La lotta di Classe in Cina
“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.02 – pag.24
Il processo di restaurazione del capitalismo avvenuto in Cina presenta caratteristiche completamente diverse da quello verificatosi negli altri paesi ex socialisti come l’Urss e gli altri dell’Europa orientale, nei quali si è attuata una disgregazione delle forze politico-sociali e delle strutture dei precedenti Stati socialisti. In essi si è formata una nuova borghesia nata tra i quadri dirigenti dei partiti comunisti e divenuta progressivamente egemone fin dalla seconda metà anni cinquanta, costituitasi sopra i rapporti di produzione e le strutture economiche formalmente socialisti e che, dagli anni novanta, ha portato a una completa trasformazione e dismissione di tali strutture socialiste preesistenti. Inoltre, soprattutto per i paesi dell’Europa orientale, ciò ha significato la svendita delle ricchezze e delle strutture economiche e la sottomissione agli interessi dell’imperialismo statunitense e dell’aggregato Ue.
In Cina, definita Repubblica Popolare Cinese, invece, la restaurazione capitalista è proceduta sotto la guida delle istituzioni ereditate dal socialismo, con al vertice il Partito Comunista Cinese (Pcc), mantenendo la denominazione formale di paese socialista, ma sostanzialmente sotto il dominio della borghesia con rapporti di produzione di tipo apertamente capitalistico e dando forma politica-istituzionale ad un inedito regime di controrivoluzione preventiva.
Progressivamente, dalla morte del compagno Mao Tse Tung, il 9 settembre 1976, la componente traditrice della rivoluzione e fautrice della restaurazione del capitalismo all’interno del Partito Comunista Cinese, ha preso il potere, eliminando le componenti rivoluzionarie ancora presenti nel partito ed esautorando l’influenza ed il ruolo delle organizzazioni di massa degli operai, dei contadini e dell’Esercito Popolare che si erano mobilitati negli anni della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (Grcp), dal 1966 al 1976. Proprio la Grcp, sorta sotto l’impulso del compagno Mao e combattuta grazie all’appoggio delle larghe masse operaie, contadine e studentesche, aveva l’obiettivo di sconfiggere le tendenze reazionarie della borghesia annidate nel partito e nella società cinese: la linea nera, incarnata inizialmente dal Li Shao Chi (definito da Mao “il Kruscev cinese”) e da Peng Cheng, allora sindaco di Pechino.
Con la morte del compagno Mao si è imposto il predominio della borghesia all’interno degli organi dirigenti della società cinese, iniziata dapprima con la nomina del revisionista centrista Hua Kuo Feng a capo del governo e successivamente, il 7 ottobre 1976, a presidente del Pcc e alla presidenza della commissione per gli Affari militari. Hua Kuo Feng centralizzò nella sua figura funzioni di governo, partito ed esercito con una possibilità di controllo politico e sociale che non si era mai verificato all’epoca di Mao. In questo nuovo ruolo Hua Kuo Feng e la sua cricca hanno proceduto alla eliminazione delle componenti rivoluzionarie che contrastavano la linea revisionista e reazionaria, con l’arresto, il 21 ottobre 1976, di membri dirigenti del Pcc: Jiang Qing, vedova di Mao, Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan, Wang Hongwen (quella che denigratoriamente e mediaticamente è stata definita la “banda dei quattro”) e alla liquidazione di tutti i quadri del partito legati alla Linea Rossa di Mao. Dopo questo Hua Kuo Feng dichiarò conclusa l’esperienza della Rivoluzione Culturale affossando l’ultima esperienza rivoluzionaria in Cina, nata proprio per contrastare il revisionismo nelle fila del partito e la restaurazione di rapporti capitalistici nelle campagne e nelle fabbriche. Riabilitò il revisionista di destra Deng Xiao Ping, che proprio per essere espressione della linea revisionista negli anni della Grcp era stato destituito da ruoli dirigenti nel partito e nell’amministrazione. Il predominio reazionario si completò nel 1981 quando lo stesso Deng Xiao Ping sostituì Hua Kuo Feng alla guida del Pcc. Sotto la guida del reazionario Deng il processo di restaurazione capitalista subì un’accelerazione con la politica della “porta aperta”, ovvero l’apertura alla penetrazione di capitali stranieri nei settori produttivi cinesi. Questa svolta reazionaria è incarnata efficacemente dallo slogan “arricchirsi è glorioso”, promosso dalla cricca reazionaria dirigente del Pcc nel congresso del 1977.
Con la restaurazione progressiva dei rapporti di produzione capitalistici all’interno della società cinese si è sviluppato il processo di creazione d’insediamenti produttivi privati e la cessione di aziende statali cinesi a capitali stranieri, pur rimanendo, ad oggi, il 40% dell’industria pesante ed estrattiva in mano allo Stato, specialmente nel settore energetico. La Cina possiede tre delle cinque imprese con il maggior numero di impiegati su scala mondiale (Sinopec, Energia di Stato, Petrolio Nazionale di Cina), tutte del comparto dell’energia. La strategia della direzione reazionaria del Pcc è volta a sostenere da un lato l’industria privata con un buon supporto energetico statale, dall’altro a trasformare le industrie di questi settori in multinazionali con base in Cina.
La rinascita del capitalismo cinese ha condannato alla scomparsa politica della classe operaia cosciente in senso rivoluzionario, formatasi nel socialismo.
Nei primi anni di restaurazione capitalista, numerose imprese di proprietà statale sono state preparate per la loro privatizzazione, il livello di produttività accelerato con l’introduzione di meccanismi capitalistici, le protezioni sociali smantellate. Nonostante la classe operaia del settore statale abbia opposto a questo programma di controriforme una resistenza di massa, lo Stato cinese ha proceduto alla rimozione dalla produzione di questo settore irrequieto e non addomesticabile della classe operaia e circa 40 milioni di lavoratori sono stati messi in pensione in maniera forzata e, ad oggi, il settore statale ha ridotto della metà il numero dei suoi impiegati rispetto a 15 anni fa.
In questo contesto politico e sociale si è venuta a formare una nuova classe operaia che numericamente è arrivata agli attuali circa 400 milioni. Erano 3 milioni nel 1949, 15 milioni nel 1952, circa 70 nel 1978.
Nella formazione della nuova classe operaia, necessaria per rispondere alle esigenze del processo di industrializzazione apertosi con la penetrazione di capitali esteri e l’insediamento di numerosi nuovi stabilimenti industriali nelle Zone Economiche Speciali, create appositamente per agevolare gli investimenti esteri e concentrate specialmente nell’area costiera sud-orientale della Cina, i contadini hanno fornito il grosso della truppa operaia.
Il regime reazionario capitalista ha così sfruttato una manodopera ricattabile, i mingong, i cinesi senza documenti, detti anche migranti interni. I contadini, infatti, non possono muoversi a piacimento nel loro paese e necessitano di un permesso amministrativo per stabilirsi in un paese o villaggio differente da quello di origine. Si tratta di una misura amministrativa che risale al 1958 nata con l’obiettivo di limitare l’esodo rurale verso le aree urbane e costiere, che comportava il sorgere di baraccopoli nelle città metropolitane e condizioni di vita sanitarie e sociali inaccettabili. Dagli anni novanta l’esodo rurale è stato invece incentivato dal governo per rispondere alle nuove necessità di industrializzazione esasperata grazie alle aperture economiche al mondo capitalista, creando una massa di “clandestini” molto più facili da sfruttare, proprio perché ai migranti rurali non viene riconosciuta la residenza legale nelle città. Questo comporta la mancanza di accesso ai beni e ai servizi pubblici legati alla residenza (assistenza sanitaria, servizio scolastico per i figli, ecc.). Si è formata così una classe operaia ricattabile, formata da contadini sradicati dal proprio villaggio, senza diritti sociali. Essi vendono la propria forza-lavoro nelle nuove industrie con contratti a salari bassissimi, in attesa di tornare nei loro villaggi. Un fenomeno epocale che ha interessato, dagli anni novanta ad oggi, circa 200 milioni di lavoratori, che rappresentano un esercito operaio illimitato per il profitto dei padroni, il paradiso per i capitalisti. Questi lavoratori hanno lasciato le aziende agricole in centinaia di milioni per costruire autostrade e abitazioni e assemblare di tutto nelle fabbriche, dalle scarpe agli iPhones in condizioni di sfruttamento disumane che, in alcuni casi, come alla Foxconn, hanno portato a moltissimi casi di suicidio.
La multinazionale taiwanese Foxconn produce componenti elettroniche per marchi come Apple, Sony, Nintendo e impiega un milione e mezzo di lavoratori in Cina in 32 stabilimenti che sono disseminati soprattutto nelle regioni costiere facenti parte delle Zone Economiche Speciali. Essa esemplifica il livello di sfruttamento bestiale dei lavoratori e gli arbitrii loro imposti sfruttando particolarmente la loro condizione di lavoratori migranti interni, quindi di cittadini di seconda classe. Nella decisione della Apple di appaltare alla Foxconn l’assemblaggio dei propri prodotti, oltre al bassissimo costo del lavoro e flessibilità dell’operaio cinese, vi era un altro vantaggio cruciale e cioè che la Cina forniva ingegneri in quantità tale che gli Usa non potevano eguagliarla. I funzionari della Apple avevano stimato che erano necessari circa 8.700 ingegneri industriali per guidare e sovrintendere 200 mila operai delle catene di montaggio complessivamente impegnati nella produzione di iPhone ed avevano previsto che erano necessari nove mesi per trovare un numero pari di ingegneri negli Stati Uniti mentre, in Cina, questa quantità era già immediatamente disponibile.
D’altra parte la Foxconn garantisce il servizio alle grandi ditte dell’elettronica sfruttando in modo disumano la forza lavoro. Alle catene di montaggio i turni e i ritmi sono massacranti, la sorveglianza severissima e gli straordinari obbligatori nel caso la produzione prevista non sia raggiunta (gli operai delle fabbriche del settore informatico lavorano in media 67 ore settimanali, su un orario legale previsto di 40).
Indicativo è l’inizio del turno di lavoro in uno stabilimento Foxconn, come racconta un operaio: “Mentre comincia il turno i capi urlano a gran voce “Come state?”Gli operai devono rispondere urlando all’unisono “Bene!Molto bene!”. Prima del turno si sentono tre fischi in sequenza, al primo dobbiamo alzarci e mettere a posto i nostri sgabelli, al secondo dobbiamo prepararci al lavoro e indossare i guanti o prendere l’attrezzatura necessaria, al terzo ci sediamo e cominciamo il lavoro”. [1]
Le durissime condizioni per questi giovani operai hanno portato alla disperazione alcuni di essi e ad una catena di suicidi, nel 2010 ve ne sono stati 14. Due lavoratori della Foxconn di Zhengzhou si sono suicidati gettandosi nel vuoto nel giro di quindici giorni e questo dopo che la direzione aveva imposto, senza preavviso, la “modalità silenziosa” per i suoi salariati, ovvero la proibizione di parlare durante il lavoro, per più di 10 ore al giorno.
Altra condizione di “vantaggio” offerta dal governo cinese per i padroni è l’utilizzo dei lavoratori studenti-tirocinanti che vengono impiegati nelle catene di montaggio nei mesi estivi, con stipendi al di sotto di quelli di un normale operaio, proprio perché considerati studenti in formazione, ma con gli stessi ritmi infernali e gli stessi obblighi di rendimento e di lavoro straordinario, degli altri operai. Alla sola Foxconn ne sono impiegati 150 mila, dai 14 ai 18 anni, con i professori che eseguono il ruolo di capi-sorveglianti.
Dopo due decenni di sfruttamento bestiale nelle fabbriche produttrici di merci per le multinazionali del mondo, la classe operaia cinese, composta principalmente da giovani, sta portando avanti numerose rivendicazioni economiche e sindacali per combattere l’ipersfruttamento.
La nuova generazione di lavoratori è più propensa all’azione e alla lotta per le proprie condizioni di vita, anche perché non vede il lavoro nell’industria come una fase di passaggio per poi tornare a quello nei campi, come accadeva invece alle generazioni precedenti. Inoltre, nonostante siano classificati dalle autorità come lavoratori rurali, non c’è per loro la possibilità di tornare alla campagna e fare affidamento sulla terra per la sussistenza, a causa della mancanza di sviluppo delle comunità rurali negli ultimi due decenni. Questi giovani operai non accettano di essere confinati all’interno del sistema della fabbrica, nella catena di montaggio, che offre loro soltanto condizioni di lavoro inaccettabili e un magro salario insufficiente a sostenere la loro vita nelle città e poter inviare parte del salario ai loro parenti nelle campagne.
I lavoratori cinesi continuano anche oggi quelle lotte che hanno caratterizzato gli ultimi anni e hanno ottenuto anche importanti risultati dal punto di vista degli aumenti salariali, dei diritti sindacali e ad un ammorbidimento della severa disciplina interna alle fabbriche. Ad esempio i lavoratori della Honda di Foshan, nella regione del Guangdong, una delle più industrializzate della Cina dove operano 60 milioni di lavoratori negli stabilimenti delle multinazionali del mondo, hanno condotto una lotta eroica e vittoriosa nel 2010, costringendo la direzione e la federazione locale dei sindacati, non solo a concedere un aumento salariale, ma anche a consentire una rielezione della rappresentanza sindacale in fabbrica.
In alcuni settori delle industrie statali gli operai hanno lottato contro la privatizzazione degli stabilimenti in forme molto dure e radicali, come nella provincia settentrionale del Jilin, dove in un incontro per la cessione dell’azienda statale Tonghua Steel Group, le maestranze hanno scioperato per protesta contro il piano aziendale che prevedeva 5 mila licenziamenti e un gruppo di lavoratori ha preso in ostaggio ed eliminato uno dei dirigenti, favorevole alla privatizzazione.
Nella terminologia del governo cinese le proteste sociali, le manifestazioni, gli scioperi con picchetti o le altre forme di mobilitazione operaia o contadina, vengono indicate con il termine “incidenti di massa”. Secondo le cifre ufficiali governative, fino ai primi anni ’90 vi erano stati circa 9 mila di questi incidenti; nel 2006 127.000.
Negli ultimi anni il governo non ha più rilasciato cifre ufficiali, ma le stime si aggirano attorno ai 180 mila. Questi “incidenti di massa” sono proteste spontanee che hanno all’origine un malcontento sociale fortemente in crescita e che nascono da dispute nei confronti di funzionari locali corrotti, espropri forzati di abitazioni o terreni, stipendi non pagati o soprusi compiuti dal funzionario governativo o di partito di turno.
Secondo l’Ong “China Labour Bulletin”, di Hong Kong, gli scioperi e le proteste a livello nazionale sono quasi raddoppiate nei primi 11 mesi del 2015: da 1.207 nello stesso periodo del 2014 a 2.354.
Nel marzo 2014 oltre mille lavoratori di uno stabilimento Ibm a Shenzen, nel sud della Cina, sono scesi in sciopero chiedendo un risarcimento prima che la fabbrica fosse trasferita al produttore cinese di Pc Lenovo, a cui Ibm ha venduto le attività di server di fascia bassa. I lavoratori, come nella maggior parte degli scioperi in Cina, non hanno abbandonato la fabbrica per non rischiare di essere arrestati per turbativa di ordine pubblico; hanno agito in modo indipendente dal consiglio di fabbrica della Acftu (All China Federation of Trade Unions, l’unico sindacato legale in Cina e sotto stretto controllo del governo), ed hanno eletto 20 loro rappresentanti, poi licenziati da Ibm.
Nel dicembre 2015 a Guangzhou, capitale del Guangdong, sono stati arrestati 7 attivisti sindacali membri di centri di assistenza ai lavoratori. Una ventina sono stati prelevati nelle loro abitazioni il 3 dicembre scorso dalla polizia e, sette sono ancora agli arresti. Ad essere colpiti sono membri e funzionari di quattro centri diversi dislocati tra Foshan e Panyu (distretto meridionale di Guangzhou) che si occupavano di dare assistenza legale ai lavoratori in causa con l’azienda per il pagamento degli arretrati o degli indennizzi per gli infortuni, di fare corsi di formazione ed attività ricreative per gli operai. Alcuni di loro seguivano la vertenza dei lavoratori della nettezza urbana di Guangzhou protagonisti di una battaglia per l’assunzione diretta, e non attraverso le agenzie interinali, da parte dell’azienda per cui lavorano. In questo caso, come molto spesso avviene nella repressione delle lotte, questi attivisti sindacali rischiano fino a 5 anni di carcere con l’imputazione di aver turbato l’ordine sociale.
In Cina i sindacati ufficiali, gli unici riconosciuti dal governo, raccolti nella Acftu, sono da lungo tempo servi del potere dei padroni. I delegati di fabbrica, laddove esistono, sono nominati dalle burocrazie sindacali e in molte vertenze le decisioni prese dalla direzione aziendale sono riprese identicamente dal sindacato. I funzionari e i burocrati sindacali utilizzano il loro ruolo per legittimare ed assecondare i progetti padronali. Ad esempio, secondo il Codice del lavoro cinese, le imprese statali non possono usare lavoratori temporanei per completare l’opera di lavoratori a tempo indeterminato, lo possono fare solo nei casi in cui non si riesca a soddisfare delle commesse specifiche. Eppure oggi le aziende statali ricorrono massicciamente al lavoro temporaneo e l’Acftu non ha mai ostacolato questa pratica che ramai è diventata comune. Il sindacato Acftu controlla le rivendicazioni crescenti dei lavoratori cercando di limitare situazioni in cui possano svilupparsi proteste spontanee che potrebbero divenire incontrollabili Probabilmente proprio per questo ruolo antioperaio e antiproletario nel giugno 2011 la Acftu è stata eletta nell’organo dirigente dell’Organizzazione internazionale del lavoro in buona compagnia di Cgil, Cisl e Uil, che come repressori delle lotte dei lavoratori italiani hanno qualcosa da insegnare e imparare.
Anche la classe dei contadini ha subito modificazioni epocali in questo trentennio di restaurazione capitalista in Cina. I contadini in Cina sono circa 600 milioni, il 47,3% della popolazione e, circa, il 15% della popolazione mondiale. La Cina, nonostante a livello mondiale abbia solo il 9% delle terre coltivabili, è primo produttore di riso (28% della produzione mondiale) di tè (33%) di grano (17%) e secondo produttore di mais (21%).
La popolazione rurale cinese (nongmin) è composta soprattutto dagli elementi della piccola proprietà agraria familiare, è sottopagata e subisce usurpazioni di tutti i tipi, in special modo dalle amministrazioni governative locali, provinciali e regionali.
La controriforma rurale di Deng Xiao Ping (1978-1984) ha smantellato le conquiste della Repubblica Popolare, decollettivizzando la produzione agricola, smantellando il sistema delle comuni e affidando sempre più la distribuzione dei prodotti agricoli al libero mercato. I diritti di utilizzo della terra sono stati separati dalla proprietà per instaurare ciò che è conosciuto come il “sistema di responsabilità familiare”, ovvero i terreni agricoli e le altre risorse naturali sono ancora proprietà collettiva (dei villaggi o di gruppi di famiglie numerose), ma i diritti di utilizzo della maggior parte dei terreni agricoli sono contratti da singole famiglie che sono “responsabili dei profitti e delle perdite”.
Con lo smantellamento delle comuni contadine si è preparato il terreno ad una nuova suddivisione della proprietà fondiaria, con la privatizzazione e la conseguente rovina dei contadini poveri. Al giorno d’oggi, le centinaia di milioni di disperati che vagano da una città all’altra alla ricerca di lavoro, sono operai licenziati dalle industrie statali, ma soprattutto contadini vittime di espropri terrieri, proprio di quelle terre che poi sono state vendute alle imprese agricole.
La tendenza economica in atto nel settore agricolo propugnata e diretta dal governo cinese, infatti, vede l’affidamento di vasti appezzamenti di terreno coltivabile a grandi compagnie private per periodi che vanno da trenta a settant’anni e questo sta comportando la trasformazione dei contadini (prima impiegati soprattutto in attività di sussistenza nei loro terreni di cui godevano il diritto di utilizzo) in lavoratori salariati, impiegati nella produzione di colture di ortaggi, frutta e fiori destinati ai mercati. Il governo intende accelerare il processo di liberalizzazione nell’agricoltura, abbassando le sovvenzioni prima erogate alle famiglie contadine e aumentando le importazioni, secondo le regole del libero scambio, raggruppando vasti terreni e intensificando l’urbanizzazione, come indicato in un piano che prevede dai 20 ai 25 milioni di migranti supplementari (mingong) da ora al 2020.
Così i contadini si ritrovano senza terra accontentandosi di lavorare come salariati nei terreni che una volta erano loro, ad essere nuove braccia per l’industria entrando a far parte dell’esercito dei lavoratori rurali migranti o dei disoccupati obbligati a lasciare la campagna per cercare lavoro in città.
Se la classe operaia cinese si trova a combattere le bestiali condizioni di sfruttamento e i bassi salari, altrettanto gravi sono le condizioni dei contadini cinesi: il reddito medio dei lavoratori del settore agricolo è circa un terzo di quello delle famiglie che vivono in città: 8.896 yuan all’anno (circa 1.240 euro) contro una media di 26.995 yuan (circa 3.770 euro). Inoltre il 20% delle terre coltivate è stato dichiarato inquinato dal ministero dell’agricoltura, i terreni si sono esauriti per l’uso irrazionale dei fertilizzanti, in particolare nei piccoli appezzamenti, e nel nord della Cina le terre soffrono per la mancanza di acqua. Due terzi del mais prodotto viene ormai utilizzato per l’alimentazione animale e, nel processo di privatizzazione in atto che riguarda tutto il settore dell’agricoltura, sono state conglobate più aziende agricole. Oltre un quarto dei maiali è allevato in aziende da più di 3.000 capi. Nel 2014 il 26% delle famiglie di contadini ha ceduto il proprio diritto d’uso dei terreni, che rappresentano il 28% delle terre coltivabili. Un trasferimento che non ha nullo di spontaneo: i governanti locali spingono i contadini a cedere i loro diritti a buon mercato per poi rivenderli, a prezzi molto più alti, all’industria agroalimentare o a promotori immobiliari.
Il capitalismo cinese ha assunto un ruolo di rilevanza internazionale sia per le dimensioni enormi del paese e delle possibilità di sviluppo del mercato interno, sia per i tassi di sviluppo che interessano tutti i settori dell’economia e che hanno oggi un peso importante a livello internazionale. Un capitalismo che mantiene un forte dirigismo in tutti i settori dell’economia e una politica che ora è indirizzata allo sviluppo del mercato e delle infrastrutture interne dopo anni di sviluppo incentrato sulla fornitura alle multinazionali di forza lavoro e di servizi a basso costo. Un sistema capitalista che ha avuto uno sviluppo impetuoso ma dentro al quale ancora oggi vi è una maggioranza di contadini e dove, complessivamente, le classi degli sfruttati (contadini e proletariato) rappresentano l’80% della popolazione.
Le caratteristiche politiche del regime della borghesia cinese sono del tutto diverse da quelle degli altri paesi capitalisti, proprio per le considerazioni che si facevano all’inizio di questo articolo, ovvero di essersi sviluppata sulle istituzioni politiche e sociali costruite nel periodo del socialismo, appropriandosene e deviandole dal percorso rivoluzionario per intraprendere quello capitalista. Più esattamente, l’aver mantenuto nelle proprie mani la leva del potere politico, nascondendosi dietro le istituzioni sorte dal regime socialista e utilizzandole come proprio strumento, ha permesso alla borghesia cinese, costituita degli altri burocrati della pubblica amministrazione e dello Stato, dai dirigenti delle imprese di Stato e di quelle private, di utilizzare l’apertura ai mercati esteri, per un gigantesco movimento di proiezione autocentrata sui mercati mondiali, che fa oggi del paese la seconda potenza imperialista economica dopo gli Usa.
Ma le forti lotte e rivendicazioni di questi ultimi anni mostrano la volontà di riscossa di classe in Cina dopo anni di sottomissione silenziosa alle leggi del profitto. Sicuramente i risultati ottenuti pagati anche con durissima repressione, sono limitati e molto spesso confinati al solo livello locale, di singolo villaggio, o di singolo stabilimento. La strada è lunga per riuscire a conquistare forme organizzative autonome che possano estendersi e unificarsi a livello regionale o nazionale.
Ma questa è la sfida che si pone oggi al movimento operaio e contadino cinese. D’altra parte, la lotta per l’autonomia politica del proletariato è la stessa necessità che vive il movimento operaio internazionale in moltissimi paesi, compreso quello italiano.
Nel processo rivoluzionario che ha interessato la Cina nella prima metà del novecento e che ha portato all’instaurazione della Repubblica Popolare, il ruolo svolto dalla classe dei contadini, la grande maggioranza del paese, è stato principale nella strategia della guerra popolare che ha portato all’abbattimento del sistema feudale-coloniale. Il ruolo della classe operaia e del proletariato, nonchè del suo partito d’avanguardia, il Partito Comunista Cinese guidato da Mao Tse Tung, è stato fondamentale come guida nell’instaurazione del regime di nuova democrazia [2] e poi di quello socialista. Entrambe sono state le classi dominanti nella Repubblica Popolare Cinese prima della restaurazione del potere capitalista e hanno continuano, in tale periodo, a condurre la lotta di classe per la transizione verso il socialismo e in prospettiva verso il comunismo, toccando l’apice nella Grpc.
L’esperienza di questa rivoluzione può sicuramente essere maestra nella sfida odierna del movimento operaio e contadino cinese e anche di quello internazionale. È costituisce tuttora un patrimonio politico irrinunciabile del popolo cinese per evitare che gli Usa e le vecchie potenze imperialiste europee, coscienti della forze oggettiva che può assumere la mobilitazione operaia e contadina, puntino a dirigere il movimento dei lavoratori in senso reazionario e ad essi favorevole, destabilizzando i rivali imperialisti cinesi, replicando vecchi modelli restaurazionistici e occidentalistici purtroppo risultanti vincenti (su tutti vale l’esempio del sindacato Solidarnosc in Polonia).
[1] Pun Ngai, Jenny Chan, Mark Selden “Morire per un iPhone” ed. Jaca Book, pag 92.
[2] Vedi Antitesi n.2 sezione 2: Classi sociali, proletariato e lotte
Articolo “La guerra popolare in India”
Paragrafo “L’analisi della società e la linea rivoluzionaria del Pci-Maoista”
http://www.tazebao.org/guerra-popolare-india/
Fonti scritte
Ngai P., Chan J., Selden M., Morire per un iPhone, ed. Jaca Book, 2015;
China Left Review;
Daubier J., Storia della rivoluzione culturale proletaria in Cina, ed. Jaca Book, 1972;
Le Monde Diplomatique, inserto del giornale Il Manifesto, novembre 2015;
Pun Ngai, Cina la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, ed. Jaca Book, 2012.
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