Antitesi n.03Imperialismo e guerra

Alcuni insegnamenti delle rivoluzioni proletarie e delle guerre popolari, ieri ed oggi

“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.03 – pag.44


Le rivoluzioni proletarie nel secolo scorso

Nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, Marx ed Engels, per la prima volta, esposero al mondo intero la visione materialistica della storia e della società divisa in classi, la teoria della lotta di classe e della funzione rivoluzionaria del proletariato: il potenziale protagonista della creazione di una nuova società senza sfruttati né sfruttatori.

Questa nuova concezione del mondo si basò sugli epocali cambiamenti economico-sociali successivi all’affermazione del capitalismo industriale e sulla conseguente polarizzazione di classe tra borghesia e proletariato. Il marxismo rappresentò l’elemento scientifico, di coscienza e di avanguardia, che si poneva alla testa della lotta spontanea del proletariato, mutandola in lotta rivoluzionaria. Nel Che fare, Lenin affermò che “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario (…) gli operai non potevano ancora possedere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno. La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia colle sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc. La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali. Per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi”. [1] Ciò permise un salto dalla quantità della lotta economica di classe alla qualità della lotta rivoluzionaria di classe, ponendo tre scopi definiti: “formazione del proletariato in classe [2]abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato”. [3]

L’esempio storico più indelebile della potenzialità rivoluzionaria della classe operaia dell’epoca rimane la Comune di Parigi del 1871, che fece divenire realtà l’ipotesi teorica della presa del potere politico da parte del proletariato. Anche se la Comune resistette solo per breve tempo, essa fu fondamentale, sia nei suoi aspetti positivi che nei suoi limiti, per tracciare un punto di riferimento nella costruzione della prassi rivoluzionaria.

Nella successiva vittoria rivoluzionaria del 1917 la straordinaria capacità di Lenin e del Partito Bolscevico fu di leggere e applicare in maniera creativa le tesi di Marx ed Engels, adattandole alle specificità della Russia, così come di capire gli insegnamenti della Comune di Parigi, rinnovando l’analisi della nuova fase capitalista di quest’epoca, quella dell’imperialismo. [4] Ciò permise ai bolscevichi di elaborare una strategia rivoluzionaria su cui incardinare gli obbiettivi suddetti della “formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato”.

Tale strategia venne praticata, a livello politico generale, attraverso tre passaggi principali: il ruolo di guida di massa del partito d’avanguardia nella sconfitta del potere zarista, la formazione del fronte delle classi sociali oppresse nell’alleanza tra operai e contadini e la costruzione dell’esercito rivoluzionario, l’Armata Rossa.

Ciò significò costruire fin da subito strumenti politici e militari strutturalmente organizzati, con cui la strategia rivoluzionaria prese corpo, dapprima nel contendere il potere alla borghesia e ai proprietari terrieri da parte delle classi oppresse, poi con l’instaurazione e la difesa della dittatura del proletariato, costituendo uno Stato basato sulla democrazia dei soviet, i consigli degli operai, dei contadini e dei soldati. A differenza della Comune di Parigi, che venne stroncata dalla controrivoluzione interna e dagli invasori prussiani, l’Unione Sovietica resistette alla sollevazione armata dei reazionari nella guerra civile del 1917-1920, sostenuta dall’intervento delle maggiori potenze imperialiste, e soprattutto all’aggressione nazifascista durante la Seconda guerra mondiale. Fu grazie al ruolo di direzione del Partito Comunista, al fronte tra operai e contadini, concretizzato nella democrazia dei soviet e alla forza dell’Armata Rossa, distaccamento militare delle masse popolari sovietiche, che la rivoluzione non venne soffocata e viceversa progredì. Dopo il 1945 la contraddizione tra l’Unione Sovietica socialista e i paesi imperialisti s’inasprì nuovamente visto il prestigio che la prima aveva acquisito con la sua eroica lotta contro il nazifascismo e il conseguente “pericolo” del contagio bolscevico ai popoli oppressi di tutto il mondo. La guerra fredda fu la risposta per scongiurare tale allarme. Dal 1948 e il 1957, successivamente al genocidio atomico di Hiroshima e Nagasaki, si conteranno diciassette piani statunitensi per l’annientamento nucleare dell’Urss. Solo il tradimento revisionista del XX° congresso del Partito Comunista dell’Urss, portando progressivamente alla restaurazione del capitalismo, riuscì a espugnare la fortezza rivoluzionaria costruita dalla direzione di Lenin e Stalin. [5]

Sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre, della vittoria sul nazifascismo, della capacità dell’Urss di tenere testa all’imperialismo internazionale, la volontà di costruire una società basata sul progresso e l’uguaglianza, basata sul modello sovietico, si espanse ovunque nel mondo. Già nel 1919, alla prima riunione del Comintern, erano presenti delegazioni di trenta partiti comunisti di altrettanti paesi. L’internazionalismo fu la dimensione naturale e necessaria con la quale l’Ottobre Sovietico dava la sua lezione di emancipazione ai popoli. Ma in realtà tale lezione stentò ad essere appresa nella pratica di molti partiti comunisti perché veniva, per errore o per calcolo opportunista, recepita in termini dogmatici e formali. Il leninismo, ovvero il marxismo dell’epoca dell’imperialismo, condensando gli insegnamenti della Rivoluzione Sovietica, rappresentava una nuova tappa del pensiero comunista che, acquisendo valore universale, chiamava i singoli reparti rivoluzionari a misurarsi con la sua applicazione pratica nei contesti specifici dove si trovavano ad agire.

“Fare come la Russia” significò ben poco laddove l’azione politica dei comunisti non si seppe basare su una strategia finalizzata alla presa del potere del proletariato, laddove per realizzare questa strategia non venivano costruiti gli strumenti che avevano permesso la rottura rivoluzionaria da parte dei bolscevichi (il partito, il fronte, l’esercito) e soprattutto se la lezione dell’Ottobre veniva ripetuta a menadito, in termini dogmatici e formalistici, ma non applicata creativamente alla situazione concreta dei singoli paesi e delle contraddizioni sociali e politiche specifiche.

Solo quando il patrimonio politico acquisito venne applicato creativamente, il movimento comunista riuscì ad avanzare. L’esperienza del Partito Comunista Cinese (Pcc), di Mao Tse Tung e della rivoluzione proletaria in un paese semicoloniale, com’era la Cina, rappresentò sicuramente la continuità più forte degli insegnamenti dell’Ottobre sovietico proprio perché seppe applicarli creativamente e dunque svilupparli ulteriormente, generalizzando questo ulteriore avanzamento nel patrimonio internazionale del movimento comunista.

A fondamento di tutti gli apporti teorici e ideologici che la Rivoluzione Cinese diede al movimento comunista, vi sono due concezioni.

La prima, fondamentale, consiste nel primato della prassi: “I marxisti ritengono che soltanto la pratica sociale degli uomini è il criterio della verità delle loro conoscenze del mondo esterno. Di fatto gli uomini ricevono la conferma della verità delle loro conoscenze solo dopo che nel corso del processo della pratica sociale (nel processo della produzione materiale, della lotta di classe e della sperimentazione scientifica) hanno raggiunto i risultati previsti. (…) La teoria dialettico-materialista della conoscenza pone la pratica al primo posto; essa ritiene che la conoscenza umana non può in nessun modo essere separata dalla pratica e respinge tutte le erronee teorie che negano l’importanza della pratica o scindono la conoscenza dalla pratica.”. [6]

Infatti, la teoria sviluppata nella prassi si traduce in un patrimonio funzionale alla direzione della lotta, allo sviluppo della tattica e della strategia rivoluzionaria e all’organizzazione e queste acquisizioni vanno a rientrare nel patrimonio complessivo del proletariato.

La seconda, principale, è la concezione della linea di massa, che riprese l’insegnamento di Marx secondo cui “la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse”. [7] Mao Tse Tung affermò infatti che: “In tutto il lavoro pratico del nostro partito, una direzione giusta deve fondarsi sul seguente principio: dalle masse alle masse. Questo significa che bisogna raccogliere le idee delle masse (frammentarie, non sistematiche), sintetizzarle (attraverso lo studio trasformarle in idee generalizzate e sistematiche), quindi portarle di nuovo alle masse, diffondere e spiegare queste idee finché le masse non le assimilano, vi aderiscono fermamente e le traducono in azione e verificare in tale azione la giustezza di queste idee. Poi sintetizzare ancora una volta le idee delle masse e riportarle quindi alle masse perché queste idee siano applicate con fermezza e fino in fondo. E sempre così, ininterrottamente, come una spirale senza fine; le idee ogni volta saranno più giuste, più vitali e più ricche. Questa è la teoria marxista della conoscenza”. [8] Attraverso l’elaborazione della linea di massa, Mao e il Pcc svilupparono ulteriormente la concezione del rapporto tra elemento soggettivo cosciente (organizzato nel partito) e elemento soggettivo spontaneo, quello delle masse, che è riflesso immediato delle condizioni e contraddizioni oggettive. La coscienza politica “apportata dall’esterno”, così come disse Lenin nel Che fare, venne concepita e compresa a uno stadio più elevato come trasformazione in senso politico della coscienza embrionale e spontanea delle masse, il che può avvenire solo ad opera dell’elemento d’avanguardia. Contemporaneamente, le idee sistematizzate ed elaborate dall’avanguardia devono trovare loro sperimentazione nella pratica stessa della lotta, coinvolgendo le masse. In termini politici generali, linea di massa significa dunque integrazione delle masse sul piano strategico rivoluzionario, per dare a quest’ultimo l’unica base in grado di sostenerlo nel suo determinarsi nella lotta per l’abbattimento della classe dominante.

Ponendo il primato della prassi come fondamento di sviluppo della conoscenza e la linea di massa come principio direttivo politico, nacque la concezione della strategia della guerra popolare di lunga durata, che rappresentò un passaggio pratico-teorico fondamentale per lo sviluppo del movimento comunista. Solo, infatti, nella pratica della lotta rivoluzionaria, il proletariato e la sua avanguardia possono avanzare nella prospettiva della presa del potere e solo legando questa pratica al vasto movimento delle masse popolari possono far progredire realmente la lotta rivoluzionaria fino al rovesciamento delle classi dominanti.

Il Pcc condusse la guerra popolare di lunga durata a partire dal 1926, dapprima contro il regime compradore semicoloniale (1924-1927), poi principalmente contro il Kuomintang (1928-1936), successivamente contro gli invasori giapponesi (1937-1945) e infine nuovamente contro il Kuomintang, fino alla presa del potere nel 1949. Fu una guerra basata principalmente sulla mobilitazione delle larghe masse contadine, con l’accerchiamento progressivo delle città da parte delle campagne, ponendo la guerriglia partigiana come condizione per sviluppare, man mano, decisive insurrezioni generali. Fu attraverso questa strategia che il potere rosso si radicava dapprima nelle zone liberate, le cosiddette basi d’appoggio, per poi estendersi fino all’abbattimento definitivo delle classi sfruttatrici legate all’imperialismo. Fu un processo rivoluzionario diretto dalla classe operaia tramite il Partito Comunista, ma al quale parteciparono e contribuirono tutte le classi oppresse e fondamentalmente i contadini. L’Esercito Popolare di Liberazione, sotto comando del Partito, fu il principale strumento non solo militare, ma anche politico con il quale la rivoluzione si radicò, conquistò e mobilitò le larghe masse popolari.

La politica di alleanze e rotture che il Pcc portò avanti nei confronti del principale partito borghese cinese, il Kuomintang, fu dovuta al dispiegarsi di tattiche diverse a seconda della fase concreta di sviluppo della lotta rivoluzionaria e dunque al determinarsi della contraddizione principale che la segnava in un dato periodo. Ad esempio, la politica di fronte unito contro l’imperialismo giapponese adottata dal Pcc nei confronti del Kuomintang, fu conseguenza del fatto che la contraddizione principale, in quella data fase corrispondente alla Seconda guerra mondiale, era quella con gli invasori nipponici e che andava realizzata la più vasta alleanza possibile contro la loro politica di occupazione della Cina.

L’elaborazione da parte del Pcc del programma della rivoluzione di nuova democrazia, come tappa necessaria per il successivo passaggio al socialismo nelle oggettive condizioni di un paese semicoloniale, risolse la questione, fortemente dibattuta nella Terza Internazionale, della possibilità di ricondurre sotto la direzione del proletariato la lotta per la decolonizzazione. In base a tale programma, la classe operaia doveva porsi a capo dei processi rivoluzionari nei paesi semicoloniali, la cui subordinazione all’imperialismo li relegava ancora a rapporti feudali nelle campagne e all’insussistenza di uno sviluppo capitalistico autonomo, conquistando il potere in alleanza con le altre classi oppresse dalla dominazione straniera e dalla borghesia ad essa legata (cosiddetta compradora). Con la conquista del potere da parte del proletariato, il regime di nuova democrazia avrebbe promosso uno sviluppo limitato del capitalismo autoctono, in grado di porre le basi oggettive, in termini di forze produttive, per poter iniziare la transizione al socialismo. Alla base di tale programma vi stavano dunque la riforma agraria, con la distruzione del latifondo, gli investimenti statali per la crescita del settore industriale e la scolarizzazione e l’istruzione di massa.

L’eredità che l’esperienza della Rivoluzione Cinese, e il suo lungo portato d’insegnamenti, lasciarono al patrimonio comunista fu condensato nel maoismo come terza tappa del pensiero comunista dopo il marxismo e il leninismo. Il maoismo, oltre che nella lotta per la conquista del potere, si sviluppò anche come critica agli arretramenti ideologici e politici dovuti all’affermarsi del cancro del revisionismo moderno in Unione Sovietica e in altri paesi come l’Italia, con la parabola riformista e parlamentarista del Pci togliattiano, che liquidò i rapporti di forza conseguiti dal proletariato dopo la vittoria della guerra partigiana antifascista.

Non concepire la prassi-teoria di Mao Tse Tung e del Pcc come nuovo avanzamento nella comprensione delle leggi che regolano la lotta di classe, significa non aver colto come la Rivoluzione Cinese rappresentò il terzo paradigma della vittoria rivoluzionaria del proletariato dopo la Comune di Parigi e la Rivoluzione Sovietica. E ciò avvenne non per le sue peculiarità eccezionali, ma viceversa per il suo concentrare ed esemplificare l’esperienza generale che il proletariato acquisiva nella lotta rivoluzionaria dopo l’Ottobre 1917, nella guerra antifascista e nella battaglia anticolonialista. In altre parole, la Rivoluzione Cinese concentrò, esemplificò e portò alla massima espressione teorica, tramite il maoismo, il patrimonio ideologico e politico che il proletariato andava acquisendo dopo la Rivoluzione Sovietica. Si arrivò così anche ad una maggiore comprensione di quest’ultima, come guerra popolare di lunga durata, pur con le sue specificità perché svoltasi in un paese imperialista. [9]

Infatti i processi rivoluzionari che seguirono alla Rivoluzione Cinese, di fatto vi si posero in continuità rispetto, soprattutto, all’applicazione della strategia della guerra popolare di lunga durata.

Guardiamo al caso di Cuba. La lotta delle masse cubane contro il regime di Batista sostenuto dall’imperialismo statunitense, che si protrasse dal 1953 al 1959, consistette in una guerra popolare di lunga durata, capace di mobilitare la classe contadina, accerchiare le città e infine condurvi l’insurrezione finale, grazie all’egemonia esercitata tra le masse operaie al loro interno. Le seguenti parole di Che Guevara definiscono chiaramente, in particolare, la sintesi politico-strategica tra guerra popolare e linea di massa che fu alla base della Rivoluzione Cubana: “La guerra di guerriglia è una guerra del popolo, è cioè una lotta di massa. Pretendere di fare la guerra di guerriglia senza l’appoggio della popolazione, vuol dire andare incontro a un disastro inevitabile. La guerriglia è l’avanguardia combattente del popolo, situata in un luogo determinato, e intenta a sviluppare una serie di azioni di guerra rivolte a un solo fine strategico possibile: la presa del potere. Questa guerriglia è appoggiata dalla lotta di massa dei contadini e degli operai della zona e di tutto il territorio in cui essa si situa. Senza queste condizioni, è impossibile ammettere la guerra di guerriglia”. [10] Fu questa sintesi tra direzione e azione d’avanguardia politico-militare e mobilitazione delle vaste masse popolari che consentì alla Rivoluzione Cubana di essere un esempio vittorioso per il mondo e soprattutto per il Latinoamerica.

Ma, senza voler negare il valore imprescindibile di ogni lotta rivoluzionaria, va rilevato come la tendenza ad assolutizzare il ruolo soggettivo dell’avanguardia e del metodo della guerriglia, portò a gravi sconfitte al movimento comunista in quell’area del globo. Ad esempio le influenze del cosiddetto “fochismo”, negando il ruolo fondamentale delle masse e dunque la reale lezione della Rivoluzione Cubana, finirono per danneggiare lo sviluppo del movimento comunista in Sud America. [11]

Una delle particolarità più rilevanti della Rivoluzione Cubana è che essa conquistò una natura proletaria nel corso stesso del suo sviluppo e, definitivamente, dopo la presa del potere, nascendo principalmente come un processo di liberazione nazionale, con un programma democratico e patriottico. Fu la prassi della guerra popolare a trasformare il Movimento 26 luglio da struttura di fronte a partito rivoluzionario e, infine, a costituire il Partito Comunista con la confluenza delle forze più avanzate che avevano contribuito alla presa del potere. Nella lotta del popolo cubano e in altri avanzamenti del movimento comunista, l’assunto leninista secondo cui “senza teoria rivoluzionaria non c’è movimento rivoluzionario” finì per essere formalmente negato, ma sostanzialmente confermato e sviluppato alla luce del primato della prassi. Fu la pratica che permise alla teoria di formarsi e avanzare secondo le necessità che la pratica stessa incontrò nel suo essere tale. Concretamente la rottura con l’imperialismo e l’emancipazione nazionale necessariamente si svilupparono nell’adozione della teoria del movimento comunista e nella direzione del proletariato su tale processo di liberazione.

Un altro paese che si liberò dal colonialismo e dall’imperialismo attraverso la guerra popolare di lunga durata fu il Vietnam, che sconfisse dapprima gli occupanti francesi, poi quelli giapponesi e infine gli statunitensi. Fu una lotta rivoluzionaria che unì la decolonizzazione alla rivoluzione proletaria, guidata dal Partito Comunista, combattuta dall’esercito popolare composto da migliaia di contadini e lavoratori e organizzata dal Fronte di Liberazione Nazionale. Anche in questo caso, dunque, ritroviamo il partito, l’esercito e il fronte come strumenti della vittoria del proletariato nella lotta per il potere, addirittura capaci di sconfiggere l’apparentemente invincibile macchina da guerra yankee. E ancora una volta, ritroviamo la sintesi tra strategia rivoluzionaria e linea di massa, che si realizza nella guerra popolare di lunga durata, alla base della vittoria del popolo vietnamita. Così si espresse uno dei maggiori artefici di questa vittoria, il comandante dell’esercito popolare Vo Nguyen Giap: “Uno dei grandi elementi a nostro favore è il fatto che combattiamo una guerra di popolo e che abbiamo l’esperienza necessaria per dirigerla. In campo militare, insieme con le novità delle armi atomiche, è stata fatta in questa nostra epoca una scoperta ancora più grande: la guerra di popolo. Il popolo vietnamita ha contribuito concretamente a forgiare quest’arma invincibile. Sorta nelle condizioni storiche, politiche e sociali specifiche del nostro paese, questo tipo di guerra ha raggiunto, nel corso della nostra lotta, un livello altissimo ed un contenuto creativo di estrema ricchezza.

Sviluppandosi secondo le leggi generali che presiedono alle guerre rivoluzionarie, la guerra di popolo obbedisce anche a leggi che sono specifiche della società e del terreno di lotta vietnamiti. Su queste basi, essa costituisce una guerra rivoluzionaria di tutto il popolo, una guerra totale, essendo contemporaneamente una guerra rivoluzionaria condotta da una nazione piccola e debole, da un paese con un territorio non grande, con una popolazione non numerosa, con un’economia poco sviluppata, ma che si basa sull’unità di tutto il popolo e che finirà con lo sconfiggere un nemico all’inizio molte volte più forte di lei.

La guerra del popolo vietnamita è una lotta armata rivoluzionaria sviluppatasi sulla lotta politica delle masse popolari. La forza illimitata delle masse rivoluzionarie che ha avuto il suo sbocco nella creazione di forze armate rivoluzionarie ha dato a queste ultime una eccezionale capacità di combattimento e grandi potenzialità di vittoria. (…) Nel corso stesso della guerra, la lotta armata è strettamente collegata alla lotta politica, in una reciproca relazione di sostegno e di stimolo. In questo modo la parola d’ordine “mobilitare, armare tutto il popolo, battersi su tutti i fronti” è divenuta realtà”. [12] 

Le vittorie rivoluzionarie in Cina, a Cuba e in Vietnam rappresentarono la capacità del movimento comunista di porsi alla testa del movimento di decolonizzazione, contrassegnando in tal senso la lotta per l’emancipazione delle masse dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale e riuscendo a conseguire altri straordinari avanzamenti.

La sconfitta dell’opzione rivoluzionaria nei paesi imperialisti

La spinta rivoluzionaria dell’Ottobre Sovietico tese a diffondersi immediatamente in Europa, ma venne fermata sanguinosamente dalle classi dominanti. Laddove i comunisti, sulla scorta di profondi sommovimenti di massa, avanzarono verso la presa del potere, come in Germania nel 1918 e in Ungheria nel 1919, non riuscirono a essere all’altezza della situazione determinatasi, in campo strategico e politico-militare, mancando una vera e propria direzione di partito e non essendo risoluti nel distruggere lo Stato borghese e imporre la dittatura del proletariato.

In particolare, con il sorgere dei movimenti fascisti, il movimento comunista e più in generale quello operaio, si trovò a fronteggiare una controrivoluzione preventiva armata che, finì, in molti casi, per mutare lo stesso regime politico della borghesia, tramutando il vecchio Stato liberale, inadatto allo scontro di classe, in Stato autoritario-totalitario. Inoltre, la socialdemocrazia e altri movimenti operai a influenza borghese continuarono ad avere un consistente radicamento tra il proletariato, costituendo un fattore reale nella dinamica dello scontro di classe. La struttura sociale dei paesi europei, i rapporti politici, si erano consolidati in termini differenti rispetto a quelli della Russia zarista dove la rivoluzione proletaria era riuscita a vincere – peraltro nelle condizioni oggettive prodotte dalla guerra imperialista – ma nessun partito comunista riuscì ad avere una prassi e una comprensione tale della realtà che aveva difronte capace di procurargli la vittoria. Essi, in particolare, non seppero porre la questione della presa del potere in termini strategici e tattici, cioè praticando l’accumulo di forze rivoluzionarie che doveva essere necessario per l’obbiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese, inevitabilmente forzando quelle congiunture oggettive di debolezza della classe dominante che la storia comunque produsse.

A determinare la sconfitta dell’opzione rivoluzionaria nei paesi europei, fu, principalmente, l’incapacità del movimento comunista europeo a guidare una guerra proletaria e rivoluzionaria, calibrata sul piano strategico e tattico, che potesse resistere e vincere la guerra controrivoluzionaria che la borghesia, in primis con il fascismo, gli scatenò contro. Viceversa, laddove, come avvenne nei paesi oppressi – a partire dall’Asia e in particolare dalla Cina – questa guerra venne condotta e compresa nella formula della strategia della guerra popolare di lunga durata, allora il movimento comunista riuscì a vincere.

Infatti, durante la Seconda guerra mondiale, l’instaurazione delle democrazie popolari nell’Europa Orientale, rappresentò la capacità del movimento comunista di porsi alla testa della lotta antifascista, unendo quest’ultima all’instaurazione del potere del proletariato e al superamento del capitalismo. Fu dunque la guerra il fattore che fece riemergere concretamente la prospettiva della rivoluzione proletaria in Europa. Guerra imperialista scatenata dalla borghesia, in particolare da quella tedesca, che l’Urss riuscì a trasformare in offensiva antifascista e rivoluzionaria a partire dalla vittoria di Stalingrado. Guerra partigiana e dunque popolare che i partiti comunisti e i fronti antifascisti condussero nei paesi invasi dai nazifascisti, tramutando l’occupazione militare in resistenza armata nazionale e, infine, in rivoluzione sociale e proletaria.

L’Europa Occidentale, invece, fin dal 1945 fu vincolata alla strategia statunitense, fin dal primo dopoguerra con il piano Marshall e successivamente con il Trattato dell’Alleanza Atlantica, la Nato, sancito nel 1949. L’Italia, terra di frontiera tra il campo socialista e quello capitalista, diventò centrale nei piani anticomunisti e antisovietici, attraverso una pressante ingerenza statunitense. Caduto il fascismo e cacciati gli occupanti nazisti, la borghesia italiana riuscì infatti a ricostruire il proprio potere attraverso il regime democristiano, in alleanza con l’imperialismo statunitense.

Il proletariato e le masse lavoratrici italiane, attraverso la lotta antifascista, avevano conquistato dei rapporti di forza molto avanzati rispetto alle classi dominanti. Di fatto, la guerra partigiana contro i nazifascisti era consistita in una guerra popolare a cui il Partito Comunista di Togliatti non aveva dato l’obbiettivo della presa del potere rivoluzionario, rinunciandovi sulla base dell’unità nel fronte stabilito con le componenti borghesi partecipanti alla lotta di liberazione. Nonostante ciò, come sappiamo, dopo il 25 Aprile 1945 sono molti i partigiani che non deposero le armi e che, insieme a tanti operai e proletari, ritennero che la liberazione dovesse proseguire in senso rivoluzionario contro le classi borghesi, gli agrari e il capitale finanziario che avevano alimentato e sostenuto il fascismo per servirsene a garanzia del mantenimento dei propri privilegi economici.

Il patrimonio di lotta resistenziale fu però tenuto a freno e si puntò a liquidarlo, impedendogli di sfociare in una trasformazione completa della società, da parte della politica compromissoria della dirigenza del Pci, questa abbandonò completamente la causa rivoluzionaria nel nome di una “via nazionale al socialismo”, che significò riformismo e parlamentarismo, sottostando così sempre di più alle classi dominanti fino a che non ne diventò strumento integrante. Così facendo, il Pci divenne uno degli apripista del prevalere della destra revisionista nel movimento comunista, esplicitatosi con il 20° congresso del Partito Comunista dell’Urss. Con il revisionismo e il riformismo, il Pci divenne uno dei puntelli esterni del regime di controrivoluzione preventiva in forma democratica che la classe dominante aveva costituito e costruito dopo il fallimento del fascismo. Un regime che, pur utilizzando strumenti e acquisizioni del fascismo (oltre che i fascisti stessi), non punta, a differenza del predecessore, ad annientare le forze proletarie e comuniste, ma ad integrarle nel quadro egemonico della classe dominante. Il tradimento del gruppo dirigente togliattiano stette principalmente nell’aver accettato l’integrazione e di assumersi a sua volta questa funzione rispetto alle masse popolari, avversando ogni spinta del proletariato e di forze soggettive comuniste che premeva per rompere questo quadro egemonico della borghesia.

La forza indelebile del patrimonio della Resistenza, unita alla mobilitazione operaia degli anni a seguire, portò comunque nel decennio degli anni ’70 a riaprire nel nostro paese l’ipotesi rivoluzionaria attraverso la pratica delle organizzazioni comuniste combattenti. Quest’ultime ruppero con il revisionismo ponendo la questione della presa del potere attraverso le armi, ma non seppero porsi alla testa delle masse popolari, dandosi una linea di massa rivoluzionaria, finendo sconfitte nello scontro con lo Stato borghese e la strategia di controrivoluzione preventiva così come dispiegata e rimodulata al fine di sconfiggerle. [13]

L’avanzamento del movimento comunista nella fase attuale

Il patrimonio ideologico rivoluzionario del marxismo – leninismo – maoismo, trova diversi esempi di attuazione nella fase attuale. Se il revisionismo e la degenerazione delle esperienze di “socialismo reale”, assieme ovviamente alla sapiente azione della controrivoluzione preventiva, sono alla base della crisi del movimento comunista nella nostra epoca, tale crisi viene messa in discussione da quei partiti d’avanguardia che oggi riescono a leggere la propria realtà specifica individuandone le contraddizioni principali e agiscono in esse con una linea di massa corretta in dialettica all’azione politica e militare.

Le esperienze positive in questo senso vedono le forze comuniste sia promuovere ed esercitare la direzione su poderosi processi rivoluzionari sia partecipare all’interno di fronti antimperialisti diretti o egemonizzati da forze di borghesia nazionale [14], ma altresì riuscendo a difendere una propria autonomia politica.

Oggi, l’organizzazione comunista rivoluzionaria che si distingue per il peso politico e militare che esercita nel proprio paese è il Partito Comunista dell’India – Maoista (Pci – m). Nata nel 2004 raccolse l’eredità storica, i quadri, e le strutture di sei organizzazioni del movimento rivoluzionario indiano, unificate sotto un unico partito che ha elaborato, nella prassi, la strategia politica – militare della guerra popolare prolungata, dirigendo l’azione dell’Esercito Guerrigliero Popolare di Liberazione, che nello stesso anno contava 20 mila effettivi. La sua azione è concentrata principalmente nelle campagne di circa nove Stati dell’Unione Indiana [15] e di un terzo dei distretti che compongono l’India, nella zona orientale del paese. Un territorio che si snoda da Nord a Sud del subcontinente e che i compagni hanno denominato “compact revolutionary zone”. Il Pci – m, nella fase attuale, organizza soprattutto i contadini poveri delle zone rurali, in gran parte appartenenti all’etnia discriminata degli adivasi, in continuo scontro con i governi degli Stati in cui opera e con le multinazionali estere e indiane. Quest’ultime, per conseguire il controllo degli enormi giacimenti minerali della nazione – soprattutto di bauxite, la principale materia prima per produrre l’alluminio – stanno devastando il territorio in cui vivono le popolazioni rurali adivasi.

Obiettivo del Partito è quello di radicarsi maggiormente nelle aree urbane sul quale ha elaborato un programma di lavoro specifico, mirante a superare i limiti imposti dalla massiccia presenza dei centri di potere e quindi delle forze della controrivoluzione, così come del necessario radicamento tra la classe operaia e la piccola borghesia urbana. [16]

Alla base dell’avanzamento del Pci – m è la sua capacità di mettere in dialettica lotta armata e lotta di massa, nella quale l’una serve l’altra: mentre le organizzazioni e le lotte di massa servono alla lotta armata e alla guerra, queste ultime, a loro volta, aiutano il movimento di massa ad avanzare ulteriormente. Esemplare da tale punto di vista è la compenetrazione tra guerra popolare e difesa di massa degli adivasi dalla devastazione ambientale delle loro terre. Con l’organizzazione di poderose mobilitazioni, attraverso azioni di sabotaggio, attacchi partigiani contro poliziotti e altri mercenari governativi, il Pci – m è riuscito a dare una direzione rivoluzionaria alla lotta degli adivasi, che tende così a svilupparsi da lotta di difesa territoriale a lotta per il rovesciamento delle classi dominanti dell’India e per il potere dei lavoratori e dei contadini. Per il Pci – m, la costruzione delle organizzazioni di massa e la conduzione delle lotte di massa deve essere quello di servire la guerra popolare, cioè devono far parte del fronte guidato dal Partito e in dialettica con l’Esercito Guerrigliero. Le organizzazioni di massa costruite senza questa prospettiva non possono essere idonee a far avanzare la rivoluzione. Così recita a proposito il documento “Strategia e tattica della rivoluzione indiana”, uno dei testi fondanti la concezione politica del Pci – m: “Per realizzare la necessità di rovesciare la macchina statale e per comprendere gli appelli e le parole d’ordine del Partito, le masse si devono convincere tramite le loro esperienze di vita quotidiana, attraverso le esperienze acquisite organizzandosi e partecipando a lotte di massa militanti. L’organizzazione di massa è perciò un’arma potente per convincere le masse e infondere loro la fiducia nel fatto che possono liberarsi da ogni oppressione e sfruttamento con l’organizzazione e la lotta collettiva. Questo naturalmente non vuol dire che le masse ottengano automaticamente la coscienza politica necessaria per rovesciare l’apparato statale e costruire una nuova società democratica e il socialismo. Come il compagno Lenin ha ripetutamente avvisato, questa coscienza deve essere instillata nelle masse lavoratrici dall’esterno; esse non la possono acquisire tramite le lotte sulle loro rivendicazioni economiche o parziali. Perciò il più importante compito del Partito all’interno delle organizzazioni di massa è quello di risvegliare politicamente le masse e impregnarle con la politica rivoluzionaria della presa del potere con le armi. Le masse possono comprendere la politica del Partito e farla propria applicandola giorno per giorno nelle loro lotte”. [17]

Sulla stessa linea strategica della guerra popolare prolungata, opera il Partito Comunista delle Filippine, principalmente dirigendo il Nuovo Esercito del Popolo (Nep) e il Fronte Democratico Nazionale. Il Nep è l’organizzazione militare della guerra popolare nelle Filippine, attivo su ben oltre un centinaio di fronti di guerriglia nonché espressione del potere popolare nel mobilitare le masse contadine e nell’implementare la riforma agraria nelle zone in cui opera.

Il Fronte Democratico Nazionale è una vasta alleanza di diciassette organismi politici comprendenti operai, contadini, piccola borghesia, minoranze nazionali, donne, giovani, scienziati e perfino religiosi. La loro funzione è quella di sostenere, con la lotta di classe, il processo rivoluzionario e la strategia della guerra popolare.

L’azione di queste forze copre l’intero paese, contendendo il potere alle forze del vecchio Stato in vaste aree e contando su alcune zone in ambito rurale, le cosiddette basi di appoggio, liberate e amministrate dal nuovo potere operaio e contadino. Così i compagni filippini, in un documento del 2009, pongono in rapporto partito, fronte ed esercito in rapporto al lavoro di massa: “Noi dobbiamo avere un piano complessivo per espandere e consolidare il movimento rivoluzionario di massa sia nelle città che nelle campagne. Per questo fine, possiamo contare su decine di migliaia di quadri e membri del Partito nel condurre il lavoro di massa. Il loro dovere è risvegliare, organizzare e mobilitare le masse oppresse dei lavoratori, dei contadini e del resto del popolo sulla linea della rivoluzione di nuova democrazia tramite la guerra popolare prolungata. Abbiamo una vasta e profonda base di massa all’interno del popolo e in tutta la nazione. Possiamo avanzare onda su onda da tale base di massa. Le sezioni locali e i comitati direttivi del Partito guidano le organizzazioni di massa. Queste possono essere costruite in vista dell’espansione del Nep. Possono preparare la strada per l’azione del Nep e per costruire organi di potere politico prima temporanei e poi stabili. In ogni caso, il Partito può designare all’interno del Nep le squadre di combattenti rossi per il lavoro di massa.

Il nostro partito ha nel Nuovo Esercito del Popolo la sua organizzazione principale per combattere il nemico, per la costruzione del movimento di massa nelle campagne, per implementare gli organi del potere politico e rafforzare l’alleanza di base della classe operaia e dei contadini”. [18]

Sul rapporto tra partito e fronte un esempio importante è quello dei compagni del Dhkp-c, il Partito-Fronte di Liberazione del Popolo Rivoluzionario operante attualmente in Turchia e Nord Kurdistan. L’organizzazione marxista – leninista nasce nel 1994 come prodotto di un lungo processo di lotta iniziato nel 1968 dal Partito-Fronte di Liberazione del Popolo della Turchia, Thkc-p.

Il Dhkp-c a ha mutuato e rivisto dalle esperienze precedenti la linea della Political-Military Strategy of Struggle (Pass) o Guerra Rivoluzionaria Combinata che individua la formazione di una guerriglia rurale e una urbana, le quali agiscono da esercito popolare regolare: la prima con l’obiettivo di costruire basi d’appoggio stabili in grado di integrare e accumulare forze, la seconda più mobile in grado di colpire i centri del potere turco e affiancare le mobilitazioni di massa nelle città: scortando e difendendo i cortei di lavoratori e studenti, difendendo i quartieri o i villaggi dagli assalti dei fascisti e dei lupi grigi. Così questi compagni definiscono la loro linea: “La guerra popolare, combattuta con le armi, sotto la guida del partito e del fronte rivoluzionario di liberazione del popolo, crescerà nelle campagne e nelle città in seguito alla propaganda armata e si rafforzerà e svilupperà fino al livello di guerra di guerriglia e alla formazione di un esercito guerrigliero. Insieme alla crescita del movimento popolare e delle insurrezioni locali, si formerà un esercito popolare che porterà alla distruzione dello stato oligarchico con un’insurrezione generale, instaurando il potere rivoluzionario del popolo. Il nostro partito vede la prima fase di questa guerra di popolo come guerriglia portata avanti da un’avanguardia sulla base della propaganda armata.

La lotta armata è fondamentale, ma non è l’unico modo di combattere la guerra popolare. Questa guerra sarà condotta in base alla Pass, la Strategia Militare Politicizzata della Guerra, che corrisponde alle condizioni e alla situazione del nostro paese. La base della lotta rivoluzionaria è la guerriglia nelle campagne e nelle città. Oltre alla guerriglia si lotterà per la difesa a breve termine dei diritti e delle libertà del popolo. Tutte le concezioni che portano al fallimento della rivoluzione, facendola deviare dalla sua linea saranno combattute ideologicamente. Il nostro partito porta avanti le lotte economiche e democratiche quotidiane del popolo, ma fa anche chiaramente capire che queste lotte non possono portare alla liberazione definitiva e indica l’obiettivo della conquista del potere.

Le lotte democratiche ed economiche sono subordinate alla lotta armata e rafforzano la guerra popolare.

L’obiettivo della guerra popolare è la distruzione del potere economico e politico dell’imperialismo, dell’oligarchia e dello stato fascista e l’instaurazione del potere rivoluzionario del popolo.

Il potere rivoluzionario del popolo è il potere rivoluzionario di tutte le classi e gli strati sociali che non appartengono all’imperialismo e all’oligarchia”. [19]

In Turchia e Nord Kurdistan, oltre al Dhkp-c, operano altre organizzazioni rivoluzionarie come il Partito Comunista Turco – Marxista Leninista (Tkp-ml), che dirige l’Esercito di Liberazione dei Lavoratori e dei Contadini della Turchia (Tikko), il Partito Comunista Maoista (Mkp), che dirige l’Esercito Popolare di Liberazione e il Partito Comunista Marxista Leninista (Mlkp). Queste formazioni oltre che all’interno dei confini turchi, sono impegnati nel Rojava, nel Kurdistan siriano, all’interno dei battaglioni internazionalisti diretti dal Partito dell’Unione Democratica (Pyd), l’ala siriana del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk). Pur conservando la loro autonomia politica, tali partiti rientrano nel fronte delle forze che compongono la Resistenza Curda, egemonizzata dal Pkk, con il quale, assieme ad altri sei gruppi rivoluzionari e antifascisti, hanno proclamato, nel marzo dello scorso anno, la nascita del Movimento Rivoluzionario dei Popoli Uniti. [20]

Infatti, nella fase attuale, nei diversi teatri di guerra imperialista, i reparti comunisti più avanzati riescono ad assumere un ruolo attivo nei processi di resistenza popolare, mettendo in atto di fatto una pratica di fronte con forze non proletarie, ma unite dalla necessità di lottare contro gli aggressori.

Questa condizione è ben esemplificata dal ruolo svolto dai compagni in Ucraina all’interno del battaglione “Priznak” dell’unità 404 e dai volontari delle Brigate Internazionaliste. Tali compagni, pur in condizione di minoranza, visto il prevalere delle organizzazioni legate agli interessi degli imperialisti russi e di formazioni nazionaliste, sono riuscite a difendere una propria autonomia politica e d’azione che ha dato una prospettiva di lotta antimperialista e internazionalista alla Resistenza del Donbass. L’altro esempio è il ruolo svolto dal Fronte Popolare di Liberazione della Palestina che lotta all’interno del più vasto fronte della Resistenza Palestinese o ancora quello dei comunisti siriani, mobilitatisi contro l’aggressione del proprio paese nel fronte diretto dal governo di Assad. [21]

Quest’unità quasi obbligata, visto l’esiguo peso che i comunisti hanno in simili contesti, è tutt’altro priva di contraddizioni e problemi interni. Un’unità connaturata da una situazione di lotta primaria rivolta verso il nemico principale e di lotta secondaria per difendere la propria autonomia, conquistare l’egemonia e quindi, in prospettiva, la direzione del fronte delle forze che lo combattono.

Le esperienze finora citate se pur rappresentando dei piccoli esempi dimostrano come le organizzazioni che perseguono la linea rivoluzionaria per la presa del potere e il superamento del modo di produzione capitalista, sviluppatisi nella lotta contro le classi dominanti, sono vivi e fecondi, mentre quelli che l’hanno abbandonata sono rifluiti, presto o tardi, nelle braccia del potere borghese tradendo gli obiettivi che perseguivano inizialmente.

L’allontanamento dalla prospettiva rivoluzionaria tende a produrre il disarmo ideologico per la classe, l’arretramento della lotta di massa e l’integrazione di questa nel sistema dominante. Emblematico da questo punto di vista è l’esperienza della guerra popolare in Nepal. Dal 2006, quello che allora si chiamava Partito Comunista del Nepal – Maoista ha abbandonato la linea della presa del potere e della rivoluzione di nuova democrazia, giustificando questa scelta con il cambio di regime avvenuto con la fine della monarchia e l’instaurazione della repubblica. Nei fatti hanno accettato di integrarsi nel regime della borghesia, inquadrando i guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Popolare in quello del governo e determinando progressivamente la liquidazione di dieci anni di guerra popolare. Oggi i cosiddetti maoisti nepalesi sono ai vertici del regime borghese del loro paese e artefici dello sfruttamento del loro popolo da parte delle classi dominanti locali e dell’imperialismo internazionale.

Cosa traiamo dal patrimonio storico e attuale del movimento comunista?

Le esperienze positive che abbiamo citato si caratterizzano per un’articolazione creativa, nel senso di concreta rispetto alla situazione oggettiva e alle forze soggettive in campo, degli strumenti chiave della rivoluzione proletaria: il partito, il fronte e l’esercito popolare. Solo declinando questi strumenti alla luce della contraddizione principale che queste organizzazioni e le masse popolari dei rispettivi paesi vivono, riescono a dare respiro a una strategia rivoluzionaria capace di porre concretamente la presa del potere politico all’ordine del giorno. La loro capacità di costruire accumulo di forze praticando la lotta armata e organizzando le masse per la rivoluzione è alla base delle vittorie e degli avanzamenti che riescono a conseguire. Il ruolo svolto dalle masse è posto come presupposto e risultato dell’azione rivoluzionaria con l’obiettivo di rappresentarne gli interessi, di dirigerne il movimento per una sempre maggiore adesione e partecipazione alla lotta per il potere.

Nella pratica rivoluzionaria e di resistenza dei comunisti in India, nelle Filippine, in Turchia, in Kurdistan, nel Donbass, in Palestina, in Siria…vivono gli insegnamenti delle rivoluzioni proletarie del secolo scorso.

Questi insegnamenti storici e attuali possiamo efficacemente sintetizzarli in alcuni punti, che ci sembrano possano essere alla base di una riflessione sul ruolo dei comunisti oggi, anche e soprattutto nella nostra situazione concreta.

Il primo che dobbiamo ribadire è la concezione del partito comunista come strumento di direzione e sviluppo della strategia rivoluzionaria. Se il partito comunista è quel soggetto dirigente e la strategia rivoluzionaria è la direzione da imboccare sia attraverso la propaganda sia con la pratica diretta, non esiste reale partito se esso non è in grado di promuovere tale strategia. In altre parole, il partito deve essere un soggetto politico autonomo in grado di mettere in campo la propria strategia in dialettica con il movimento reale delle masse nei suoi periodi di ascesa e nei suoi momenti di riflusso. Tutti i partiti comunisti che la storia ne ha visto lo sviluppo sono risultati vincenti in senso rivoluzionario perché hanno saputo portare avanti questo compito. Perché erano, o sono tutt’ora negli attuali scenari di guerra popolare, strumenti di direzione rivoluzionaria, quindi di espressione politica generale della classe proletaria e sfruttata e finanche militare. I partiti marxisti leninisti, maoisti, comunisti rivoluzionari solamente per il nome, presenti nelle società imperialiste a democrazia borghese, nel loro definirsi solamente partito senza essere strumenti per la rivoluzione in attesa “dei tempi maturi per farla”, finiscono inevitabilmente per essere il corollario di copertura a “estrema sinistra” del variopinto ventaglio dell’aggregazione politica-ideale che l’attuale regime di controrivoluzione preventiva amministra, dirige e, in ultima fase, tollera.

Il partito comunista come strumento reale, “per l’abolizione dello stato di cose presente” [22], si costruisce e vive nella direzione e nell’adempimento del processo rivoluzionario.

Il secondo insegnamento è la centralità della linea di massa e il suo concretizzarsi nel legare il piano immediato e tattico a quello strategico.

I comunisti si dovrebbero distinguere dal resto del movimento di classe perché cercano di rappresentare sempre gli interessi del movimento complessivo nelle varie fasi dello scontro tra proletariato e borghesia. I comunisti sono parte integrante della classe proletaria e devono sforzarsi di dirigerla essendo la parte più avanzata e organizzata di essa, valutandone lo sviluppo complessivo senza cadere nel settarismo o nel dogmatismo, ma compiendo “l’analisi concreta della situazione concreta” [23] per organizzare la sinistra, conquistare il centro e isolare la destra. La linea di massa riesce a unire il piano strategico al piano immediato-tattico [24], determinando le condizioni affinché il primo avanzi e diriga l’avanzamento fondandosi sulle solide basi del secondo. Altrimenti il piano strategico degenererà in soggettivismo politico mettendo sé stessi al di sopra del proletariato e di fatto auto isolandosi da esso, mentre il piano tattico sfocerà in opportunismo e nel codismo, mettendosi in coda alle masse, mascherando la propria identità e chiarezza in attesa dello scoccare “dell’ora X” della rivoluzione. Come disse lo stesso Lenin, la giustezza o meno della nostra direzione politica e delle nostre idee sono tali “a condizione che le grandi masse si convincano per propria esperienza di questa giustezza”. [25]

È il compito dei comunisti, anche qualora si trovino in una fase di arretramento e di assenza del partito rivoluzionario, ma proprio in funzione della sua costruzione, di portare l’istanza rivoluzionaria della lotta per il potere politico in ogni ambito di mobilitazione, all’interno delle masse popolari, soprattutto nella dimensione spontanea e immediata delle contraddizioni di classe della lotta economica e all’interno degli svariati settori di classe e sociali. Non ci interessa solamente il miglioramento delle condizioni di vita delle masse rimanendo nell’alveo del sistema dominante, bensì l’abbattimento e il superamento di tale sistema come soluzione definitiva alla crisi, al suo sfruttamento e al continuo peggioramento di tali condizioni. Beninteso che, se all’interno della lotta economica per i bisogni immediati manca l’organizzazione tra le masse, sono i comunisti che devono assumersi tale compito per legarsi a esse, anche su piani di lotte rivendicative e mobilitazioni spontanee, coscienti che dove non arrivano i comunisti arriveranno inevitabilmente i riformisti o la reazione. Quando c’è un vuoto materiale, come avviene in natura, ci sarà sempre qualcuno che lo riempirà.

È giusto lottare quotidianamente per la lotta economica e le rivendicazioni immediate delle masse popolari, ma cercando di apportare elementi di prospettiva rivoluzionaria. Propagandare l’idea che la vittoria di una lotta fine a sé stessa, per quanto importante e utile possa essere, non porta alla liberazione finale, che può avvenire solo ponendo l’obiettivo a lungo termine della conquista del potere.

La linea di massa assume una realtà concreta nella pratica del fronte dove i comunisti, soprattutto laddove non hanno la direzione di una lotta, devono costruire delle relazioni proficue con tutte quelle sincere componenti soggettive e politiche che sono in antagonismo con la classe dominante e ne possono sviluppare delle contraddizioni, salvaguardando da tutti i punti di vista la propria autonomia. Per costruire una reale visione di fronte è necessaria un’analisi della realtà sociale circostante, delle sue articolazioni e delle classi che manifestano interessi antagonisti a quelli dello Stato. Ad esempio durante le periodiche lotte dei settori della piccola borghesia in fase di proletarizzazione sotto i colpi della crisi, oppure durante le mobilitazioni interclassiste come nel caso degli studenti, degli immigrati, di genere e altro ancora.

Il terzo insegnamento generale è che la rivoluzione è un processo pratico e conseguentemente si conduce nella pratica.

La rivoluzione, partendo dalla costruzione di un soggetto politico rivoluzionario d’avanguardia, qual è il partito, è un processo reale generale e storico che si svolge principalmente sul piano della prassi a favore della classe proletaria. Il partito dirige questo processo su tutti i piani dello scontro: ideologico, economico, politico e militare. Il partito nelle varie fasi di sviluppo del processo (difensiva, equilibrio e offensiva strategica) deve dotarsi di tutti gli strumenti necessari per la presa del potere come l’Esercito.

L’arme della critica non può certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale dev’essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse”. [26]

Il dominio della classe borghese non può essere abbattuto se non ponendo principalmente la questione del potere politico attraverso l’azione rivoluzionaria d’avanguardia tramite l’organizzazione, elevando e dirigendo la genuina spinta alla ribellione delle masse, rompendo il monopolio della violenza dello Stato, propagandando tra le masse la praticabilità e la giustezza del processo rivoluzionario. La base della pratica rivoluzionaria rimane la linea di massa: il campo principale su cui misurare gli avanzamenti e gli arretramenti dei comunisti rispetto allo sviluppo della mobilitazione rivoluzionaria delle masse.

Mobilitazione che passa dalla rottura dell’egemonia ideologico-politica della borghesia fino alla promozione della partecipazione attiva e concreta delle masse stesse al processo rivoluzionario.

Illusori? Sognatori? Non lo crediamo. Siamo convinti che anche solo mantenere alta questa prospettiva lottando contro il revisionismo, il riformismo e il regime di controrivoluzione preventiva che abbiamo davanti sapremo contribuire, presto o tardi, alla lotta per l’edificazione di una società del domani volta a favore degli sfruttati e degli oppressi nell’oggi.

Una rivista come questa certamente è uno strumento limitato in tal senso, ma non lo sono gli esempi storici e attuali che abbiamo portato. Sono quest’ultimi che possono guidarci a costruire l’antitesi proletaria e comunista nel nostro presente concreto.


[1] V. Lenin, Che fare?, 1902, https://www.marxists.org/italiano/lenin/1902/3-chefare/cf2.htm , 11/02/2017.

Nei testi di Lenin precedenti al rinominarsi del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (bolscevico) come Partito Comunista, la parola socialdemocrazia va intesa sostanzialmente come sinonimo di comunista.

[2] Intesa come “classe in sé e per sé”, superando cioè il momento della mera coscienza materiale di esser classe sfruttata, sviluppando quello della coscienza politica di esser classe sfruttata che ha il compito storico di abbattere lo sfruttamento.

[3] F. Engels, K. Marx, Manifesto del Partito Comunista, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/mpc-2c.htm , 11/02/2017.

[4] Vedi articolo sezione quarta del presente numero di Antitesi.

[5] Analizzeremo la controrivoluzione revisionista in Urss nella seconda parte dell’articolo “La restaurazione capitalista nei paesi socialisti” la cui prima parte è pubblicata in questo numero nella sezione prima.

[6] Mao Tse Tung, Sulla pratica, 1937, in Opere di Mao Tse Tung, 25 volumi in versione cd rom, vol. 5, p. 140.

[7] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, 1844, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/criticahegel.htm

[8] Mao Tse Tung, Alcune questioni riguardanti i metodi di direzione, 1943, in Opere, op. cit., vol. 8, p. 169.

[9] Cfr. Mao Tse Tung, Problemi della guerra e della strategia, 1938, in Ibidem, vol. 7, p. 27.

[10] E. Che Guevara, Guerra e popolazione contadina, 1959, in Scritti scelti, p. 578, Baldini&Castoldi, Milano, 2002.

[11] Il “fochismo”, teorizzato dal futuro rinnegato Regis Debray, partiva dal concetto espresso da Che Guevara nell’opera La guerra di guerriglia secondo cui “Non sempre si deve aspettare che si producano tutte le condizioni favorevoli alla rivoluzione; il focolaio insurrezionale può crearle”, assolutizzando questo ruolo dell’avanguardia politica e militare, e dimenticando che il grande comunista argentino, proseguendo il ragionamento nella stessa opera, affermava che “Èimportante sottolineare che la lotta guerrigliera è una lotta di massa, è una lotta di popolo: la guerriglia, come nucleo armato, è l’avanguardia combattente di questo, la sua grande forza ha radice nelle masse della popolazione”.

[12] V. N. Giap, La situazione militare del Vietnam, 1966, in La vittoria del Vietcong, Editori Riuniti, 1968, pp. 115 s.

[13] Non riuscendo a praticare una linea di massa, le organizzazioni comuniste combattenti si ritrovarono isolate nella lotta contro lo Stato, il quale poté dispiegare tutta la sua forza controrivoluzionaria e rielaborarla con nuovi strumenti egemonici (ad esempio la dissociazione) e coercitivi (carceri speciali, isolamento, pentitismo, tortura…).

[14] Per borghesia nazionale intendiamo quei settori di borghesia che, nei paesi oppressi, tendono ad opporsi all’imperialismo a favore di uno sviluppo capitalistico autocentrato.

[15] L’India è una repubblica federale composta da ventinove Stati e sette territori, tutti divisi in distretti.

[16] Vedi il documento Prospettiva urbana – il nostro lavoro nelle aree urbane, redatto nel 2006 dal Pci – m, scaricabile in inglese alla pagina web http://www.bannedthought.net/India/CPI-Maoist-Docs/UrbanPerspective.pdf e la cui traduzione può essere richiesta al Collettivo Tazebao (collettivo.tazebao@gmail.com).

[17] Strategia e tattica della rivoluzione indiana, 2004, traduzione a cura del Collettivo Tazebao, p. 58.

[18]Pcf, Strive to Make a Great Advance in the People’s War for New Democracy, 2009, pp. 8 s., scaricabile all’indirizzo web http://www.bannedthought.net/Philippines/CPP/2009/StriveForGreatAdvance-091226.pdf . Il brano citato è stato tradotto dalla redazione di Antitesi.

[19] http://www.nouvelleturquie.com/it/il-programma-del-dhkp-instauriamo-il-potere-del-popolo/ .

[20] Sui partiti comunisti turchi e curdi vedi anche Antitesi n° 2, pp. 51 ss. , per una visione critica del ruolo del Pkk e del Pyd vedi Ibidem, pp. 77 ss.

[21] Sui comunisti e sulla sinistra che resistono all’aggressione per procura contro la Siria vedi Ibidem, pp. 47 ss.

[22] K. Marx, F. Engels, Ideologia Tedesca, 1846, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/capitolo_II.html .

[23] V. Lenin,”Kommunismus”, 1920, in Opere Complete, editori riunioni, 1955, vol. 31, p. 135.

[24] “La strategia ha per oggetto di fissare, in una determinata tappa della rivoluzione, la direzione del colpo principale del proletariato, di elaborare un corrispondente piano di disposizione delle forze rivoluzionarie (riserve principali e secondarie) e di lottare per la attuazione di questo piano durante tutto il corso di quella tappa della rivoluzione. (…) La tattica ha per oggetto di fissare la linea di condotta del proletariato per un periodo relativamente breve di flusso o di riflusso del movimento, di slancio o di depressione della rivoluzione, di lottare per la applicazione di questa linea sostituendo forme nuove alle vecchie forme di lotta e di organizzazione, nuove parole d’ordine alle vecchie, coordinando queste forme, ecc. Se la strategia si propone lo scopo, per esempio, di vincere la guerra contro lo zarismo o contro la borghesia, di condurre a termine la lotta contro lo zarismo o la borghesia, la tattica si prefigge degli scopi meno essenziali, poiché si sforza di vincere non la guerra nel suo insieme, ma queste o quelle battaglie, questi o quei combattimenti, di condurre con successo queste o quelle campagne, queste o quelle azioni, corrispondenti alla situazione concreta di un determinato periodo di slancio o di depressione della rivoluzione. La tattica è una parte della strategia, le è subordinata e la serve. La tattica cambia secondo i flussi e i riflussi”. (I. Stalin, Principi del leninismo, 1924, http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cl/madcpl.htm ).

[25] V. Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, 1920, in Ibidem, p. 15.

[26] L’esperienza delle guerre popolari ci insegna che esistono tre fasi del processo rivoluzionario: difensiva strategica, equilibrio strategico e offensiva strategica. Nella prima prevale l’aspetto principale dell’accumulo di forze rivoluzionarie, nella seconda si giunge ad un’equivalenza di forze con il nemico, nella terza lo si attacca per strappargli definitivamente il potere.

[27] K. Marx, Per la critica, op. cit.

Sitografia

bannedthought.org
infoaut.blog
marxists.org
marxismo.net
militant-blog.org
nouvelleturquie.com
ndfp.org
philippinerevolution.net
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Bibliografia

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– AAVV., Il prezzo della vittoria, a cura di A. Chiaia, Zambon editore, 2002.

– Azad, Azad voce della guerra popolare in India, a cura del Collettivo Tazebao, 2013.

– Engels F., Marx K., Manifesto del Partito Comunista, 1848, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/mpc-2c.htm .

– Engels F., Marx K., Ideologia Tedesca, 1846, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/index.htm .

– Che Guevara E., Scritti scelti, Baldini&Castoldi, Milano, 2002;

– Giap V. N., La vittoria del Vietcong, Editori Riuniti, 1968;

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– Marx K., Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, 1844, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/criticahegel.htm;

– Pci – m, Prospettiva urbana – il nostro lavoro nelle aree urbane, 2006;

– Pci – m, Strategia e tattica della rivoluzione indiana, 2004, traduzione a cura del Collettivo Tazebao;

– Stalin I., Principi del leninismo, 1924

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