I Brics e la lunga depressione del capitalismo globale
“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.02 – pag.3
“O è debito o è guerra” [1]
I Brics “… dovranno affrontare ancora molte sofferenze prima che la situazione si normalizzi”. [2] Con queste parole Kyle Bass del fondo speculativo Hayman Capital con sede a Dallas (Texas), ha recentemente descritto la situazione che le nuove potenze capitalistiche, in ascesa imperialista negli ultimi anni, devono attualmente affrontare. Bass non è uno speculatore qualunque, nel 2008 salì alla ribalta della finanza mondiale per essere stato in grado di predire e speculare sulla crisi americana dei debiti subprime, e negli anni successivi, per aver anticipato la crisi europea dei debiti sovrani, accaparrandosi cifre a sei zeri.
Anche secondo Paul Mason, ex-giornalista della BBC e noto commentatore economico inglese vicino alla sinistra del partito laburista, i Brics stanno attraversando un momento critico e corrono il serio rischio di cadere “nella cosiddetta “trappola del reddito medio”: cioè l’incapacità delle economie in vie di sviluppo di diventare sviluppate a tutti gli effetti, creando un proprio mercato interno in grado di sostenere la propria crescita economica”. [3]
Voci di orientamento certamente molto differenti, per certi versi antitetiche, ma che rimangono interne al campo del pensiero economico borghese, entrambe convinte che qualcosa s’è rotto nell’ascesa dei Brics, fino a qualche tempo fa creduta da questi stessi osservatori inarrestabile.
Eppure il termine Bric fu cognato nel 2001 dall’allora economista di Goldman Sachs e oggi ministro del governo conservatore inglese, Jim O’Neill, per descrivere le quattro economie con i più alti tassi di crescita tra i mercati cosiddetti emergenti: Brasile, Russia, India e Cina. L’acronimo non è rimasto solo un’ abbreviazione usata dalla pubblicistica, ma dal 2009 serve anche a dare il nome ai summit che i presidenti di questi paesi hanno iniziato ad organizzare con scadenza annuale. I temi al centro di questi incontri sono soprattutto di natura politica ed economica al fine di delineare strategie condivise per difendere i propri interessi di fronte all’atteggiamento preoccupato e ostile delle economie cosiddette avanzate, o per usare un termine meno falsante, dei vecchi poli imperialisti dominanti a livello mondiale, in particolare quello statunitense e quello delle potenze europee aggregatesi nell’Ue. [4]
Fu proprio negli anni in cui l’economia mondiale stava attraversando la sua più grave recessione dal secondo dopoguerra in avanti, che le economie Brics si imposero come credibili rivali all’egemonia dei poli imperialisti “occidentali”, puntando a guidare un fronte ben più ampio di paesi che stavano avendo uno sviluppo economico capitalistico ascendente e almeno in parte autocentrato (una buona fetta dei paesi dell’America latina, Turchia, Singapore, Thailandia, Malesia, Corea del Sud, Indonesia…). Di fronte alla debacle delle “economie avanzate”, i Brics sembravano aver retto bene l’urto della recessione mondiale, continuando a registrare livelli di crescita impensabili per le economie sviluppate e un livello di debito contenuto.
Nel 2010 i Bric diventano Brics con l’ingresso del Sud Africa di Jacob Zuma, forte di una crescita media del 4.5% nel periodo tra il 2002 e il 2008, basata soprattutto sull’esportazione di materie prime, che lo portò velocemente ad essere considerato la seconda economia del continente africano. Nel 2014 il nome “Brics” viene utilizzato anche per descrivere il progetto più concreto (e preoccupante per i poli imperialisti dominanti) di costruzione di un istituto di credito internazionale finanziato dai cinque paesi, la Brics development bank, successivamente rinominata, New development bank, con il compito di finanziare progetti infrastrutturali e di sviluppo sostenibile nei paesi Brics e nelle altre economie “emergenti”. In altre parole, alla nuova creazione è stato deputato il compito che da Bretton Woods (1944) in avanti ha svolto la Banca mondiale, estorcendo ai beneficiari dei finanziamenti elargiti fedeltà ai dettami economico-politico-militari dei poli imperialisti “occidentali”. [5]
A distanza di otto anni dal crack Lehman Brothers, il destino dei Brics appare certamente meno roseo di quanto anche i più scettici osservatori potevano pronosticare. Ci sembra dunque importante comprendere come questo blocco di economie capitaliste abbiano attraversato questi ultimi anni di crisi e le ragioni per cui si trovano nella situazione critica attuale.
Recentemente è stato il Fondo monetario internazionale (Fmi) ad esporre in uno studio approfondito le difficoltà che questi paesi stanno attraversando, alzando la probabilità di recessione per le loro economie (Cina esclusa) al 50%. Secondo l’istituto diretto da Christine Lagarde, il rallentamento è dovuto al crollo della domanda cinese che ha visto passare la crescita del proprio Pil da percentuali a due cifre a percentuali che oscillano per i più ottimisti intorno al 7%. Il vistoso rallentamento cinese ha di conseguenza ridotto la domanda mondiale di materie prime, risorse energetiche e di altri prodotti destinati all’esportazione contribuendo a far piombare in recessione le economie di tre dei cinque paesi dei Brics: Brasile, Russia e Sud Africa.
E non sono solo i Brics a soffrire, la crescita economica nei mercati cosiddetti emergenti si prepara a vivere il quinto anno di declino consecutivo. In questo contesto, tali economie hanno diminuito la propria capacità di affrontare shock esterni come l’improvvisa (ma sempre più probabile) esplosione di bolle finanziarie, hanno aumentato la flessibilità dei loro cambi immettendosi in quel circolo vizioso che si chiama “svalutazione competitiva”, hanno aumentato la loro esposizione a crediti esterni sotto forma di investimenti diretti esteri (Ide) e di vendita di titoli di Stato. Non solo gli Stati, ma anche le imprese di questi paesi hanno in questo modo appesantito i libri contabili, accrescendo esponenzialmente i loro debiti e rendendo necessario in molti casi l’intervento statale al fine di mantenere in un apparente ordine i loro bilanci. [6]
Più di recente, è stata la stessa Lagarde ad avvisare senza lasciare spazio a fraintendimenti sui rischi provenienti dai Brics e dagli altri emergenti: “Il sistema economico mondiale … deve prepararsi a preoccupanti crisi nei mercati emergenti”. [7]
Se al momento di iniziare a scrivere questo articolo (gennaio-febbraio 2016) non ci troviamo costretti a parlare dell’avvenuta esplosione dell’ennesima bolla finanziaria che riguarda uno o più dei Brics, lo si deve unicamente al perdurare e intensificarsi di politiche monetarie non convenzionali (dai quantitative easing alle più recenti politiche di tassi negativi) messe in campo dalle banche centrali di tutte le più importanti economie mondiali [8], a cominciare da quella dell’economia più importante, gli Stati Uniti, i quali, con la Federal Reserve Bank (Fed), a dispetto di annunci susseguitisi per tutto il 2015, hanno deciso in dicembre di aumentare solo leggermente (+0,25%) il tasso di interesse sul dollaro.
Ciò nonostante, il recente rafforzamento del dollaro, avvenuto nonostante i tassi lasciati pressoché invariati, sembra aver già causato non pochi problemi alle economie “emergenti” e ai Brics in particolare. Il Pil aggregato di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è costantemente diminuito da quando il dollaro americano si è iniziato a rivalutare. Il Bloomberg Dollar Spot index è cresciuto del 24% a partire dal luglio 2014, mentre la crescita su base annua del Pil dei Brics diminuiva fino a contrarsi del 4.7% nell’ultimo quadrimestre del 2015. [9]
Nel numero precedente di Antitesi avevamo prospettato che se la Fed avesse aumentato in modo robusto i tassi di interesse, il rischio di una fuga dei capitali dai mercati “emergenti” e in particolare dai Brics, sarebbe stato molto alto. [10] A diversi mesi di distanza, quella constatazione sembra sostanzialmente confermata. Il rischio è che si ripeta nuovamente una dinamica simile a ciò che accadde nel 1937, quando la Fed alzando i tassi di interesse pose fine alla timida ripresa iniziata nel ’32 nel corso della “grande depressione” degli anni 30, facendo tornare in recessione le maggiori economie mondiali. Una recessione a cui fu possibile porre fine solo con la mobilitazione bellica in vista dello scoppio di quello che sarebbe stato il secondo conflitto mondiale.
Ma vediamo ora più nel dettaglio la situazione economica dei Bric come appare nel primo periodo del 2016, per poi cercare di comprendere le ragioni strutturali che hanno minato, o quanto meno rallentato, la loro ascesa.
Lasceremo per il momento fuori da questa trattazione il Sud Africa che sembra, almeno per il momento, aver abbandonato il passo delle altre quattro economie. La crescita economica semplicemente non c’è. Le previsioni (sempre più ottimiste della realtà) parlano del 0.9% per il 2016, mentre l’inflazione è prevista intorno ad un preoccupante 7.8%. Allo stesso tempo il deficit continua ad aumentare portando il rapporto tra debito e Pil intorno al 50% (nel 2008 si assestava intorno al 26%). Se questo livello sembra accettabile per un’economia sviluppata, per un paese “emergente” non lo è affatto. Basti pensare che il Sud Africa paga tassi d’interesse sul debito quattro/cinque volte maggiori di paesi come la Gran Bretagna e gli Usa. A certificare questa situazione critica (per quel che può valere il loro giudizio) sono giunte anche le bocciature delle due più importanti agenzie di rating, Fitch e Standard&Poor’s che in dicembre hanno declassato i titoli di Stato sudafricani a “spazzatura”. [11]
Iniziamo dal Brasile, la settima economia al mondo e la più grande dell’America latina. Il Brasile ha chiuso l’ultimo quadrimestre del 2015 con una riduzione del Pil del 4.5% su base annua, la sesta contrazione consecutiva e la peggiore dal 1996. Come già accennato in precedenza, il paese sta vivendo una fase recessiva che non sembra accennare ad arrestarsi. Le previsioni per quest’anno non lasciano trasparire nulla di positivo. Gli investimenti nel 2015 sono crollati, riducendosi del 15%, mentre l’inflazione ha raggiunto un picco del 10,7% nel primo mese del 2016. La disoccupazione rimane intorno al 7%, ai livelli più alti degli ultimi cinque anni. [12]
Gli investitori stranieri non sembrano riporre grossa fiducia su una possibile ripresa dell’economia brasiliana. Dopo un influsso di capitali esteri pari a 27 miliardi di dollari nei primi mesi del 2015, la banca centrale brasiliana ha registrato un’uscita netta di capitali nel resto dell’anno di 9 miliardi con un’intensificazione sul finire dell’anno, quando nel solo mese di novembre lasciarono il paese ben 6 miliardi di dollari. L’unica elemento che sembra per il momento arginare questa fuga di capitali e un conseguente panico finanziario, è stato un parziale rientro rientro nel paese di parte dei grandi capitali brasiliani accumulati negli ultimi anni, che avevano via via lasciato il paese in direzione dei vari paradisi fiscali sparsi per il globo.
In gennaio il governo di Dilma Rousseff ha passato una legge che garantisce una parziale amnistia per il rientro dei capitali, nella speranza che almeno parte dei circa 400 miliardi di dollari che la borghesia brasiliana ha spostato all’estero, possa far ritorno nel paese. Un altro elemento che per il momento fa tenere a galla il mercato finanziario brasiliano è il tasso di interesse sui titoli di Stato molto redditizio, che attualmente garantisce agli investitori il raddoppio dei propri investimenti in meno di cinque anni. [13]
Ovviamente, questo avviene a scapito delle finanze dello Stato brasiliano che sta vedendo il proprio debito aumentare vertiginosamente. Nel 2015 il rapporto debito/Pil ha toccato un nuovo record assestandosi a 66.23%, contro una media nel periodo 2006-2014 del 57.20%, quasi dieci punti percentuali in più. Questo dato sta sicuramente pesando sul mercato finanziario, che nello scorso anno non a caso è stato molto più volatile della media dei mercati “emergenti”. [14]
Ad aumentare gli elementi di incertezza e preoccupazione in una situazione di per sé già difficile, si è aggiunta da un lato la diffusione del virus Zika, dichiarata emergenza globale dalla World Health Organisation all’inizio di febbraio, e dall’altro i recenti scandali politici che riguardano l’attuale presidente, Roussef, e il suo predecessore, Lula. Nelle intenzioni del governo il 2016 sarebbe dovuto essere un anno molto importante, con i giochi olimpici a Rio de Janeiro programmati per il prossimo agosto.
La Federazione Russa sta attraversando la sua più importante recessione dal 2009, trainata al ribasso dal peso delle sanzioni dei paesi dell’Ue e degli Usa, a seguito dell’intervento nel conflitto ucraino, e dallo storico ribasso del prezzo delle risorse energetiche. I dati relativi all’ultimo quadrimestre del 2015, segnano la quinta contrazione consecutiva (-0.57%), mentre su base annua la contrazione è stata del 4.1%. L’inflazione registrata a gennaio 2016 si assesta al 9.8% su base annua, segnando una riduzione inaspettata rispetto al mese precedente. Il mercato del lavoro è rimasto stabile negli ultimi mesi. La disoccupazione a gennaio 2016 rimaneva stabile al 5.8%, per un totale di inoccupati pari a 4.4 milioni di persone, mentre il numero degli occupati diminuiva dello 0.9%.
Il rublo, intanto, continua a indebolirsi contro il dollaro. Nelle ultime settimane ha raggiunto nuovi minimi storici, venendo scambiato 85 a 1. La Banca centrale russa è così costretta a mantenere tassi di interesse molto alti per evitare fughe di capitali, attualmente il tasso di interesse è stabile al 11% e, anche a causa del rischio di un’impennata dell’inflazione, non sembra essere prossimo un suo allentamento. Non stupisce che il rapporto debito/Pil abbia raggiunto, in questo modo, valori più alti degli ultimi anni, assestandosi nel 2014 al 17.82%. [15]
L’economia russa è dominata dall’estrazione e commercializzazione di risorse naturali, imponendosi come primo produttore al mondo di petrolio (circa il 12% della produzione mondiale), gas naturale (18%) e nickel (20%). Il settore energetico è il più importante della propria economia, contribuendo per il 20-25% al Pil, per il 65% alle esportazioni, e per il 30% alla creazione del bilancio statale. Le previsioni per il 2016 non possono, dunque, che essere intimamente legate al prezzo del petrolio.
Goldman Sachs, la più importante agenzia finanziaria al mondo, ha tracciato tre possibili scenari per l’economia russa (ritenuti ottimisti da diversi analisti). Il primo prevede un prezzo del greggio di 35 dollari al barile, il rublo stabile intorno ai valori attuali (circa 72 per dollaro). L’inflazione in questo contesto si aggirerebbe intorno al 6%. Il secondo scenario prevede il greggio scambiato a 30 dollari a barile, il rublo deprezzato di circa il 10% intorno ai 77 per dollaro, e un’inflazione ai valori attuali, intorno al 6.7%. Mentre, il terzo scenario, decisamente il più preoccupante per l’economia russa, prevede un prezzo del greggio a 25 dollari al barile, il rublo tornato ai valori di metà anni ’80 e un’inflazione sopra l’8%. Con il greggio scambiato a 35 dollari per barile (il miglior scenario ipotizzato da Goldman), il deficit statale balzerebbe al 23% del Pil, il quale allo stesso tempo vivrebbe una contrazione del 5% su base annua.
Considerando che la Banca centrale russa ha calcolato le proprie previsioni di bilancio con un prezzo del greggio di 50 dollari al barile, la posizione potrebbe deteriorarsi di 4.4 punti percentuali rispetto al previsto, portando l’economia russa a registrare il secondo rapporto deficit/Pil più alto degli ultimi 20 anni (il più alto è quello del 6% fatto registrare nel 2009) e accrescendo in questo modo le difficoltà di rifinanziamento del debito di Stato nel mercato finanziario.
Oltre agli andamenti dei mercati delle materie prime e agli scenari di guerra in cui la Russia è impegnata, che influenzeranno certamente la salute delle finanze statali, c’è anche il caso della banca Vnesheconombank (generalmente abbreviata con la sigla Veb) da considerare con attenzione. Veb fu creata negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre con lo scopo di finanziare il commercio con l’estero. A partire dal 2007, il governo russo iniziò a finanziarla massicciamente immettendo nelle sue casse una cifra pari a 7.3 miliardi di dollari e mantenendo nelle sue mani il controllo del consiglio di amministrazione.
Dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, la Veb è diventata lo strumento principale con cui il governo russo ha gestito la crisi. Ha ricevuto circa 50 miliardi di dollari dal governo e dalla banca centrale per salvare banche e grandi imprese, e ripulire il mercato finanziario russo dai titoli più tossici. Alla fine del 2009 il suo budget era più che triplicato. La banca è servita anche per finanziarie l’acquisizione da privati di alcuni impianti metallurgici nell’Ucraina orientale qualche anno prima dello scoppio del conflitto, e, soprattutto, per salvare dalla bancarotta hotel, impianti sciistici, e altri progetti lasciati in eredità dai giochi olimpici di Sochi — i più costosi della storia dei giochi olimpici invernali, costati più di 50 miliardi di dollari.
Ora la Veb si trova in serie difficoltà e il Cremlino potrebbe trovarsi costretto a salvare la banca. Nei prossimi mesi l’istituto di credito dovrà far fronte al pagamento di 7.3 miliardi di dollari di debito ed ha un unico modo per finanziarsi, lo Stato. Il bilancio della Veb non è poca cosa, si sta parlando di una cifra pari a circa metà del deficit pubblico previsto per il prossimo anno. [16]
Un’incognita, dunque, che unita alle incertezze geopolitiche, al perdurare dello storico ribasso dei prezzi delle materie prime e al peggioramento della situazione economica internazionale, rende le prospettive economica per la Russia decisamente negative per il 2016.
Secondo Bass, l’India rappresenta un caso “semi-luminoso” rispetto al resto dei Brics. Il Pil indiano è cresciuto del 1.9% nell’ultimo quadrimestre del 2015. Certo non un dato strabiliante per quella che viene considerata la decima economia mondiale ed è seconda solo alla Cina per popolazione; ma rispetto alla situazione di difficoltà o di recessione, in cui si trovano la maggior parte delle economie “emergenti”, il dato indiano rappresenta certo una controtendenza. I motivi di incertezza, però, non mancano.
Nelle ultime settimane la rupia ha toccato i suoi minimi dal settembre 2013 a seguito delle turbolenze finanziarie che hanno interessato il mercato cinese. La politica del governo indiano è quella di tentare di preservare il valore della moneta mettendo mano — fa sapere per bocca del governatore della banca centrale, Raghuram Rajan — anche alle proprie riserve, se necessario. L’India, almeno per il momento, rifiuta quindi di prendere parte al pericoloso gioco della svalutazione competitiva intrapreso dalle più importanti banche centrali al mondo.
Sotto la guida di Rajan, iniziata nel 2013, la rupia è passata da valori molto bassi alla situazione attuale, in cui si registra un flusso in entrata di dollari grazie all’adozione di incentivi finanziari per chi detiene titoli di Stato indiani. Nel 2014 le riserve sono aumentate dell’11%, il livello più alto registrato nelle economie Bric, e i segnali che giungono dal mercato finanziari indicano che gli investitori sembrano credere in una rupia stabile nel prossimo futuro. Ma anche in questo caso le incertezze non mancano.
Fonti interne sostengono che Rajan abbia chiesto alle imprese controllate dal governo di iniziare programmi di buy-back [17] per mantenere alto il valore delle proprie azioni, andando però ad appesantire inesorabilmente i propri bilanci e gonfiando il valore nominale delle loro azioni. Allo stesso tempo, il primo ministro Modi è impegnato a ridurre il deficit statale, tuttora il più alto del continente asiatico. Un’impresa tutt’altro che facile in un momento in cui, a causa delle scarse piogge che hanno danneggiato il settore agricolo indiano, il governo si trova costretto a sostenere i redditi bassi per evitare possibili sommosse e mantenere alta la domando interna. Anche se il principale settore economico è quello dei servizi (circa 60% del Pil), il settore che occupa il maggior numero di persone rimane quello agricolo (12% del Pil) impiegando più del 50% della forza lavoro totale.
I dubbi che il governo indiano sia in grado di centrare l’obiettivo di un rapporto deficit/Pil del 3.5%, sono crescenti. Il fallimento degli obiettivi di bilancio, oltre a minare la credibilità internazionale del governo, aumenterebbe quasi certamente gli interessi sui titoli di Stato e di conseguenza la capacità dell’India di far fronte al proprio debito e finanziarie il proprio budget. Passiamo ora all’ultima e più importante economia Bric. L’economia cinese è cresciuta del 6.8% nell’ultimo quadrimestre del 2015, leggermente meno (6.9%) del quadrimestre precedente. Il dato rappresenta la crescita più debole dal primo quadrimestre del 2009. Un risultato tanto deludente quanto atteso, determinato in particolare dalla contrazione della produzione manifatturiera e dell’export. Nel complesso nel 2015 il Pil cinese è cresciuto del 6.9% segnando un -0.4% rispetto al 7.3% registrato nel 2014, la crescita più bassa degli ultimi 25 anni.
Per chi vuole vedere il bicchiere mezzo vuoto, la Cina è entrata nella fase di crescita più debole dagli anni ’70 in avanti, mentre per chi vuole vederlo mezzo pieno (un’impresa sempre più difficile), il dato rappresenta un altro passo della crescita costante e di lunga durata della Cina.
Come spiegare questi dati, allora? Come già notavamo nel numero precedente di Antitesi [18], il governo cinese è impegnato nel difficile compito di trovare il giusto equilibrio che permetta all’economia di adottare un modello di mercato sempre più sviluppato e centrato sul consumo interno, e allo stesso tempo ridurre la propria vulnerabilità finanziaria. Tutto questo cercando in tutti i modi di ridurre al minimo la perdita di potenziale produttivo.
Una transizione resa particolarmente difficile dalla congiuntura internazionale che sta attraversando il capitalismo globale, di cui abbiamo già parlato sopra, fatta di crollo dei prezzi delle materie prime,
mercati finanziari sempre più volatili e incerti, mercati emergenti in grosse difficoltà, e una sempre più forte pressione sui tassi di cambio valutari. [19] Come abbiamo già visto nei casi precedenti, una riduzione della crescita economica ha diversi risvolti negativi, ma nel caso di un paese imperialista che finanzia la propria spesa e rifinanzia il proprio debito attraverso i mercati finanziari — come la Cina sta facendo in modo esponenzialmente crescente – una delle conseguenze più preoccupanti è la difficoltà di attrarre i capitali necessari per mantenere a galla la propria finanza pubblica.
Guardando ai fattori da tenere sott’occhio nel 2016, a proposito della Cina, Bass aveva puntato il dito sulla crescita dei crediti in sofferenza cinese (i cosiddetti non-performing loans). Il problema — aggiungeva Bass — è che la valuta cinese si è ormai apprezzata del 60% dal 2005, rendendo i prodotti e servizi cinesi ogni anno meno competitivi. Questo, unito a una nuova legislazione del lavoro imposta a partire dal 2008 grazie ad una serie di dure lotte operaie [20], ha ridotto il vantaggio competitivo cinese.
Se a questo si aggiunge il fatto che il settore bancario cinese è cresciuto del 400% negli ultimi sette anni, mantenendo, intatta nel suo seno, la falla dei crediti in sofferenza, la conclusione di Bass è che siamo in procinto di vedersi chiudere tale ciclo espansivo finanziario. Tradotto: o quei debiti verranno saldati — eventualità molto difficile, se non impossibile — o ci sarà una serie di insolvenze che porterà quasi sicuramente all’esplosione dell’ennesima bolla finanziaria. Ma questa volta di dimensioni molto più grande di quella dei debiti sub-prime.
Come si è giunti a questa situazione? Uno degli effetti della recessione del 2009 e dei tentativi del governo cinese di uscirne il più velocemente possibile, fu di inondare l’economia cinese di liquidità. Il debito cinese tra il 2007 e il 2014 è quadruplicato, coprendo circa un terzo dei 57 trilioni di dollari creati dal nulla dalle banche centrali di tutto il mondo per far fronte alla recessione globale. Di questa nuova liquidità quasi la metà si è diretta verso il mercato immobiliare, mentre il 30% verso il settore cosiddetto dello “shadow banking”.
Il settore bancario “ombra” cinese è di recente creazione. Gestito interamente da istituti privati e fuori dal diretto controllo del governo, che negli ultimi anni ha ricoperto un ruolo importante nel finanziare imprese ed enti locali. Il meccanismo è semplice: istituti finanziari privati raccoglievano grossi capitali in cerca di alti tassi di profitto, dandoli in prestito al bulimico settore immobiliare cinese e a imprese private non qualificate per prestiti bancari convenzionali. Ovviamente, se il profitto è alto lo è, almeno nella stessa misura, il rischio.
Fino a quando il mercato immobiliare cinese ha continuato ad apprezzarsi, la bolla non ha dato segni di cedimento, ma i problemi sono iniziati a verificarsi non appena il valore immobiliare cinese ha iniziato a scendere. Solo tra l’aprile 2013 e l’agosto 2014, ha perso il 14% del suo valore, toccando picchi del 30% in città come Pechino e Shenzhen. Ed è in questo momento che iniziano le insolvenze, e la bolla inizia a sgonfiarsi.
Non è dato sapere la reale esposizione delle banche “ombra”, nè la qualità dei loro crediti. A mo’ di esempio, però, è stato riportato il caso di un istituto di credito che ha mancato il pagamento con i suoi investitori perché un singolo debitore (un’acciaieria) è diventata insolvente. Il pericolo rappresentato dal debito maturato in questo mercato finanziario parallelo, fuori dal diretto controllo del governo, e dalla sua debolezza, non possono perciò essere sottovalutati. [21]
Il crash finanziario dell’agosto scorso, di cui abbiamo dato conto nel precedente numero di Antitesi [22],
ha mostrato fino a che punto il mercato finanziario cinese sia in realtà moribondo, tenuto in vita solamente dalle continue iniezioni di liquidità del governo. Le compagnie monopolistiche cinese così come i governi locali sono ancora finanziati attraverso banche controllate dallo Stato, quindi attraverso debito pubblico, e non dal moribondo mercato finanziario. Per il momento il tentativo di indirizzare il risparmio privato cinese nel mercato azionario, e usarlo per rimpiazzare il debito di Stato è fallito. L’indebitamento cinese non potrà continuare ancora a lungo. O almeno questa è l’opinione degli investitori internazionali, che stanno a un ritmo sempre più serrato portando i propri capitali al riparo, fuori dal mercato cinese.
Nei quattro quadrimestri precedenti al giugno 2015, l’uscita di capitali (escluso il ripianamento del debito) è ammontata a 550 miliardi di dollari. Nel solo mese di dicembre 2015, quando le autorità cinese hanno usato le riserve estere per difendere il valore della moneta cinese, l’erosione è stata pari a 108 miliardi di dollari. In questo modo, le riserve di valuta estera cinese, fino a poco tempo fa calcolate in 4 trilioni di dollari, a gennaio di quest’anno sono scese a 3.23 trilioni di dollari, balzando in pochi mesi ai livelli del 2011, e l’emorragia non sembra destinata ad arrestarsi nel prossimo futuro.
Improvvisamente, dopo anni in cui gli analisti si interrogavano se la Cina sarebbe stata in grado di mettere a frutto l’enorme riserva valutaria, ora ci si interroga se avrà abbastanza riserve per farsi carico del gigantesco debito di Stato a cui deve far fronte, in un ambiente economico in cui a causa della moneta cinese sempre più debole e del mercato interno ancora in deflazione, il pagamento degli interessi sul debito diventa sempre più pesante.
Inoltre, il suo impatto sul capitalismo globale non può essere sottovalutato. Un deflusso di riserva di queste dimensioni può essere paragonato ad un quantitative easing al contrario, una stretta monetaria che inevitabilmente si farà sentire sulla domanda cinese e di conseguenza sulle esportazioni dei partner commerciali cinesi di beni finiti, come Stati Uniti e Germania, e di materie prime, come il resto dei Bric e gli altri mercati “emergenti”.
Questo avviene contestualmente ad un rialzo, seppure al di sotto delle previsione, dei tassi di interesse sul dollaro e una riduzione di petrodollari in cerca di valorizzazione a causa del calo storico dei prezzi delle materie prime. In queste condizioni la caduta dei prezzi sembra inarrestabile e, infatti, in questo momento nessun investitore è pronto a scommettere su un loro rialzo.
Sembra, però, che il governo cinese non sia proprio disposto a rimanere passivo, mentre osserva la propria economia prosciugata di capitali e messa all’angolo da un trend di crescita sempre più debole. In gennaio esso è stato protagonista di un piano di finanziamento pubblico senza precedenti: 520 miliardi di dollari sono stati immessi nel mercato, di cui più di due terzi in nuovi prestiti al sistema bancario. E il flusso di denaro seppur in misura minore è continuato anche a febbraio.
Ora se è vero che l’iniezione di liquidità di gennaio è legata al contemporaneo inizio del tredicesimo piano quinquennale cinese, che prevede l’ennesima serie di piani infrastrutturali e di stimoli alla crescita, è vero anche che molti osservatori non pensano che il rapporto debito/Pil cinese sia destinato a diminuire nei prossimi mesi/anni. In un recente sondaggio, emerge come 7 analisti su 12 siano convinti che questo rapporto sia destinato ad aumentare per almeno altri quattro anni con un picco nel 2020. [23]
La mossa del governo cinese sembra quindi l’ennesimo disperato tentativo di stimolare la crescita attraverso l’iniezione di una quantità di denaro senza precedenti. Ma, è facile prevedere che anche
questa volta, esaurita la breve ripresa, l’economia cinese tornerà nella situazione attuale, ma con un’enorme quantità di debito in più sulle spalle.
Il rapporto debito/Pil cinese, ora a 350%, di questo passo potrebbe superare quello del Giappone (400%), facendo della Cina il paese più indebitato al mondo. Ma non è solo la quantità del debito a preoccupare, ma anche la sua qualità. L’ultima iniezione di denaro sarà utilizzata per coprire la quantità di crediti insoluti di cui, ad esempio, il sistema bancario “ombra” (vedi sopra) è colmo, e che Bass già all’inizio dell’anno identificava come la minaccia principale a cui la Cina doveva far fronte nel 2016. Secondo vari analisti, questa nuova iniezione di liquidità servirà solo a rimandare di un paio di quadrimestri la resa dei conti sulla reale sostenibilità degli insoluti cinesi, e quando la bolla esploderà, la sua deflagrazione sarà ancora più grande e fragorosa. [24]
Inoltre, le capacità di intervento del governo cinese sul mercato finanziario si stanno riducendo a causa della crescente integrazione e dipendenza del sistema finanziario cinese rispetto a quello internazionale. Negli ultimi mesi sono state approvate varie riforme che hanno alleggerito i tetti di investimento nei mercati azionari e dei titoli di Stato, per i capitali stranieri. Uno “sforzo” riconosciuto anche dal Fmi, che a proposito afferma: “la Cina si è mossa in direzione di una maggiore integrazione da tempo. Questa non è una reazione improvvisa dettata dai recenti problemi nel mercato cinese. È parte di un progetto di lungo periodo verso una sempre maggior apertura del mercato dei capitali domestico verso gli investimenti stranieri”. [25]
Dopo questa rassegna della situazione economica dei Brics, ne esce confermato il quadro fornito all’inizio dell’articolo. A nove anni dallo scoppio della bolla dei sub-prime, seppur in situazioni anche molto diverse le une dalle altre, ciò che sta accomunando queste economie è un crescente indebitamente pubblico e privato il cui peso diventa ogni giorno meno sostenibile, rendendole sempre più dipendenti e subalterne al sistema finanziario internazionale, ancora perlopiù dominato dall’imperialismo Usa, nella costante ricerca di nuovi capitali per stimolare la crescita e rifinanziare il proprio debito. Ciò a cui stiamo assistendo sembra un tipico, anche se per dimensione sicuramente inedito, schema di Ponzi, cioè una speculazione finanziaria in cui i crediti iniziali e il debito maturato su quei crediti sono ripagati usando unicamente nuovi capitali, invece che con i profitti maturati dall’investimento originale, creando in questo modo, esponenzialmente sempre più debiti e sempre più interessi sul debito, che in ultima istanza non possono essere più onorati, portando all’esplosione della bolla. [26]
Sono state, però, le politiche monetarie eccezionali delle banche centrali delle vecchie potenze imperialiste, Usa in testa, a contribuire in modo determinante a creare l’attuale situazione di forte tensione nei mercati finanziari dei Brics e dei paesi emergenti, attraverso i programmi di quantitative easing e, più di recente, di tassi d’interesse negativi. Queste politiche monetarie eccezionali sono giustificate dai governi e dalle banche centrali con argomentazioni che a seconda del governo possono essere o keynesiano o neoclassiche, ma che in ultima istanza concordano nel fatto che la mancanza di crescita economica derivi dalla debolezza della domanda. Una domanda che — si sostiene — è possibile creare fornendo liquidità a costo zero alle imprese, o agli Stati, i quali investendoli creerebbero posti di lavoro e quindi consumo, alimentando la crescita.
Il fallimento di queste politiche, però, è oramai sotto gli occhi di tutti. Il solo effetto dell’enorme quantità di denaro immessa nell’economia globale è stato quello di alimentare la crescita dei mercati finanziari e la creazione di enormi bolle speculative, in particolare, sui debiti di Stato e sul settore immobiliare dei mercati emergenti. [27] Le ragioni che spiegano il fallimento di queste politiche le abbiamo già esposte nei due precedenti numeri di Antitesi, e il movimento comunista lo va sostenendo da circa 150 anni.
Si possono riassumere in quella tendenza del capitalismo che Marx aveva definitivo nel libro primo del “Capitale” come, la caduta tendenziale del saggio di profitto. Gli investimenti, e quindi la crescita economica, non stanno ripartendo non per una mancanza di domanda o di liquidità a buon mercato, ma perché per i capitalisti non è proficuo investire, o in altre parole il saggio di profitto è troppo basso per giustificare nuovi investimenti. In questa situazione, dunque, la nuova liquidità immessa non si trasforma in nuovi investimenti, ma si dirige verso il mercato finanziario che, grazie al gigantesco schema di Ponzi in azione, è riuscito fino a questo momento a garantire rendite più alte di quanto l’“economia reale” possa in questo momento solamente immaginarsi.
La tendenza generale egemone, a livello di sistema economico internazionale, rimane quella tipica della crisi capitalistica, ovvero la sovrapproduzione di capitali.
In questa situazione, le sempre minori possibilità di profitto per il capitalismo globale, determinano il rilancio della rapacità verso i popoli da parte delle potenze imperialiste, soprattutto quelle dei poli dominanti, che con la destabilizzazione e l’aggressione militare puntano a contrastare violentemente ogni tentativo di sottrarsi al loro controllo economico e politico. Contemporaneamente e conseguentemente, si aggrava la contraddizione tra le stesse potenze imperialiste nella lotta per la ripartizione dei mercati.
La contraddizione inter-imperialista – negli ultimi anni – si è concretizzata nello scontro tra le vecchie potenze (soprattutto gli Usa e quelle europee) e le potenze in ascesa, i cosiddetti Brics. Ovviamente, le prime possono contare, in questo scontro, su circa due secoli di primato capitalista, oltre che l’eredita del periodo coloniale precedente alla fase imperialista, nonché sulla sconfitta subita dall’Urss e dal campo socialista. Istituzioni come il Fmi, la Banca Mondiale, la World Trade Organization e la Nato sono il frutto di questi rapporti di forza complessivi, sul piano economico-finanziario, politico e militare, che vedono il sopravanzamento delle vecchie potenze sulle nuove.
La presente fase di crisi del capitalismo, iniziata a partire dalla prima metà degli anni settanta del secolo scorso e aggravatasi, negli ultimi anni, a partire dal crollo dei subprime, ha però contribuito ad aprire lo spazio perché le potenze imperialiste dominanti retrocedessero da ampie posizioni sui mercati mondiali e nella capacità di influenzare politicamente gli altri Stati. In questo spazio si è inserita l’ascesa capitalistica dei Brics, che ha voluto procedere verso la strutturazione di un nuovo blocco di forze imperialistiche globali. Ascesa, come abbiamo visto, relativa, perché, alla faccia di certa retorica di matrice terzomondista che pervade anche settori di movimento comunista, si è rivelata minata alle fondamenta dalla stessa crisi capitalistica generale e mondiale, che aveva già inciso sui loro concorrenti “occidentali”.
Ora, la relativa ascesa – con margini sempre più scarni – riguarda invece gli Stati Uniti e, in misura inferiore, l’Europa e le vecchie potenze imperialiste provano a scaricare gli effetti più gravi della crisi sulle potenze in ascesa, soprattutto utilizzando la leva finanziaria, contando sui predetti rapporti di forza non ancora ribaltati dai Brics. Quest’ultimi, come dicevamo, stanno scontando fondamentalmente la loro scarsa autonomia in campo di reperimento di risorse finanziarie. Washington sta fiondandosi sugli spazi lasciati liberi dai concorrenti in difficoltà, come testimonia il progressivo tentativo di riconquistare l’America latina a cui stiamo purtroppo assistendo in questo periodo. Dall’altra parte, i Brics, o almeno parte di essi, rispondono mettendo in campo a livello internazionale una rinnovata linea politica e militare in senso bellicista, come sta facendo la Russia di Putin.
Infatti, l’esito dello scontro inter-imperialista non si giocherà, in ultima analisi, rispetto alla ristrutturazione dei rapporti di forza globali a livello economico-finanziario, con margini sempre più stretti di manovra per le une e le altre potenze visto il procedere della crisi e visto la loro stessa compenetrazione come economie imperialiste globali. A decidere dello sviluppo del conflitto tra imperialismi, come già nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, sarà la maturazione della contraddizione in senso antagonistico, sul piano della guerra. Tanto che oggi, dopo il recupero della nozione di crisi, la borghesia ha recuperato anche la nozione di conflitto mondiale, parlando apertamente di “tendenza alla terza guerra mondiale”. [28]
Che la barbarie via via più assoluta possa essere il portato di questo conflitto è un chiaro e conclamato, ricavato anche dalle due precedenti esperienze patite dall’umanità e dalla minaccia sempre più potenzialmente distruttiva rappresentata dagli armamenti nucleari. Ciò che conta in questa tendenza è il suo intersecarsi con le tendenze alla lotta di liberazione dei popoli e alla rivoluzione proletaria, ovvero con le uniche forze che possono rallentarne il corso o quantomeno impedire che il risultato di tale distruzione sia unicamente il rinnovarsi dell’ordine imperialista, com’è è avvenuto con la Rivoluzione d’Ottobre rispetto alla Prima guerra mondiale e alla creazione del campo socialista nella Seconda.
Il nostro compito immediato di comunisti è lavorare allo sviluppo del movimento contro la guerra imperialista, in primis contro l’imperialismo italiano e il blocco della Nato di cui esso è parte. Solo così, nella nostra attuale situazione soggettiva, possiamo dare concretezza politica al determinarsi delle tendenze alla liberazione dei popoli e alla rivoluzione proletaria, rispetto al procedere oggettivo della guerra imperialista e rispetto al compito strategico di sviluppo della guerra giusta, dei popoli e dei proletari, contro la guerra ingiusta degli imperialisti.
[1] “It’s either debt or war. Got to keep sheep busy”, è un commento apparso a margine di questo post, http://www.zerohedge.com/news/2016-02-18/china-unleashes-debt-tsunami-creates-1-trillion-debt-first -two-months-2016
[2] http://www.zerohedge.com/news/2016-01-24/kyle-bass-warns-lot-more-pain-come-over
[4] https://en.wikipedia.org/wiki/BRICS
[5] https://en.wikipedia.org/wiki/New_Development_Bank
[6] http://www.elibrary.imf.org/view/IMF082/22746-9781513582047/22746-9781513582047/22746-9781 513582047.xml?rskey=e7kioE&result=1&highlight=true
[7] http://www.ft.com/intl/cms/s/0/86e946e2-cb5e-11e5-be0b-b7ece4e953a0.html
[9] http://www.bloomberg.com/news/articles/2016-01-13/stronger-dollar-signals-more-pain-for-emergingmarkets-chart
[10] Vedi Antitesi n.1 sezione 1: Sfruttamento e crisi
articolo “Camminando sull’orlo del precipizio: note sulla lunga depressione del capitale”
paragrafo “Fuga dei capitali”
http://www.tazebao.org/note-lunga-depressione-capitale/
[11] http://www.ft.com/intl/cms/s/3/2956833e-cb39-11e5-be0b-b7ece4e953a0.html
[12] http://www.tradingeconomics.com/brazil
[13] http://www.ft.com/intl/cms/s/3/7cd248a8-c8f6-11e5-be0b-b7ece4e953a0.html
[14] http://www.ft.com/intl/cms/s/3/7cd248a8-c8f6-11e5-be0b-b7ece4e953a0.html
[15] http://www.tradingeconomics.com/russia
[16] http://www.zerohedge.com/news/2015-12-29/russian-economy-cracking-social-unrest-coming-few-mo nths-official-warns
[17] Vedi Antitesi n.1 sezione 1: Sfruttamento e crisi
articolo “Camminando sull’orlo del precipizio: note sulla lunga depressione del capitale”
paragrafo “Buybacking”
http://www.tazebao.org/note-lunga-depressione-capitale/
[18] Vedi Antitesi n.1 sezione 1: Sfruttamento e crisi
articolo “Camminando sull’orlo del precipizio: note sulla lunga depressione del capitale”
paragrafo “L’economia mondiale”
http://www.tazebao.org/note-lunga-depressione-capitale/
[19] Vulnerabilities, legacies, and policy challenges. Risks rotating to emerging markets, World Economic and Financial Surveys, International Monetary Fund, ottobre 2015.
[20] Vedi Antitesi n.2 sezione 2: Classi sociali, proletariato e lotte
articolo “La lotta di classe in Cina”
http://www.tazebao.org/la-lotta-di-classe-in-cina/
[21] http://www.mckinseychina.com/putting-chinas-debt-into-perspective .
[22] Vedi Antitesi n.1 sezione 1: Sfruttamento e crisi
articolo “Camminando sull’orlo del precipizio: note sulla lunga depressione del capitale”
paragrafo “Il <<lunedì nero>> della borsa cinese”
http://www.tazebao.org/note-lunga-depressione-capitale/
[23] http://www.ft.com/intl/cms/s/0/1b7ae16e-4ff7-11e5-8642-453585f2cfcd.html
[24] http://www.zerohedge.com/news/2016-02-18/china-unleashes-debt-tsunami-creates-1-trillion-debt-first -two-months-2016
[25] http://www.ft.com/intl/cms/s/0/7feaad04-cb2c-11e5-84df-70594b99fc47.html
[26] Dal nome dello speculatore italo-americano Charles Ponzi protagonista di una gigantesca speculazione finanziaria tra gli anni dieci e venti del novecento, vedi https://en.wikipedia.org/wiki/Ponzi_scheme
[27] https://thenextrecession.wordpress.com/2015/11/21/will-the-world-economy-enter-a-new-recession-nex t-year/
[28] Tanto per fare un esempio, il numero di febbraio Limes, principale rivista di geopolitica italiana (in un certo senso voce della nostra borghesia imperialiste nella sua proiezione globale), s’intitola “La terza guerra mondiale?”.
Fonti consultate