Antitesi n.03Ideologia borghese e teoria del proletariato

La categoria dell’imperialismo

Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.03 – pag.71


La fase che viviamo, nell’avvitarsi della crisi, senz’altro ci coglie impreparati alla velocità dei cambiamenti in corso a livello nazionale e internazionale.
Per decenni le classi dominanti si sono prodigate nella cancellazione e nella mistificazione della terminologia e dei relativi significati delle categorie del patrimonio comunista, quali strumenti per noi indispensabili per leggere la realtà, analizzarla e conseguentemente agirvi.

Di fronte al disarmo ideologico di cui la nostra classe è stata ed è oggetto, è dispersivo e dannoso cercare di ricominciare ogni volta l’analisi quasi da zero, ma è necessario studiare utilizzando le categorie, non come dogma, ma per leggere la realtà oggettiva, alla velocità degli eventi.

Non a caso lo stallo dell’azione politica oggi è visibile anche in campo antimperialista e affonda le sue radici in primis nella difficoltà a comprendere con la dovuta rapidità la situazione odierna: una criticità che deriva non solo dal disarmo ideologico, ma anche dalla contaminazione di idee sbagliate che rischiano di fatto di non andare contro l’imperialismo, bensì di fare il suo gioco.

In questo articolo cercheremo di approfondire la categoria dell’imperialismo: il suo significato, gli attori principali e le sue contraddizioni, con la consapevolezza che la teoria è indispensabile alla prassi.

A suo tempo Lenin studiò l’imperialismo, non in senso astratto, ma quanto mai concreto e affermò che “l’imperialismo sorse dall’evoluzione e in diretta continuazione delle qualità fondamentali del capitalismo in generale. Ma il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato e assai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso a un più elevato ordinamento economico e sociale”1. L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato importanza principale nell’economia mondiale, le unioni di monopoli (trust) si ripartiscono i mercati mondiali e, corrispettivamente, le grandi potenze lottano per la supremazia mondiale per gli interessi di ognuna di queste fazioni di borghesia monopolistica.

Il rivoluzionario bolscevico individua infatti cinque punti cardine in grado di definire l’imperialismo in quanto tale:

“1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;

2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria;

3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;

4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;

5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche”2

La condizione fondamentale dello strutturarsi dell’imperialismo è la concentrazione della produzione e del capitale che raggiunge un grado talmente alto di sviluppo da originare i monopoli. Considerando numerosi dati dell’inizio del secolo scorso, vediamo come in Germania, già nel 1907, le 586 aziende con oltre mille operai disponessero di quasi un decimo del numero complessivo dei lavoratori (1.380.000). Oltreoceano, negli Usa, il processo di concentrazione della produzione appare ancora più veloce, mentre prendeva forma la combinazione, ovvero l’unione in un’unica impresa di vari settori industriali, in base alla quale quasi la metà dell’intera produzione del paese risultava nelle mani di una centesima parte del numero totale delle imprese. Tremila aziende gigantesche lavoravano in 268 rami dell’industria riuscendo, grazie alla loro grandezza, a stringere accordi e ad eliminare la tanto decantata concorrenza, creando quindi il monopolio.

Quest’ultimo è già in parte definito dallo stesso Marx, che smontò la “legge naturale” borghese della libera concorrenza e dimostrò come essa determini la concentrazione della produzione e come questa, a sua volta, conduca alla centralizzazione e dunque al monopolio a un certo grado di sviluppo3. In Europa nel decennio 18601870 i monopoli iniziarono ad assumere un ruolo via via più preponderante e, all’inizio del secolo scorso, i cartelli, ovvero gli accordi tra industriali dello stesso settore produttivo, diventarono base del sistema, regolando la produzione stessa, i profitti e i prezzi.

Infatti i monopoli nacquero e si svilupparono, in una direzione contrapposta alla teorica libera concorrenza: essi si accordano sulle condizioni di vendita, si ripartiscono i mercati, stabiliscono la quantità delle merci da produrre, fissano i prezzi, ripartiscono i profitti tra le singole imprese, a partire dall’accaparramento delle materie prime, dalla ripartizione della manodopera tramite accordi di obbligo di prestazione di lavoro solo per imprese cartellate, dalla gestione dei trasporti delle merci, dalla chiusura di sbocchi commerciali e del credito ai capitalisti estranei al monopolio stesso e dall’accaparramento dei clienti mediante clausole di esclusività. Ciò avviene in un contesto di abbassamento dei prezzi allo scopo di rovinare i concorrenti minori, strozzandoli con l’abbassamento dei prezzi ottenuto, per qualche tempo, con la vendita della merce al di sotto del prezzo di costo. Ovviamente la centralizzazione monopolistica è un processo esacerbato dalla crisi, nella quale, con il restringersi degli spazi di valorizzazione dei capitali investiti, ogni monopolio punta a conquistarsi quote di mercato e capitale detenuto dall’altro e si realizzano fusioni tra monopoli per controllare la produzione e sbaragliare i restanti concorrenti. La fusione tra l’italiana Fiat e la statunitense Chrysler, che ha suggellato a livello finanziarioindustriale l’alleanza tra imperialismo Usa e imperialismo italiano, è un chiaro esempio in tal senso.

I monopoli non sarebbero riusciti a strutturarsi senza “il sistema del credito, che sul principio si intromette quasi di nascosto come limitato aiuto dell’accumulazione e attrae per mezzo di fili invisibili i mezzi monetari che sono sparsi in masse più o meno grandi alla superficie della società nelle mani di capitalisti singoli o associati, tramutandosi tuttavia molto presto in una nuova e terribile arma che interviene nella lotta per la concorrenza e divenendo in ultimo un gigantesco meccanismo socialIdeologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.03 – pag.71e per la centralizzazione dei capitali”4. Gli istituti bancari, che all’inizio svolgevano il ruolo di intermediazione dei pagamenti, in una fase successiva iniziarono a svolgere il ruolo di fornitura di capitale monetario, poiché trasformano il capitale liquido inattivo in capitale attivo, cioè produttore di profitto, raccogliendo tutte le rendite in denaro e mettendole a disposizione dei capitalisti. All’interno delle stesse banche vi è un meccanismo di concentrazione analogo a quello delle imprese. Le grandi banche, attraverso lo strumento del Konzern – consorzio, misero le mani sui piccoli istituti di credito mediante la “partecipazione” ai loro capitali, come si è visto prima in Germania e Francia e poi, via via, negli altri paesi a capitalismo avanzato, arrivando anche in questo caso al monopolio come ultima tappa dello sviluppo del sistema bancario. Infatti, mentre prosegue lo sviluppo delle banche, esse tendono alla concentrazione in poche istituzioni in grado di detenere quasi l’intero capitale liquido di tutti i capitalisti e della gran parte dei mezzi di produzione e delle fonti di materie prime. Nel corso di questo processo la banca si assicura e consolida un legame a doppio filo con le maggiori imprese, tanto da detenerne di fatto i capitali e far sedere propri uomini nei consigli di amministrazione delle sopracitate imprese e viceversa. Si determina così la seconda caratteristica dell’imperialismo, ovvero la fusione del capitale bancario con il capitale industriale e, sulla base di questo, lo strutturarsi di un’oligarchia finanziaria.

Stante questa premessa storica, oggi, dentro la crisi, il ruolo delle banche e della finanza la fa da padrone, nel senso che la finanziarizzazione dell’economia è una delle vie seguite dal capitale fin dall’emergere della crisi stessa, puntando ad ottenere, sul piano speculativo e parassitario, quei profitti che la condizione di sovrapproduzione sul piano dell’economia reale sempre più nega.

La fragilità di questa via è emersa in tutta la sua portata dal 2006, quando è avvenuto il crollo dei mutui subprime negli Usa, dovuto alle previsioni sull’incapienza della classe lavoratrice statunitense a far fronte ai prestiti usurai delle banche per l’acquisto delle case. L’esplodere dell’immensa bolla speculativa del capitale finanziario internazionale ha dimostrato ancora una volta come vi sia una innegabile compenetrazione tra la sfera della produzione e quella finanziaria (alla faccia della propaganda liberista sulla “finanza creativa”) e che le contraddizioni dell’una finiscono per riverberarsi sull’altra, aggravando, in ultima analisi, il procedere della crisi e tutte le contraddizioni del sistema imperialista mondiale.

La terza caratteristica fondamentale dell’imperialismo è la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci predominante nel passato. Sulla base del commercio e con lo sviluppo del mercato mondiale, il fenomeno dei monopoli divenne mondiale. In realtà, infatti, la cosiddetta globalizzazione non è un dato della fine del secolo scorso, bensì dell’inizio del secolo scorso, quando il capitalismo si strutturò a livello globale, peraltro sulla scorta degli assetti politici degli imperi coloniali.

La produzione capitalista nell’epoca dei monopoli accelerò la sovraccumulazione di capitali nei paesi ad economia avanzata (soprattutto Usa ed Europa occidentale) che ebbe come unico sbocco la loro esportazione tramite investimenti nelle colonie e all’estero si affermò così il predominio dei monopoli su scala internazionale. Questo predominio, affermatosi dapprima nell’ambito del colonialismo, e perpetuatosi poi con il cosiddetto neocolonialismo5, è fondato sul controllo che il capitale monopolistico dei paesi imperialisti avanzati tende ad esercitare a tutti i livelli (materie prime, industria e finanza) a danno dei paesi oppressi (cosiddetto “terzo mondo” o in “via di sviluppo”), fondando un continuo e sempre più grave scambio diseguale di valore, che produce la rapina permanente della stragrande maggioranza dei popoli del pianeta. Le cosiddette multinazionali non sono nient’altro che i vecchi monopoli giunti alla loro piena maturazione come imprese internazionalizzate nella produzione e nella distribuzione, peraltro non sempre a capitale privato, ma anche a capitale e direzione statale, come le nostrane Eni e Finmeccanica, dimostrando la compenetrazione strategica imperialista tra monopoli e Stati.
Ma, mentre il vecchio colonialismo imponeva una divisione internazionale del lavoro che relegava unicamente i paesi oppressi alla produzione di materie prime, il nuovo colonialismo in ambito imperialista, mediante i crescenti investimenti esteri, determina lo sviluppo del capitalismo nei paesi oppressi e, al tempo stesso, allarga e inasprisce la lotta contro il dominio imperialista in questi stessi paesi. Nei paesi oppressi, la dominazione imperialista produce industrializzazione e modernizzazione economica laddove le è funzionale – ad esempio creando centri produttivi ad alto tasso di sfruttamento – perpetuando invece le condizioni di arretratezza laddove esse corrispondono agli interessi della piena subordinazione nazionale, come nel campo agricolo, dove tendono a riprodursi rapporti di tipo feudale o semifeudale. Questo processo oggettivo ha storicamente formato il “globalizzarsi” della classe operaia, quindi il radicarsi del movimento comunista anche nei paesi oppressi, la nascita di una borghesia nazionale che rifiuta la subordinazione del proprio paese e la presenza di vaste masse contadine inclini alla ribellione. Si sono sviluppati così i movimenti anticoloniali e le lotte di liberazione dei paesi oppressi, espressione della contraddizione con i paesi imperialisti, dando vita alle guerre popolari che portarono a sconfitte storiche delle potenze imperialiste, con l’instaurazione di regimi di nuova democrazia6, laddove la classe operaia riuscì a porsi alla testa della lotta di emancipazione nazionale (in Cina, in Indocina, a Cuba…).

Il dominio imperialista acuisce, dunque, la contraddizione tra capitale e lavoro oltre che quella tra paesi dominanti e oppressi. Questa contraddizione potrà essere risolta in generale solo con lo sviluppo della prima, grazie al ruolo della classe operaia nella lotta contro la dominazione imperialista nei paesi oppressi e contro l’imperialismo dei paesi dominanti.

Dunque, i monopoli, elevati allo stadio di multinazionali, costituiscono “associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo”. Monopoli e cartelli prima, multinazionali poi, dividono tra di loro il mercato, appropriandosi della produzione di interi paesi. Arriviamo così alla quarta caratteristica dell’imperialismo.

All’epoca Lenin attaccò duramente le posizioni socialdemocratiche che teorizzavano la possibilità di un’era di pace e progresso grazie all’estendersi del mercato capitalista a livello mondiale. I fatti, fino ai nostri giorni, mostrano il contrario: due guerre mondiali nel secolo scorso e l’attuale “guerra mondiale a pezzi” (come ebbe a definirla il capo della multinazionale vaticanacattolica, Bergoglio), la potenzialità distruttiva di un conflitto nucleare, indicano che il capitalismo imperialista produce le condizioni per lo sprofondamento dell’umanità in un baratro sempre più crescente di barbarie.

La quinta ed ultima caratteristica dell’imperialismo è, infatti, la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche. La funzione dello Stato borghese, nell’epoca dell’imperialismo, non è più solo quella dell’oppressione delle classi sul fronte interno, ma quello di braccio armato strategico dei grandi monopoli nella lotta per conquistare mercati, assoggettare popoli e distruggere i concorrenti.

Già nell’epoca coloniale, tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, essa può dirsi completa rispetto ai possedimenti di grandi potenze come Inghilterra, Germania, Francia e Usa. Possedimenti che crebbero a dismisura dopo il 1876, da 40 a 65 milioni di chilometri quadrati: nel 1876 tre Stati non avevano alcuna colonia, e un altro, la Francia, quasi nessuna, ma nel 1914 questi quattro paesi possedevano colonie per 14,1 milioni di chilometri quadrati, cioè circa una volta e mezzo l’Europa, con una popolazione di circa 100 milioni di persone. E, infatti, nel 1914 scoppiava la Prima guerra mondiale proprio per la partizione del pianeta. Venticinque anni dopo, la rinascita dell’imperialismo tedesco in Europa, faceva divampare la Seconda guerra mondiale. Quest’ultima sancì la prevalenza in campo imperialista degli Stati Uniti che, di conseguenza, avevano la necessità di consolidare una schiacciante supremazia militare e stendere attorno al mondo una rete di basi virtualmente invulnerabili. Non c’è quindi di che stupirsi se negli Stati Uniti è stata istituzionalizzata in modo permanente una vera e propria economia di guerra, se sono stati i campioni del neocolonialismo e se la loro influenza è stata pesante anche rispetto alle altre potenze imperialiste alleate (tra cui, ovviamente, l’Italia).

Dall’inizio della crisi attuale (inizio anni ’70) e dopo la fine della guerra fredda contro l’Unione sovietica e la caduta del muro di Berlino, le contraddizioni tra imperialismo e popoli oppressi e tra gli stessi imperialismi, lungi dal dissolversi, si inaspriscono. Nel 2001, gli Usa lanciano la guerra al “terrorismo” come nuova campagna politicomilitare per riaffermare il loro dominio su aree strategiche del pianeta, soprattutto per il controllo delle materie prime, in primis il Medio Oriente e l’Asia Centrale. A questa strategia tendono ad accodarsi le potenze imperialiste della Nato, fra cui l’Italia, che partecipa ad ogni aggressione militare (Afghanistan, Iraq, Libia…) per guadagnare, a profitto dei propri monopoli, una fetta del bottino di guerra. I regimi che resistono all’offensiva imperialista vengono definiti “Stati canaglia”, i movimenti di liberazione nazionale che fronteggiano gli invasori sono bollati come “terroristi” e l’islamofobia diviene strumento di giustificazione di un nuovo colonialismo condotto tramite occupazioni militari.

L’attuale fase di guerra non è però frutto esclusivo della contraddizione tra gli imperialisti riuniti nella Nato e la resistenza dei popoli aggrediti, ma anche del riposizionamento mondiale di nuove potenze imperialiste, che ricercano ad ogni costo il loro spazio nella ripartizione del globo. Cina e Russia, in particolare, perseguono gli interessi imperialistici delle rispettive borghesie monopoliste rispetto ai vecchi imperialismi statunitensi ed europei.

Nonostante i tentativi delle grandi borghesie di gestire la fase di guerra attraverso vecchi e nuovi consessi internazionali (G7, G8, G20…), le contraddizioni sul piano internazionale stanno precipitando e le contraddizioni interimperialiste emergono con sempre più forza. Ciò ha smentito clamorosamente tutte le letture della fase internazionale che postulavano un superamento dell’imperialismo in nome di un moloch capitalistico globalizzato privo di contraddizioni tra le singole classi dominanti nazionali, come quelle postoperaiste di “Impero” di Negri e Hardt.

Infatti, con l’aggravarsi della crisi, la lotta per la ripartizione del globo, da parte delle diverse borghesie imperialiste, diventa sempre più serrata perché minori e più fragili sono gli spazi di profitto e di rendita che tali classi dominanti possono difendere e ampliare. La guerra imperialista come ripartizione del globo tende così a tramutarsi in guerra per la distruzione dei capitali del nemicoconcorrente, come unica soluzione per riavviare un ciclo di accumulazione capitalistica positivo e come sbocco, dunque, alla sovrapproduzione di capitali a livello globale. Se è vero che oggi la maggiore aggressività sul piano internazionale viene espressa dall’alleanza imperialista capeggiata dagli Usa (Nato, Israele, petromonarchie arabe…), è altrettanto vero che è il sistema imperialista nel suo complesso che getta l’umanità nelle barbarie, non la singola potenza o il singolo blocco di potenze. Se è vero che le potenze imperialiste in ascesa, come la Russia, tendono a sostenere i paesi aggrediti dal blocco capeggiato dagli Usa (come nel caso della Siria), dall’altra parte dobbiamo essere chiari sul fatto che questo riposizionamento persegue interessi monopolistici e, se sul piano immediato può incrociare l’interesse dei popoli, sul piano generale e strategico conduce anch’esso verso lo sfruttamento e l’aggravarsi della guerra imperialista.

Il nostro compito di comunisti è quello di favorire lo sviluppo di una lotta nei nostri territori contro l’imperialismo, in primis quello nostrano, impegnandosi nella costruzione di percorsi reali, collocandosi così concretamente in una prospettiva antimperialista. Nel farlo dobbiamo veicolare due contenuti. Quello principale è promuovere concretamente la solidarietà politica nei confronti dei popoli aggrediti che resistono all’imperialismo e lottano per la propria autodeterminazione. Quello fondamentale è radicare nelle masse la coscenza che la sola soluzione alle barbarie dell’imperialismo è la rivoluzione proletaria. E che, in tempi di guerra, l’unica via è trasformare la lotta contro la guerra in lotta per il cambiamento sociale, la guerra in rivoluzione.


1 V. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, https://www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/

2 Ibidem.

3 “Ogni capitale individuale è una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, con il conseguente comando su un esercito più o meno grande di operai. Ogni accumulazione diviene mezzo per una nuova accumulazione. Insieme all’accresciuta massa della ricchezza che funziona come capitale, essa allarga la sua concentrazione nelle mani di capitalisti individuali, perciò la base della produzione su grande scala e degli specifici metodi di produzione capitalistici. Il capitale sociale aumenta con l’aumento di parecchi capitali individuali (…) Questo frazionamento dell’intero capitale sociale in parecchi capitali individuali e la repulsione reciproca delle sue frazioni si contrappongono alla loro attrazione. Non è più una semplice concentrazione dei mezzi di produzione e del comando sul lavoro, identica all’accumulazione. È una concentrazione di capitali già costituiti, è l’annullamento della loro autonomia individuale, l’espropriazione del capitalista da parte del capitalista, la trasformazione di parecchi capitali più piccoli in pochi capitali più grossi. (…). È la vera e propria centralizzazione, a differenza dell’accumulazione e della concentrazione” (K. Marx, Il capitale, libro primo, settima sezione, Newton, 1996, pp. 454 s.).

4 Ibidem, p. 455

5 Per neocolonialismo intendiamo la perpetuazione del dominio coloniale pur in presenza di condizioni di indipendenza formale del paese oppresso.

6 S’intende la particolare forma di dittatura del proletariato in un paese oppresso, quindi arretrato economicamente, socialmente e culturalmente, ove la classe operaia deve dirigere lo sviluppo di forme transitorie di capitalismo, non monopolistico, per dare basi materiali all’edificazione socialista.

Testi consultati:

Antitesi numero 0, L’Italia nel tempo della crisi, maggio – agosto 2015;
Antitesi numero 1, Crisi Europa e Guerra, ottobre 2015 – gennaio 2016
Cabral A., Cultura e guerriglia, Collettivo Editoriale 10/16, 1976
Lenin V., Imperialismo fase suprema del capitalismo, https://www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/
Lenin, L’agitazione politica e il “punto di vista di classe”, in Opere Complete, Vol V, Editori Riuniti, Roma, 1958;
Greene F., Il nemico. L’imperialismo, Einaudi, 1973;
Marx K., Il capitale, Newton, 1996.
Meldolesi L., Kautsky L’imperialismo, Laterza, 1980;
Platone F., Lenin La guerra imperialista, Editori Riuniti, 1972.

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