria del movimento comunista, che arriva, con la Rivoluzione Cinese, al maoismo, ulteriore tappa della propria prassi-teoria dopo il marxismo e il leninismo. [15] Anche per questo motivo, le considerazioni che andremo a formulare possono costituire un’analisi utile per comprendere la storia complessiva e persino l’attualità di tutti i paesi che ieri – o ancora oggi – si sono definiti socialisti.

Nel corso del secolo scorso, a partire dalla Rivoluzione Sovietica del 1917, il proletariato conquistò il potere in diversi paesi: i paesi socialisti arrivarono a coprire circa un terzo delle terre emerse. L’Urss costituì il modello rivoluzionario di apripista per la trasformazione socialista e lo fu soprattutto per le nazioni dell’est Europa nelle quali, dopo la Seconda guerra mondiale, vennero costituiti i regimi di democrazia popolare, frutto della vittoria sul nazifascismo ed egemonizzati dal proletariato. Altri paesi socialisti sorsero sulla base del ruolo di direzione che il movimento comunista esercitò nella decolonizzazione: in Cina, Vietnam, Cuba…il proletariato si pose alla testa della lotta di liberazione nazionale e conquistò il potere.

La forma-Stato che caratterizzò l’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti rappresentò una rottura con gli apparati politici concreti e gli schemi teorico-ideologici della borghesia e delle altre classi sfruttatrici. Essendo lo Stato socialista connaturato dalla dittatura del proletariato, la sua struttura costituzionale e funzionamento politico devono fondere la direzione rivoluzionaria del proletariato d’avanguardia con la mobilitazione e partecipazione democratica delle larghe masse lavoratrici. Ciò fu realizzato nella combinazione tra il ruolo dei partiti comunisti, che ebbero negli ordinamenti socialisti il ruolo centrale di massima guida politica rivoluzionaria, dirigendo un fronte ampio di organizzazioni di massa nella società, e quello delle strutture statuali consiliari democratico-popolari, il cui esempio più importante è stato quello dei soviet russi. Gli Stati socialisti funzionarono sulla base di tale rapporto dialettico, relativizzando e subordinando ad esso la propria stessa condizione e azione in quanto apparato statale. La permanenza del ruolo d’avanguardia del partito comunista, così come del fronte da esso promosso, si dimostrarono condizioni fondamentali per la prosecuzione della lotta di classe nella società socialista, per dirigerne politicamente lo sviluppo e per mobilitare le masse, e dunque per il sussistere della dittatura proletaria. Stalin, la cui figura, ruolo e insegnamento politico incarnarono la costruzione del socialismo in Urss dopo la morte di Lenin, affermò che “Il partito è necessario al proletariato per conquistare e mantenere la dittatura. Il partito è lo strumento della dittatura del proletariato”. [16]

Inevitabilmente, il proletariato, dopo la conquista del potere, si trovò ad esercitare la sua dittatura su una società che, come già dicevamo, presentava dei rapporti strutturali, in ambito produttivo e, più in generale, economico-sociale, di tipo capitalistico, o addirittura, in taluni casi, di tipo semifeudale e feudale. A differenza della borghesia, che conquistò il potere politico dopo una certa espansione di rapporti economici capitalistici nella struttura, il proletariato, quale classe sfruttata e oppressa, dovette utilizzare la sua dittatura per trasformare la struttura e costruire rapporti produttivi, economici e sociali di tipo socialista, avanzando così verso il comunismo.

In termini di dialettica tra struttura e sovrastruttura, la dittatura del proletariato fu esercitata contraddittoriamente su una struttura di tipo capitalista, al fine di modificarla. In quest’opera, deve poggiarsi sul carattere collettivo delle forze produttive, in particolare rispetto al ruolo oggettivo e soggettivo della classe operaia stessa, opponendolo alla strutturazione di rapporti e alle tendenze sostanziali di tipo capitalistico-privatistico. Oppure, in talune fasi, il proletariato organizzato come classe dominante nel proprio Stato e guidato dal proprio partito, fu costretto tatticamente a sviluppare rapporti di tipo capitalistico per consentire una certa accumulazione capitalistica, in senso produttivo e materiale per porre basi all’edificazione socialista. Le politiche sovietiche di sviluppo del capitalismo di Stato e della Nuova politica economica (Nep), successive alla fase del cosiddetto “comunismo di guerra”, furono orientate proprio in tal senso, così come fu per il programma della rivoluzione di nuova democrazia, sviluppato da Mao Tse Tung e dal Partito Comunista Cinese (Pcc) in relazione alle questioni della transizione nei paesi sottoposti al dominio imperialista straniero. Storicamente ciò è avvenuto anche perché la strutturazione dei rapporti economici-politici globali nella fase del capitalismo monopolistico, nonché lo sviluppo della tendenza alla guerra imperialista, avevano rafforzato oggettivamente la tendenza alla rivoluzione proletaria nei paesi arretrati o nelle semicolonie, dunque in aree economicamente meno sviluppate.

In barba ai “marxisti” dogmatici che non capirono la portata di questo passaggio e quello che determinava per il concretizzarsi della rivoluzione proletaria, accusando Lenin, Stalin e i bolscevichi di eresia, fu proprio l’opera dello Stato sovietico di trasformazione socialista dell’economia che, liberando le forze produttive incatenate dai vecchi rapporti di produzione, ne ottenne uno sviluppo esponenziale, tanto da conseguire in poco più di un decennio, tra il 1928 e il 1940, un avanzamento in campo industriale paragonabile a quello conseguito dal capitalismo europeo in un secolo intero. Il cambiamento di vita del popolo sovietico è stato sicuramente il più vasto, repentino e radicale mutamento sociale nella storia dell’umanità e ciò lo rese paradigmatico per tutte le altre esperienze socialiste.

La socializzazione dei mezzi di produzione, la collettivizzazione dell’agricoltura, la pianificazione economica si rivelarono i fattori fondanti il sistema e lo sviluppo socialista, gettando le basi per una società dove la produzione non fosse guidata dal profitto di una minoranza e non si determinasse con lo sfruttamento del lavoro, ma si basasse sullo soddisfacimento dei bisogni della società stessa, cioè dei lavoratori che, con la loro opera collettiva, concorrevano alla produzione.

Furono gli stessi proletari che ebbero il ruolo di protagonisti di questo straordinario “miracolo economico”, costituendo movimenti come quelli degli udarniki e degli stakhanovisti, che diedero al lavoro carattere d’assalto militante, rendendolo collettivo nella sostanza e nella pratica dei rapporti che si stabilivano nel condurre la produzione, dandogli una dimensione creativa inedita, che tendeva a creare le basi per l’unità tra il lavoro manuale operaio e quello intellettuale, di direzione e progettazione. Si dimostrò come non mai che “la più grande forza produttiva è la classe operaia stessa”. [17]

La collettivizzazione dell’agricoltura significò la fusione di quattordici milioni di appezzamenti privati in circa duecentomila fattorie collettive e meccanizzate, nelle quali i contadini erano o riuniti in cooperative che utilizzavano mezzi di produzione forniti dallo Stato (kolchoz) o direttamente dipendenti statali (sovkhoz). Si arrivò così ad una produzione agricola che superava di decine di milioni di tonnellate quella del periodo precedente. Grazie alla nuova vita socialista, la classe contadina riuscì a emanciparsi non solo dal pesantissimo lavoro condotto con metodi arcaici, ma anche dal dominio dei contadini arricchiti (i kulaki) e dai costumi patriarcali e oscurantisti di origine feudale egemoni fino ad allora nelle campagne, soprattutto a causa dell’egemonia della chiesa ortodossa.

La costruzione del socialismo significò anche la creazione di un sistema scolastico di massa che debellò l’analfabetismo. Il segno più evidente dell’ascesa culturale del popolo russo fu l’attività di un elevato numero di scuole superiori di diverso tipo, che fecero crescere una nuova leva di professionisti, specialisti, scienziati, letterati, artisti e intellettuali di provenienza operaia e contadina. Dalla critica della produzione artistica come attività staccata dalle masse popolari, dunque inevitabilmente riflesso dell’elitarismo delle classi sfruttatrici, nacque il realismo socialista, che promosse un’arte avente come referente il popolo e come obbiettivo il rafforzamento della sovrastruttura culturale e spirituale, nel sentire umano e profondo del popolo, che andasse di pari passo con la trasformazione socialista a livello economico sociale. La condizione della donna visse un processo di liberazione fino ad allora impensabile, non solo con la parificazione giuridica all’uomo in tutti i campi, ma soprattutto nella partecipazione determinata delle donne sovietiche, in prima fila, nel processo di trasformazione sociale, a partire dai luoghi di lavoro fino ad arrivare nell’amministrazione dello Stato, nella militanza politica rivoluzionaria e fin dentro ai rapporti famigliari.

Sicuramente la costruzione del socialismo in Urss fu il frutto di abnegazioni immani per la classe lavoratrice. Quest’ultima, guidata dal proprio partito d’avanguardia e organizzata come classe dominante nel proprio Stato, si gettò in un’impresa sconosciuta al genere umano, edificando le basi per un mondo nuovo, compiendo il proprio interesse reale e storico, spesso sacrificando inevitabilmente l’interesse immediato e il mero dato materiale. Ma non si trattò di sacrifici sull’altare del profitto e dello sfruttamento, come quelli che da sempre le classi dominanti chiedono alle classi dominate, ma viceversa di uno sforzo cosciente ed eroico, che può essere compiuto solo da chi sa di sostenerlo in quanto atto collettivo di libertà e per la propria emancipazione. La Russia e le altre nazioni dell’Urss divennero paesi moderni ed avanzati, ma non nei termini che oggi ci vengono propinati quando si parla di crescita del Pil o di tripla A: fu la condizione sociale degli operai e dei contadini che fece passi enormi grazie alla liberazione del lavoro dal capitale, sulla base della garanzia dei bisogni di base come casa, sanità e istruzione ed elevando progressivamente questa garanzia nella soddisfazione degli ulteriori e via via più complessi vecchi e nuovi bisogni, posti dal divenire della vita dinanzi alle masse popolari e alla loro capacità creativa di concepirli e di adempiervi.

Niente di tutto ciò fu conquistato, come lo è per il cosiddetto e sempre più relativo “benessere” dei paesi imperialisti, a danni di altri popoli, colonizzati o depredati. Al contrario la costruzione del socialismo in Urss diede come non mai un esempio positivo di emancipazione per i lavoratori di tutto il mondo, incutendo timore nelle classi sfruttatrici. L’Unione Sovietica, grazie al sostegno internazionalista esercitato nei confronti del movimento operaio e dei popoli oppressi, fu la base rossa della rivoluzione proletaria a livello globale. Le classi sfruttatrici la ripagarono ovviamente con un costante accerchiamento economico e soprattutto politico-militare, sostenendo sul fronte interno tutti i nemici della dittatura del proletariato e della costruzione del socialismo. La feroce aggressione nazifascista del 1941 fu l’apice di questa permanente crociata anticomunista, ma l’Urss, grazie all’eroismo di 23 milioni di martiri che si immolarono per difendere la patria socialista, non solo né uscì vincitrice, ma inseguendo e distruggendo la belva hitleriana fino nella sua tana, liberò i popoli dell’Europa Orientale dal giogo nazista e pose così le basi per l’allargamento ad essi delle conquiste rivoluzionarie, attraverso la costituzione delle democrazie popolari e del campo socialista.

La lotta di classe nel socialismo

In tutto il processo di costruzione del socialismo in Urss, l’aspetto principale rimase la lotta di classe. All’interno del Partito Comunista, essa si svolse nello scontro tra la linea proletaria di Stalin, che poneva la questione concreta della trasformazione della società, e le linee che furono espressione di deviazionismo borghese, ad esempio quella di Trotskij, che riteneva impossibile la transizione al socialismo in Urss senza rivoluzione in Europa, o quella di Bucharin, che si opponeva alla collettivizzazione delle campagne. Sconfitti politicamente, gli avversari di Stalin violarono dapprima il centralismo democratico, poi ricorsero ad attività frazionistiche e infine alla cospirazione in armi, finendo in collusione con le attività antisovietiche delle potenze capitalistiche ostili all’Urss. Fu questo scontro che produsse la grande epurazione degli anni fra il 1936 e il 1938, che vide l’esercizio del terrore rivoluzionario contro i dirigenti rinnegati e i loro agenti nelle file del Partito e dello Stato.

Ugualmente si può dire per l’industrializzazione socialista, con la classe operaia mobilitata per una battaglia di cui si colse subito la fondamentale importanza per il futuro della rivoluzione, avviando una modernizzazione che mutò la vita degli uomini e delle donne sovietiche e permise al paese di resistere alla guerra imperialista di Hitler, mutandola in guerra di liberazione dell’Europa. Fu un processo che vide tendenzialmente l’iniziativa degli operai comunisti scontrarsi contro le burocrazie dirigenziali degli impianti produttivi e gli specialisti di formazione borghese, ereditati dall’epoca zarista e custodi dei vecchi rapporti di potere economico che li vedevano sopraelevati ai lavoratori. Anche la collettivizzazione delle campagne, nella sua essenza, fu lotta tra i contadini poveri e i kulaki, che furono infine liquidati come classe.

Sul piano della struttura, la lotta di classe rappresentò l’aspetto principale della contraddizione fondamentale tra rapporti di produzione arretrati e nuove forze produttive; sul piano della sovrastruttura e della soggettività politica, fu il regime di dittatura del proletariato, con la guida del Partito e tramite lo Stato sovietico, a dirigere questi processi di trasformazione. Stalin definì così la questione: “che cosa rappresenta la resistenza degli elementi capitalistici della città e della campagna all’offensiva del socialismo? È un nuovo raggruppamento delle forze dei nemici di classe del proletariato, che ha per scopo di difendere il vecchio contro il nuovo. Non è difficile capire che queste circostanze non possono non provocare un inasprimento della lotta di classe. Ma per spezzare la resistenza dei nemici di classe e sgombrare la via al progredire del socialismo, bisogna, oltre a tutto il resto, temprare meglio tutte le nostre organizzazioni, epurarle dalla burocrazia, migliorare i loro quadri e mobilitare le masse di milioni di operai e gli strati lavoratori della campagna contro gli elementi capitalistici della campagna e della città”. [18]

Sette anni dopo, conseguita l’industrializzazione socialista e la collettivizzazione agricola, avviato il sistema della pianificazione economica sulla base dei piani quinquennali, nel Rapporto sul Progetto di Costituzione dell’Urss datato 25 novembre 1936, Stalin scrisse che “la vittoria completa del sistema socialista in tutte le sfere dell’economia nazionale è ormai un fatto. Ma che significa questo? Questo significa che lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo è stato soppresso, liquidato, e la proprietà socialista degli strumenti e mezzi di produzione si è affermata come base incrollabile della nostra società sovietica” [19] (…) “il progetto della nuova Costituzione dell’Urss parte dal fatto che nella società non vi sono più classi antagoniste”. [20] Concetti che furono ribaditi, da altri punti di vista, anche due anni dopo, nel 1938, nell’opera Materialismo dialettico e materialismo storico: “Nel regime socialista, che, per il momento, esiste solo nell’Urss, la proprietà sociale dei mezzi di produzione costituisce la base dei rapporti di produzione. Qui non esistono più né sfruttatori né sfruttati. I prodotti vengono ripartiti secondo il lavoro compiuto e secondo il principio: “Chi non lavora non mangia”. I rapporti tra gli uomini nel processo della produzione sono rapporti di collaborazione fraterna e di mutuo aiuto socialista tra lavoratori liberi dallo sfruttamento. Qui i rapporti di produzione corrispondono perfettamente allo stato delle forze produttive, perché il carattere sociale del processo della produzione è rafforzato dalla proprietà sociale sui mezzi di produzione”. [21]

Eppure, nonostante Stalin rilevasse, spinto dai grandiosi successi del popolo sovietico, la vittoria completa del socialismo e l’assenza di classi antagoniste, non si poteva negare come lo scontro interno al Partito, allo Stato e all’intera società sovietica fosse ai livelli più alti a partire proprio dal 1936 e per i due anni successivi. Da un lato si ebbero i processi contro i dirigenti che tradivano la causa del comunismo. Dall’altro si ebbe una rigorosa campagna all’interno del Partito per lottare contro le tendenze burocratiche, antidemocratiche e di distacco dalle masse, che portò, in alcuni casi, alla sostituzione di gran parte dei quadri delle organizzazioni locali. Infine, fu condotta un’inflessibile lotta contro il sabotaggio industriale, visti i numerosi episodi di attentati e azioni distruttive contro impianti produttivi, spesso messi in atto da specialisti di matrice borghese, come ingegneri e dirigenti, o da ex kulaki e ex appartenenti a ceti capitalisti, che non perdonavano al potere sovietico l’averli “degradati” ad operai, obbligandoli a vivere del loro lavoro.

Tradimento controrivoluzionario, deformazione burocratica e sabotaggio borghese, ovviamente, erano tre tendenze che andavano di pari passo e finivano per essere strettamente legate, pur agendo su piani diversi ed essendo contrastate, dunque, anche in termini diversi dall’azione della dittatura del proletariato. La lotta di classe nella società socialista continuava, sviluppandosi tutto ciò che andava in direzione del nuovo, verso il consolidamento del socialismo e l’avanzamento verso il comunismo, scontrandosi contro tutto ciò che ne impediva il cammino e produceva il ritorno al vecchio, al capitalismo, allo sfruttamento di una classe sull’altra.

Questo sviluppo contraddittorio avveniva nonostante la dirigenza staliniana, conducendo una straordinaria e inedita battaglia di avanzamento rivoluzionario, ma esso non divenne perfettamente consapevole e non ne seppe trarre le conclusioni fino in fondo, come dimostrano i toni assoluti di Stalin sull’affermazione del socialismo e l’assenza di classi antagoniste. D’altronde, la lotta di classe, nell’epoca socialista, si manifestava in termini inediti e in sè contraddittori: quelli che erano stati dirigenti rivoluzionari divenivano agenti reazionari, difronte al fallimento delle loro concezioni alla prova dei fatti e dunque alla perdita di ruolo e potere politico; il Partito, da strumento rivoluzionario essenziale nella dittatura del proletariato, dimostrava di poter divenire apparato staccato dalle masse e dominato da carrieristi e arrivisti; gli specialisti a livello industriale, scientifico, economico, per la posizione oggettiva nel processo produttivo e la loro impronta di mentalità borghese, non erano facilmente integrabili nel sistema socialista in quanto perdevano il ruolo privilegiato occupato nel capitalismo, nonostante fossero in molti casi necessari allo sviluppo del paese.

In ogni caso, l’epurazione del Partito, dello Stato e delle sue istituzioni, in primis l’esercito, assunsero un’importanza politica cruciale poiché furono una delle condizioni che diedero la vittoria all’Urss sugli invasori nazisti, stroncando ogni possibile fenomeno di collaborazionismo tra le sfere dirigenziali sovietiche, come era avvenuto invece in tutti gli altri paesi, governati dalla borghesia, che le armate hitleriane avevano occupato.

Fu proprio dopo la Seconda guerra mondiale, una volta ricostruita l’economia in tempi rapidissimi sulla base della pianificazione socialista, che fra i comunisti sovietici si sviluppò un articolato dibattito sulla struttura economico-sociale e sulle sue contraddizioni. Stalin intervenne con il testo Problemi economici del socialismo nell’Urss, che costituì una sorta di testamento politico, visto che fu pubblicato nel 1952, un anno prima della morte del grande dirigente rivoluzionario. In quest’opera, egli rettificò quanto detto negli anni trenta, affermando che, nella società socialista, continuavano a esservi potenzialmente contraddizioni antagonistiche tra forze produttive e rapporti di produzione, individuandole, nello specifico dell’Unione Sovietica di allora, nella permanenza di rapporti di scambio mercantile tra lo Stato e le cooperative agricole dei contadini, i kolchoz. “Con una giusta politica degli organismi dirigenti queste contraddizioni non possono trasformarsi in contrasto, e non si può giungere a un conflitto tra i rapporti di produzione e le forze produttive della società. Ma non sarebbe così se facessimo una politica sbagliata. (…) In tal caso il conflitto sarebbe inevitabile, e i nostri rapporti di produzione potrebbero trasformarsi in un freno molto serio dell’ulteriore sviluppo delle forze produttive”. [22] Nell’opera, vennero criticate pesantemente le proposte della destra del partito, nello Stato e fra gli economisti che prospettavano la vendita, come beni privati, dei mezzi di produzione ai kolchoz, affermando che ciò avrebbe comportato “fare un passo indietro verso l’arretratezza (…) far girare all’indietro la ruota della storia (…) non un avvicinamento al comunismo, ma un allontanamento da esso”. [23] Per il consolidamento del socialismo e l’avanzamento verso il comunismo, affermò Stalin, era pertanto necessario procedere all’eliminazione graduale dei residui di scambio mercantile, sostituendolo con lo scambio diretto dei prodotti nell’ambito della pianificazione, inglobare gradatamente la proprietà cooperativistica in proprietà statale, cioè di tutto il popolo, assicurare lo sviluppo ininterrotto delle forze produttive ponendo l’accento sull’industria pesante come base fondamentale di tutti gli altri settori, smantellare il sistema di divisione del lavoro, partendo dall’elevazione del livello culturale degli operai e dei contadini.

Il 19° congresso del Partito Comunista dell’Urss, nell’ottobre del 1952, l’ultimo presieduto da Stalin a pochi mesi dalla morte, fu contrassegnato dal rinnovamento, con l’elezione di nuovi elementi di estrazione operaia nel Comitato Centrale (CC) e con l’istituzione, in seno a quest’ultimo, del Praesidium, in sostituzione dell’Ufficio Politico e con quindici membri in più, al fine di svolgere le funzioni del Comitato quando non era riunito in seduta plenaria. Entrambe costituirono decisioni che rompevano con la vecchia dirigenza, volte a rinnovare lo slancio rivoluzionario dell’organizzazione. Nella relazione di Malenkov venne posto l’accento sulla lotta alla burocratizzazione dei quadri, rilanciata l’importanza del lavoro ideologico, della democrazia interna basata sulla critica e l’autocritica e della selezione dei quadri. Venne denunciato, sul piano economico, come “vi sono stati non pochi funzionari i quali hanno dimenticato che le aziende affidate alla loro cura e alla loro direzione sono aziende di Stato e che cercano di trasformarle in loro domini privati . [24] Stalin, rieletto segretario generale contro la sua volontà, concluse il congresso affermando che l’unità del Partito era solo un’apparenza retorica, che vi era bisogno di rinnovamento per “vincere l’opposizione di ogni genere di elementi opportunisti ostili che tendono a frenare e minare l’opera di costruzione del socialismo” [25], lanciando un duro affondo a buona parte della dirigenza, rimproverandole scarsa vigilanza rivoluzionaria. E il 14 gennaio 1953, due mesi prima della morte di Stalin, comparve sulla Pravda, organo del Pcus, un articolo dove si affermava: “Il compagno Stalin, nello smascherare la tesi opportunistica che postula l’“estinzione” della lotta di classe in corrispondenza dei nostri successi, ammonisce con fermezza che questa tesi non è solo errata, ma anche pericolosa, dal momento che essa narcotizza la nostra gente, la fa cadere dunque in una trappola, dà al nemico di classe inoltre la possibilità di raccogliere ancora le forze per la lotta contro la potenza sovietica”. [26]

(seguirà, nel prossimo numero, la seconda parte che tratterà del processo di restaurazione capitalista in Urss e negli altri paesi socialisti da Kruscev in poi, traendone delle conclusioni politiche per il movimento comunista oggi)
Vedi anche Antitesi n.04 – “Comunisti: Imparare dal passato, agire nel presente, trasformare il futuro – seconda parte”
Sfruttamento e crisi: La restaurazione capitalista nei paesi socialisti – parte seconda


[1] Le parole sono state riportate a pagina 31 della prefazione della compagna Adriana Chiaia all’opera Stalin Un altro punto di vista di Ludo Martens, pubblicato nel 2005 in lingua italiana da parte della casa editrice Zambon. Le circostanze nelle quali vennero precisamente pronunciate ci sono state descritte personalmente da Adriana.

[2] vedi Antitesi n° 1 “Crisi, Europa, Guerra
Sezione 2: “Classi sociali, proletariato e lotte
Articolo: “Le frontiere Europee dello sfruttamento
http://www.tazebao.org/frontiere-europa-sfruttamento/

[3] Vedi Antitesi n.3 “Comunisti: Imparare dal passato, agire nel presente, trasformare il futuro – 1° parte
Sezione 3: “Imperialismo e guerra
Articolo “Alcuni insegnamenti delle rivoluzioni proletarie e delle guerre popolari, ieri ed oggi
http://www.tazebao.org/imperialismo-guerra-insegnamenti-delle-rivoluzioni-proletarie-delle-guerre-popolari-ieri-ed-oggi/

[4] F. Engels, K. Marx, Manifesto del Partito Comunista,
http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/testi/manifesto_testo.pdf , 15/01/2017

[5] Ibidem.

[6] K. Marx, Per la critica dell’economia politica,
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1859/criticaep/ 

[7] Il carattere collettivo delle forze produttive, in regime capitalistico, è dato dallo sviluppo su larga scala della produzione e della distribuzione delle merci, che per quantità e qualità tenderebbe potenzialmente a costituire base materiale per la soddisfazione sempre più ampia dei bisogni della società, ma che rimane conculcato sotto rapporti di produzione e appropriazione privatistici, fondati sullo sfruttamento e sul privilegio sociale della grande borghesia.

[8] “Il mercato mondiale ha determinato uno sviluppo immenso del commercio, della navigazione e delle comunicazioni via terra. Questo sviluppo influenzò a sua volta l’estensione dell’industria, nella misura in cui l’industria, il commercio, la navigazione e le ferrovie si sono estese, anche la borghesia si è sviluppata ed ha aumentato i suoi capitali, respingendo indietro, allontanandole sempre più dalla scena, quelle classi che erano un residuo del Medioevo.
Noi vediamo, dunque, come la borghesia sia essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una lunga serie di rivoluzioni nei modi della produzione e del traffico.
A ciascuna delle fasi di questo sviluppo è corrisposto un relativo progresso politico.
Ceto oppresso sotto la signoria dei feudatari, associazione armata e dotata di autogoverno nel comune, qui repubblica municipale, là terzo Stato che paga le imposte alla monarchia, poi, al tempo della manifattura, contrappeso alla nobiltà nelle monarchie assolute o in quelle limitate dalle diete, dappertutto pietra angolare delle grandi monarchie, la borghesia, con il costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, si è impadronita in modo esclusivo del potere politico nel moderno Stato rappresentativo”. (F. Engels, K. Marx, op. cit.).

[9] Ibidem.

[10] K. Marx, Critica del Programma di Gotha,
http://www.marxistsfr.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm 

[11] Vedi K. Marx, La Guerra Civile in Francia,
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1871/gcf/ 

[12] V. Lenin, Stato e rivoluzione,
https://www.marxists.org/italiano/lenin/1917/stat-riv/ 

[13] V. Lenin, Saluto agli operai ungheresi, in Opere scelte, Editori Riuniti, 1965, pp. 1294 s.

[14] V. Lenin, La funzione e i compiti dei sindacati nelle condizioni della Nuova politica economica, in ibidem, pp. 1679 s.

[15] Vedi Azad, Azad voce della guerra popolare in India, a cura del Collettivo Tazebao, s.i.p. 2013, pp. 319 ss.

[16] G. Stalin, Principi del leninismo,
http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cl/madcpl.htm 

[17] K. Marx, Miseria della filosofia,
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/miseria-filosofia/ ,
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/miseria-filosofia/ .

[18] G. Stalin, Le deviazioni di destra nel Partito Comunista (Bolscevico) dell’Unione Sovieticahttp://www.associazionestalin.it/ar13-1.html , 15/01/2017 , p. 9.

[19] G. Stalin, Rapporto sul Progetto di Costituzione dell’Urss,
http://www.associazionestalin.it/ar9-1.html , p. 7.

[20] Ivi, pp. 13 s.

[21] G. Stalin, Materialismo dialettico e materialismo storico,
https://www.marxists.org/italiano/reference/stalin/diamat.html , 15/01/2017 .

[22] G. Stalin, Problemi economici del socialismo nell’Urss,
http://www.associazionestalin.it/ar21-1.html , 15/01/2017.

[23] Ivi, p. 58.

[24] XIX° Congresso del Partito Comunista Bolscevico dell’Urss,
http://www.associazionestalin.it/XIX_completo.pdf , p. 58.

[25] Ivi, p. 78.

[26] Citazione riportata in K. Gossweiler, Contro il revisionismo da Chruscev a Gorbacev: saggi, diari e documenti, Zambon Editore, 2009, p. 203.

Bibliografia

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-Azad, Azad voce della guerra popolare in India, a cura del Collettivo Tazebao, s.i.p. 2013.

– Bland B., Restoration of capitalism in the Soviet Union, 1980, http://marxists.org/archive/bland/index.htm .

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– Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, Proposte riguardanti la linea generale del movimento comunista internazionale, in Opere di Mao Tse Tung, 25 volumi in versione cd rom, volume 20, pp. 59 ss.

– Engels F., Marx K., Manifesto del Partito Comunista, 1848, ilgiardinodeipensieri.eu/testi/manifesto_testo.pdf .

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Sitografia

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cronologia.leonardo.it
doc.studenti.it
economia.unipv.it
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ilgiornale.it
ilsole24ore.com
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