Camminando sull’orlo del precipizio
Note sulla lunga depressione del capitale
“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.01 – pag.8
Il “lunedì nero” della borsa cinese
Lunedì 24 agosto le borse di tutto il mondo hanno tremato di fronte al tonfo dei listini cinesi, precipitati di 8.5 punti percentuali. A Shanghai si è registrata la peggior performance dal febbraio 2007, mandando in fumo in una sola seduta tutti i guadagni registrati dall’inizio dell’anno. Il contagio verso gli altri listini non si è fatto attendere. Il Ftse World è sceso dai massimi degli ultimi due anni ai suoi minimi dal febbraio 2014.
A Wall Street il S&P 500 ha chiuso con una perdita di 3.9 punti percentuali, il Down Jones — dopo aver perso la cifra record di 1,100 punti — ha chiuso a -3.6% e il Nasdaq a -3.8%. Sui mercati europei lo scossone si è fatto sentire ancora più forte. L’Eurofirst 300 ha chiuso con una perdita di 5.4 punti percentuali — il peggior dato dalla crisi finanziaria del 2007. Infine, il petrolio ha chiuso ai livelli più bassi da sei anni. [1]
Una giornata drammatica, insomma, che a detta della stessa agenzia ufficiale cinese Xinhua, passerà alla storia come il “lunedì nero” delle borse cinesi.
I timori che al crollo delle borse facesse seguito un rallentamento dell’economia globale si sono riverberati in tutti i principali mercati. Del resto la Cina rappresenta la seconda economia mondiale, contribuendo per il 25% alla crescita globale (dati Fmi). Come da manuale, allo scoppio della bolla finanziaria ha fatto seguito una corsa alle vendite durata diversi giorni. Le borse hanno continuato così a perdere molto terreno anche nei giorni successivi, toccando il fondo il 26 quando il Shanghai Composite ha perso altri 7.6 punti percentuali. L’atteso rimbalzo si è registrato solamente a partire dal 27.
Il grafico sotto rappresenta gli andamenti dei principali listini mondiali nell’ultimo anno. La linea arancione rappresenta lo Shanghai Composite. Oltre a mostrare il rimbalzo degli ultimi giorni, dal grafico si può identificare chiaramente il montare della bolla speculativa nell’ultimo anno (fonte: bloomberg.com).
Le autorità cinesi hanno reagito, come prevedibile, immettendo sul mercato 200 miliardi di dollari nel tentativo di stabilizzare i listini, oltre ad apportare una serie di piccole riduzioni dei tassi di interesse. A differenza di quanto scritto nei manuali di politiche monetarie, però, queste iniziative non stanno portando ai risultati sperati. Nonostante, negli ultimi giorni la situazione sembra essersi più o meno stabilizzata, il Vix, l’indice di volatilità dei prezzi, rimane ben oltre la soglia dei 20 punti, ritenuta la soglia limite oltre la quale si è in presenza di importanti difficoltà sul mercato (vedi: http://www.cboe.com/micro/volatility/pricecharts.aspx).
L’economia mondiale
Gli eventi nel mercato finanziario cinese sono stati la manifestazione di almeno due tendenze macroeconomiche in atto: una globale e l’altra regionale. La prima è rappresentata dalle difficoltà che il capitalismo a livello globale (Cina compresa) sta vivendo; la secondo è il tentativo del governo di Pechino di guidare l’economia cinese attraverso gli squilibri che il suo capitalismo di stato ha prodotto in questi anni, nella transizione da un’economia orientata all’export ad una orientata al consumo interno.
Qui ci concentreremo sul primo punto, lasciando ad un prossimo contributo lo sviluppo del secondo.
L’economia globale sta nuovamente rallentando, nonostante non si sia mai completamente ripresa dalla recessione seguita alla crisi finanziaria del 2007. Le ultime stime dell’indice Pmi globale (una media mensile delle attività economiche a livello nazionale), mostrano una contrazione in agosto, in particolare delle economie emergenti, ai livelli più bassi da due anni a questa parte (vedi grafico sotto, fonte: thenextrecession.wordpress.com).
Nella prima metà dell’anno, il commercio mondiale ha registrato la sua più grande contrazione dallo scoppio della crisi finanziaria. Il volume del commercio mondiale si è ridotto di 0.5 punti percentuali nel secondo trimestre rispetto al primo (vedi immagine sotto, fonte: http://cpb.nl/sites/default/files/cijfer/CPB%20World%20Trade%20Monitor%20June%202015/cpb-world-trade-monitor-june-2015.pdf). Inoltre, i dati sul primo trimestre sono stati recentemente rivisti al ribasso, facendo del primo trimestre del 2015 il peggiore dal collasso del commercio globale nel 2009.
Oltre alle difficoltà del capitalismo a livello globale, in particolare la mancata ripresa dell’Europa e il rallentamento della Cina, la contrazione del commercio riflette da una parte lo sforzo cinese di far crescere il proprio mercato interno riducendo la propria dipendenza dall’export, dall’altra il cambiamento nelle politiche energetiche degli USA — recentemente diventati esportatori netti — e un progressivo ritorno dall’estero del suo settore manifatturiero, grazie a condizioni più profittevoli (leggi, politiche fiscali più permissive e più alti saggi di sfruttamento della forza lavoro).
Un segnale evidente delle attuali difficoltà del commercio globale è fornito dall’andamento dei listini delle più importanti compagnie di spedizione — FedEx, Deutsche Post Ag, e Ups— i cui listini hanno subito pesantemente il crollo della borsa di Shanghai rinforzando i timori che, a causa del rallentamento economico globale, non riusciranno a gestire la riduzione della domanda senza appesantire drasticamente i loro bilanci.
Durante il “lunedì nero”, le perdite sono state pesanti: FedEX -4.9, UPS -3.7, Deutsche Post Ag -4.0, mentre il Dow John Industrial faceva segnare una perdita del 3.6 dopo aver perso più di mille punti nel corso della giornata.
E questo terremoto finanziario si è scatenato quando le aziende di trasporto sono già da tempo alle prese con serie difficoltà, tanto da essersi trovate costrette a diminuire il numero di navi per rotta già all’inizio dell’estate a causa dei container vuoti che erano costretti a far viaggiare. Il calo della domanda giunge in un momento critico. Negli ultimi anni molte imprese hanno investito capitali importanti per aumentare la capacità di trasporto varando di recente enormi navi cargo capaci di trasportare circa 19 mila container ciascuna. [3]
Il rischio quindi che il calo della domanda mondiale mandi in crisi il settore rimane alto, a maggior ragione se si guarda a ciò che sta accadendo in Cina.
L’economia cinese
Quelle apportate in risposta al crollo del “lunedì nero”, sono state solo le ultime di una serie storica di svalutazioni della moneta cinese. L’11 agosto la Banca centrale cinese (Bcc) aveva già ridotto nettamente i tassi d’interesse sulla propria valuta (il Renmibi) abbassandoli del 2%. La svalutazione decisa dalla Bcc si inserisce nella guerra valutaria in corso tra le più importanti economie mondiali che vede il dollaro americano fortemente intenzionato a mantenere la propria posizione egemone di valuta di riserva mondiale. La sfida da parte della Cina è stata di fatto lanciata con la richiesta formale al Fondo Monetario Internazionale (Fmi) di entrare nel ristretto gruppo di monete riconosciute internazionalmente come valute di riserva, composto da dollaro, euro, sterlina e yen. [4]
A determinare la drastica decisione delle autorità cinesi, hanno giocato un ruolo importante anche i dati macroeconomici ben al di sotto delle aspettative. Le esportazioni cinesi di luglio hanno registrato un calo di 8.3 punti percentuali rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Una riduzione simile è stata registrata anche per le importazioni. La contrazione della produzione industriale ha raggiunto livelli che non si registravano dal 2009 — l’anno peggiore della recessione iniziata con la crisi finanziaria del 2007 — crescendo a marzo del 5.6% (su base annua), ben al di sotto del previsto 6.9%.
Ma, soprattutto, il motore principale della crescita — gli investimenti nel capitale costante che misurano il denaro speso in macchinari e infrastrutture — sono calati al 13.5% dopo aver toccato un picco del 30% nel 2009. Una situazione che ha spinto gli analisti di Citigroup, la più grande azienda di servizi finanziari del mondo, a ridimensionare gli stessi dati ufficiali, “crediamo che il rallentamento della crescita cinese sia più grave di quanto non abbiano mostrati i dati pubblicati finora — pensiamo che la crescita nella prima metà dell’anno sia stata del 5% anziché del 7”. [5]
Le svalutazioni della moneta cinese sono quindi lette da analisti e investitori come un tentativo aggressivo di dare una spinta ad export e produzione rendendo i prodotti cinesi più competitivi.
La crescente competizione internazionale si sta intensificando contestualmente ad un rallentamento della domanda globale. In particolare, l’export tra i paesi asiatici rimane bloccato. Diverse economie asiatiche stanno attraversando problemi simili a quelli cinesi. Le performance deludenti del Pil giapponese nel secondo quarto dell’anno sono state principalmente causate dall’indebolimento del commercio con l’estero, mentre le esportazioni sud coreane si sono contratte per gli ultimi cinque mesi ininterrottamente. Le spedizioni da Thailandia, Taiwan, Filippine e Malesia sono state ben al di sotto delle previsioni di quest’anno. [6]
Caduta dei profitti
La causa principale della mancata ripresa è la bassa profittabilità del capitale a livello globale, in questo momento ai suoi minimi storici.
La teoria della crisi di Marx mostra come nel sistema capitalista esista una tendenza alla caduta del saggio di profitto. Questa tendenza può essere contrastata per più o meno brevi periodi di tempo da alti livelli di sfruttamento del lavoro e da una rapida innovazione tecnologica. La tendenza alla caduta del saggio di profitto è la legge di funzionamento più importante dell’economia capitalista in quanto la ragione ultima del capitale è proprio la capacità di accumulare profitti.
Questa legge mostra come il capitalismo è una formazione economica necessariamente transitoria nella storia umana, caratterizzato da fluttuazione cicliche di capacità produttiva e occupazionale che generano profonde recessioni. Se si osserva il movimento del saggio di profitto negli ultimi 150 anni (immagine sotto, fonte: http://gesd.free.fr/maito14.pdf) in cui il capitalismo è stato il modo di produzione dominante, la ragione dell’attuale lunga depressione diventa evidente. La profittabilità globale è in una fase discendente simile a quelle della fine del XIX° secolo e degli anni 30 del XX°, ma a dei livelli mai così bassi.
La caduta tendenziale è dettata dalla crescente composizione organica del capitale, in altre parole dal valore sempre più grande del capitale costante — macchinari, infrastrutture e materie prime — in rapporto al valore complessivo del capitale variabile — costo della forza lavoro.
Secondo Marx, in un sistema capitalista le crisi avvengono quando la profittabilità si riduce a un livello tale che il costo di nuovi investimenti in forza lavoro e nuove tecnologie supera i potenziali guadagni. Una volta che il saggio di profitto inizia a scendere in modo significativo, le aziende più deboli cominciano ad accumulare perdite crescenti licenziando e riducendo progressivamente ogni tipo di investimento. Questo ha un effetto a cascata sull’economia, capace di generare una crisi generale. In una tale situazione, infatti, qualsiasi tipo di debito precedentemente contratto per investimenti o per speculazioni nei mercati finanziari e immobiliari, fatte nel tentativo di aumentare i profitti, non può essere ripagato. In questo modo la caduta del saggio di profitto porta alla crisi di sovrapproduzione di capitali, che diviene condizione generale del modo di produzione capitalistico in un’intera fase, determinando l’instabilità della sfera finanziaria e la tendenza alla riduzione degli investimenti e della produzione.
Non è un caso che in ciascuna delle cinque più importanti recessioni dal secondo dopoguerra ad oggi, al momento dello scoppio della bolla finanziaria, il saggio di profitto stava già diminuendo dopo aver raggiunto un picco due/tre anni prima dell’inizio della fase recessiva (vedi immagine sopra). Una dinamica simile ha caratterizzato anche il recente tonfo dei debiti sub-prime del 2007. Quando i profitti delle aziende americane iniziarono a diminuire a metà del 2005, gli investimenti continuarono ad aumentare per qualche tempo grazie a disponibilità di bilancio delle aziende e a prestiti crescenti erogati da istituti di credito, con la speranza di recuperare la profittabilità perduta. Quando questa speranza non si materializzò, gli investimenti si ridussero durante il 2007 e crollarono nel 2008 riducendosi del 20% (su base annua).
Il saggio di profitto iniziò a crescere nuovamente alla fine del 2008, ma gli investimenti (così come il Pil) rimasero in territorio negativo per il successivo anno. È stato il movimento del saggio di profitto, dunque, a guidare il movimento degli investimenti, e non il contrario come sostenuto dalla dottrina keynesiana.
Come accennato in precedenza, in questo momento il saggio di profitto nelle più importanti economie globali (Usa, Regno Unito, Giappone, Cina e Germania) ha rallentato vistosamente passando dal 11% (su base annua) registrato l’anno scorso in questo periodo al 3.2% registrato quest’anno nello stesso periodo. In media gli investimenti impiegano sei mesi prima di seguire al ribasso il trend del saggio di profitto, dunque c’è da aspettarsi un’ulteriore marcata riduzione degli investimenti prima della fine dell’anno (e il recente crollo della borse potrebbe addirittura accelerare questo trend).
Ora che la Federal Reserve Bank (Fed), la banca centrale americana, sembra intenzionata (nonostante la decisione di lasciarli invariati assunta il 17 settembre) ad aumentare i tassi di interesse, ponendo fine al lungo periodo di politica monetaria espansiva, sembrano volgere al termine i tassi d’interesse zero sui prestiti e gli investimenti speculativi.
Il crollo della borsa cinese ha bruciato solo in parte l’enorme quantità di capitale fittizio che gli anni di tassi zero, quantitative easing e politiche monetarie espansive hanno creato. [7] Attualmente i listini borsistici sono ancora sopravvalutati rispetto ai profitti delle imprese di circa il 25-30%. Un cambio di politica monetaria da parte degli Usa potrebbe mostrare la parte restante di quel capitale fittizio con effetti ulteriormente recessivi per l’economia globale.
Fuga dei capitali
Il momento che stiamo vivendo rappresenta un passaggio storico nell’andamento del capitalismo mondiale. A riassumere bene questa fase è il cambio di strategia deciso recentemente da Goldman Sachs, la più importante banca d’investimento al mondo.
Per più di un decennio Goldman ha suggerito ai propri clienti di vendere allo scoperto (stare “corti” in gergo borsistico) dollari americani e comprare allo scoperto (stare “lunghi”) sia in mercati emergenti con bilance dei pagamenti attive che nei mercati delle materie prime (commodities). Le aspettative erano quindi quelle di un dollaro sempre più debole e di una crescita costante dei mercati emergenti e delle materie prime. Le ragioni erano semplici: prospettive di crescita asfittiche e alti livelli d’indebitamento negli Usa e nelle altre economie sviluppate; alte prospettive di crescita e un generale deficit di investimenti e di offerta di materie prime, nei mercati emergenti.
Ora Goldman, insieme ad altri importanti istituti finanziari, sta suggerendo ai loro clienti di fare esattamente il contrario. In altre parole, si sta verificando una “fuga di capitali” dai mercati emergenti a causa dei livelli di sovrapproduzioni raggiunti da questi mercati e dal conseguente crollo dei prezzi. Come ammette la stessa Goldman: “Un decennio di investimenti per aumentare le capacità produttive dei mercati delle materie prime e in nuove tecnologie ha creato un eccesso di capacità produttiva nei più importanti mercati delle materie prime che sta pesando sui costi e sui prezzi alimentando la spirale deflativa su scala globale”. L’indice del prezzo delle commodity di Bloomberg (che mette insieme il prezzo di oro, greggio e altre materie prime) è ai suoi livelli più bassi dal 2002 (vedi immagine sotto).
Gli investitori internazionali hanno ritirato dai mercati emergenti 4,5 miliardi di dollari nella sola ultima settimana di luglio. Nella settimana precedente avevano già ritirato 3,3 miliardi di dollari. In totale tra le ultime due settimane di luglio e la prima di agosto, 14,5 miliardi di dollari hanno lasciato i mercati emergenti, un’emorragia che non si è arrestata nelle settimane successive. E la destinazione privilegiata di questo esodo di capitali sono i titoli di stato americani.
L’enorme flusso di capitali verso i bond americani sta provocando anche una forte svalutazione delle altre monete. Questo rappresenta potenzialmente un problema serio per le economie emergenti. Molte imprese attive in quei mercati hanno acceso linee di credito in dollari, ma incassano i loro guadagni nelle rispettive valute nazionali. In questo modo i debiti delle imprese nei mercati emergenti stanno aumentando il proprio valore, mentre i guadagni stanno diminuendo.
Ora che la Fed è in procinto di alzare i tassi d’interesse del dollaro, il rischio di ulteriore instabilità e difficoltà nel servire i debiti per i mercati emergenti, è molto alto.
La banca d’investimento JP Morgan ha stimato che il debito di aziende attive in settori non-finanziari nei mercati emergenti è cresciuto dal 73% del Pil prima della crisi finanziaria del 2007 al 106% nel quarto trimestre del 2014. Un incremento del 34% significa una media di circa 5 punti percentuali per anno dal 2007. In precedenti ricerche, il Fmi ha rilevato come in presenza di una crescita annua del rapporto tra credito e Pil di 5 o più punti percentuali, il rischio di una crisi finanziaria è molto alto. Molti mercati emergenti hanno registrato un aumento di questo tipo dal 2007 in avanti. L’impressione, dunque, è che, come scritto dagli analisti di Standard&Poor, “si sia raggiunto un punto critico nel ciclo del credito alle imprese”. [8]
Questo mette in luce una grande verità in merito alla “ripresa economica” globale iniziata nel 2009. La supposta ripresa è stata principalmente costruita, non su investimenti in settori produttivi per aumentare produttività e livelli occupazionali, ma su capitale fittizio, acquisto di debito a lunga scadenza governativo e non, e il riacquisto di azioni proprie (buyback) da parte delle grandi corporations per gonfiare i libri contabili e aumentare i dividendi. Una quantità apparentemente senza fine di moneta a costo zero o quasi, è uscita in questi anni dalle banche centrali delle principali economie mondiali sotto forma di quantitative easing riequilibrando — almeno apparentemente — il sistema bancario, ma non i settori produttivi del capitalismo mondiale.
Deutsche Bank non lascia spazio a fraintendimenti: “La fragilità di questo sistema finanziario manipolato è stata esposta negli ultimi giorni. Tutto si è concluso con la caduta del S&P 500 di 3,19% venerdì [24 agosto]—la sua peggior seduta dal 9 novembre 2011”. [9]
Buybacking
Uno dei metodi attualmente più utilizzato per aggirare la bassa profittabilità del capitale è il buyback, che consiste nel riacquisto delle proprie azioni da parte delle stesse società che le emettono. I titoli riacquistati vengono assorbiti e quindi cancellati, non potendo le imprese essere azioniste di se stesse. Il valore delle azioni circolanti finisce così per incrementarsi: essendocene meno sul mercato, ciascuna azione dà il diritto al possesso di un pezzo più grande dell’azienda.
In questo modo gli amministratori delle imprese facendo salire il valore delle azioni possono distribuire maggiori dividendi ai propri azionisti e intascare i generosissimi bonus premio stabiliti dai loro contratti. Allo stesso tempo il valore dei listini in cui le azioni di queste imprese sono quotate, continua a gonfiarsi perdendo ogni contatto con le loro reali performance. La linea verde dell’immagine sotto mostra come dal 2009 in avanti l’indice S&P delle aziende più impegnate nel buyback sia costantemente superiore all’indice generale. [10]
Il numero di buyback stocks è aumentato enormemente negli ultimi cinque anni. Nel 2014, le grandi multinazionali hanno speso 553 miliardi di dollari nel riacquisto delle proprie azioni, appena sotto la cifra record di 589 miliardi del 2007. Mentre nel primo trimestre di quest’anno la cifra ha raggiunto il suo livello più alto dai due trimestri precedenti alla crisi del 2007. Dal 2012 più del 50% della crescita degli utili per azione si deve ai buyback. [11]
In questo gioco a nove zeri sono invischiate tutte le grandi aziende diventate simbolo del capitalismo statunitense come Apple, General Motors, McDonald’s, Pfizer, Microsoft, IBM e molte altre. Apple è tra le corporation più attive nel buyback. Il suo programma di riacquisto quest’anno ha toccato i 140 miliardi di dollari. Ma il buyback è un fenomeno ben più esteso. Nel 2014 il 95 per cento dei profitti degli azionisti di queste aziende erano rappresentati dal programma di riacquisto e dal pagamento dei dividendi. Nello stesso anno le 500 maggiori società di Wall Street hanno investito nei buyback circa mille miliardi di dollari, pari al 95% dei loro profitti. Dal 2009, è stato calcolato che 2.3 trilioni di dollari sono stati spesi in buyback. [12]
Come spiegare l’esplosione di questo strumento finanziario non convenzionale?
In due modi tra loro connessi. Da una parte la caduta del saggio di profitto (vedi sopra), e connesso a questo le politiche monetarie espansive delle banche centrali che cercano di far ripartire gli investimenti. Ma gli investimenti, come abbiamo visto, sono ben lontani dal partire e allora ecco che strumenti come il buyback possono servire a far gonfiare il valore dei listini permettendo ad azionisti e amministratori delegati di accaparrarsi profitti derivanti unicamente dalla movimentazione di capitale fittizio.
Oltre a facilitare la formazione di bolle speculative, lo strumento del buyback è molto pericoloso per la stabilità del sistema economico anche per un altro motivo. Il programma di riacquisto è infatti per la quasi totalità finanziato attraverso l’accesso al credito. Le imprese protagoniste del buyback si sono quindi indebitate enormemente per garantirsi dividendi e bonus (vedi l’immagine sotto che descrive il trend del credito ad imprese non finanziarie, fonte: https://research.stlouisfed.org/fred2/).
Questo è stato possibile, come notato più volte, grazie alle politiche di tasso zero delle banche centrali delle più importanti economie mondiali.
Emissione di bond
Negli ultimi anni, tassi di interesse eccezionalmente bassi e una domanda sempre crescente di asset di investimento hanno incoraggiato operatori (istituzionali e non) a emettere bond a lunga scadenza pari a 253 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno, una cifra senza precedenti nella storia dei mercati finanziari. Nello stesso periodo dell’anno scorso, l’ammontare del debito a lunga scadenza emesso era stato pari alla già stratosferica cifra di 188 miliardi.
L’enorme diffusione di questo strumento finanziario suggerisce che gli investitori sono convinti che la crescita globale rimarrà stagnante a lungo. Come darli torto visti i recenti sviluppi asiatici — preceduti già da segnali negativi evidenti che hanno costretto puntualmente il Fmi a rivedere al ribasso le stime di crescita mondiale per il 2015 da 3.5 a 3.3 (dati che probabilmente saranno a breve ridimensionati ulteriormente dopo la debacle cinese).
Dati che alimentano la convinzione che il capitalismo a livello globale sia affetto da fondamentali economici ancora più negativi di quanto traspare, se si considera l’ambiente teoricamente favorevole alla crescita, fatto di bassi tassi d’interesse, bassi prezzi delle materie prime e dalla costante riduzione del costo del lavoro.
Secondo Alberto Gallo di RBS, “Chi prende a prestito denaro lo fa attraverso prodotti a lunga scadenza perché i rendimenti sono molto bassi e questi sono molto bassi perché il mercato vede una prolungata crescita molto bassa davanti a sé caratterizzata da bassa inflazione”. [13]
E vista la domanda e l’offerta crescente di bond a lunga scadenza, operatori pronti ad assumere rischi sempre più alti non mancano. Nonostante un passato segnato da default del proprio debito sovrano, in aprile il Messico è diventato il primo paese al mondo a emettere bond con scadenza a 100 anni, assicurandosi un tasso relativamente basso del 4.2% fino al 2115. Qualche mese prima il Canada aveva rifinanziato il proprio debito pubblico emettendo bond a 50 anni.
Ma i bond a lunga scadenza sono noti per essere strumenti finanziari molto sensibili ai cambiamenti dei tassi d’interesse. Ciò significa che un rialzo dei tassi è potenzialmente capace di provocare un movimento dei prezzi proporzionalmente molto più significativo, rischiando di danneggiare gli investitori che posseggono debito a lunga scadenza nei loro portafogli. Nonostante ciò gli Stati stanno aumentando l’emissione di bond a lunga scadenza posticipando e prolungando il momento critico del rifinanziamento del proprio debito e i grandi gruppi finanziari non demordono dal loro acquisto ponendo sempre di più le finanze pubbliche di interi paesi sotto proprio controllo.
Non è, ad ogni modo, un’operazione a cui si prestano solo gli Stati. Anche i monopoli capitalistici di recente hanno iniziato ad emettere debito a lunga scadenza. A giugno il gigante brasiliano dell’energia, Petrobas, una controllata del governo brasiliano, ha venduto 2,5 miliardi di dollari in debito a 100 anni, nonostante sia attualmente al centro di uno scandalo di corruzione. [14]
Debito mondiale e quello italiano
Non stupisce, dunque, se dal 2007 il debito mondiale sia aumentato di 57 mila miliardi di dollari, ossia circa 25 volte l’intero debito pubblico italiano (fonte: McKinsey). Di questi quasi la metà è composta proprio da debito governativo. In totale il debito pubblico e privato mondiale sfiora i 200 mila miliardi di dollari, pari al 286% del Pil mondiale.
La Cina ha il fardello di debito più pesante. Dal 2007 lo ha visto quadruplicare, da 7mila a 28 mila miliardi di dollari, pari al 282% del Pil. Il problema della Cina, però, non è tanto la dimensione del suo debito, ma il fatto che gran parte del suo debito è legato a settori la cui solvibilità è a forte rischio, come il mercato immobiliare, le banche ombra o gli indebitatissimi governi locali. Se considerato in relazione al Pil nazionale, comunque, il debito sovrano cinese non è certo quello dalla dimensione più preoccupante.
A trovarsi in situazioni ben più difficili sono in diversi. La Spagna, ad esempio, ha un debito che si aggira intorno al 400% del suo Pil, mentre il Giappone è arrivato al 517%. [15]
L’Italia non è in una posizione molto più semplice. Il suo debito complessivo in rapporto al Pil è di 259 punti percentuali, dato che la colloca al dodicesimo posto della classifica dei paesi più indebitati al mondo. Il debito pubblico rimane molto alto, al 130% in rapporto al Pil. Ma, come notato nell’ultimo report sull’economia italiana del Fmi, a preoccupare non è tanto il debito pubblico, che seppur “esposto a diversi rischi rimane sostenibile”, bensì il debito privato delle imprese. I cosiddetti Npl (Nonperforming Loans), ovvero quei debiti ritenuti a rischio default, hanno raggiunto nel 2014 un livello sistemico toccando quota 17% del credito totale, pari a circa 330 miliardi di euro (vedi immagine sotto, fonte: Fmi). Di questi Npl più della metà sono “sofferenze”, cioè in mano a creditori insolventi. [16]
In tali circostanze non stupisce che la domanda di credito sia crollata e che l’offerta sia pressoché scomparsa— nonostante il quantitative easing della Banca Centrale Europea —spingendo gli investimenti privati ai livelli più bassi da 15 anni. Ma senza investimenti, come si è detto in precedenza, non ci può essere crescita.
La situazione italiana
La ripresa italiana di cui tanto si blaterava a inizio anno è stata — come avevamo già cercato di anticipare nello scorso numero di Antitesi [17] — l’ennesimo bluff della borghesia italiana e dei suoi mezzi di propaganda.
Anche il Financial Times, a cui non gli si può certo imputare simpatie marxiste, è stato costretto a riconoscere le persistenti difficoltà della nostra economia. Intervistando il proprietario di un negozio di alimenti, questo è il quadro che emerge della ripresa del Belpaese sul quotidiano economico inglese: “L’economia italiana è in declino e tutti lo sanno. La ripresa è solo nelle chiacchiere della televisione che servono a tenere buona la gente”. [18] Un pessimismo che non può essere ristretto a qualche negoziante in cattive acque, ma che è ben radicato in milioni di lavoratori e nella piccola e media borghesia impoverita dopo un decennio di depressione economica e a sei anni dalla crisi economica e finanziaria più grave dal dopoguerra.
Petya Koeva Brooks, il responsabile della delegazione per l’Italia del Fmi ha recentemente scritto: “Stiamo ancora parlando di una ripresa che è relativamente modesta dato la dimensione degli output persi negli ultimi 5 anni ed è certamente una ripresa che non porterà cambiamenti sostanziali al livello di disoccupazione e di indebitamento pubblico”.
D’altronde, come già si notava nel numero precedente di Antitesi, le uniche e limitate previsioni positive si basavano unicamente su fattori esterni, in particolare il quantitative easing, che mantenendo l’euro a livelli molto bassi sta rappresentando un valore aggiunto per l’export italiano. L’export rimane il settore trainante dell’economia italiana, contribuendo in modo sostanziale alla formazione del Pil. Quest’ultimo, nel secondo trimestre del 2015, è aumentato appena dello 0,2% su base mensile e 0,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Inoltre, la forte dipendenza dall’export rende l’economia italiana particolarmente vulnerabile a shock esterni. Lo scorso anno un impatto negativo l’ha avuto l’escalation del conflitto nel Donbass e le conseguenti sanzioni europee contro la Russia e le controsanzioni di quest’ultima. Quest’anno l’aggravarsi della recessione russa (-4,6% nel secondo trimestre) e il forte rallentamento dei mercati emergenti penalizzeranno con tutta probabilità l’export italiano.
Gli ultimi dati relativi al mese di giugno lasciano intravedere già qualche segnale negativo. Rispetto al mese precedente, il valore delle esportazioni è in flessione (-0,6%). Una flessione determinata dalla diminuzione delle vendite verso i mercati extra Ue (-1,9%), mentre quelle verso i mercati Ue sono cresciute dello 0,5%. Nonostante questo rallentamento, nel secondo trimestre 2015 l’export italiano è cresciuto del 2,1%.
La momentanea congiuntura espansiva sta ora giungendo al termine — gli eventi cinesi ne sono la più immediata manifestazione — senza che i risultati sperati dalla borghesia italiana siano stati ottenuti. L’impatto delle misure espansive iniziate a marzo si sarebbe dovuto già sentire, soprattutto perché queste misure dovrebbero concludersi alla fine dell’anno, a meno che la Bce non decida di prolungarle come già annunciato recentemente da Draghi.
Mentre gli investimenti privati rimangono 30% sotto i livelli del 2008, gli effetti sul mercato del lavoro continuano ad essere del tutto al di sotto delle promesse di Renzi. Tralasciando qui il patetico tentativo del ministero del lavoro di modificare a proprio vantaggio i dati sui nuovi contratti a tutele crescenti attivati nei primi sette mesi dell’anno, il trend è tutt’altro che incoraggiante. Nel periodo indicato le attivazioni di contratti a tutele crescenti sono state 327.758, una cifra a cui si giunge sommando il saldo fra attivazioni e cessazioni (117.498) più le stabilizzazioni (210.260) di contratti da tempo determinato a fissi. Nel complesso nei primi sette mesi del 2015 sono stati attivati 5.150.539 contratti a fronte di 4.014.367 cessazioni, per un saldo di 1.136.171 contratti (di cui dunque meno di un terzo sono a tutele crescenti, il resto è a regime temporaneo). [19]
Conclusioni
Dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni sessanta, il capitalismo internazionale conobbe una fase espansiva generale grazie agli enormi spazi di profitto e rendita aperti dalle distruzioni del conflitto mondiale. Dal 1970 circa questo ciclo si interrompe: la tendenza alla caduta del saggio di profitto si manifesta pienamente e si determina progressivamente la condizione di crisi di sovrapproduzione generale di capitali che stiamo ancora attraversando. Il principale mezzo con la quale il sistema capitalista puntò a recuperare la caduta generale del profitto fu la finanziarizzazione dell’economia, cioè l’utilizzo della leva finanziaria come strumento per incamerare rendite e extraprofitti che, pur fittizi, permettevano l’accumulo di valore in senso nominale.
L’attuale fase della crisi si è però caratterizzata proprio a partire dalla venuta meno di questa leva finanziaria, a partire dal crollo dell’economia americana nel 2007, con l’esplosione della bolla speculativa dei debiti sub-prime. Da allora, nonostante la propaganda massmediatica sull’inizio di una ripresa globale, il capitalismo internazionale versa in una fase di ulteriore aggravio delle sue contraddizioni e i recenti accadimenti cinesi, con tutto ciò che ne deriva e ne è alla base, lo confermano. Il fatto che, attualmente, la condizione di crisi inizia pesantemente a toccare, in termini ufficiali, anche quelle che erano date come le potenze emergenti del nuovo secolo (Cina, Russia, Brasile…) è l’ulteriore conferma della sua stessa natura generale, strutturale e di lungo periodo. Per quanto riguarda, invece, la cosiddetta ripresa che investirebbe oggi gli Usa e, almeno in parte, l’Europa, essa è chiaramente inquadrabile come congiunturale, a breve esaurimento, basandosi principalmente sulla riproposizione di meccanismi speculativi, oltre che sulla momentanea espansione legata alla grande distruzione di capitali negli anni posteriori al 2007. Infatti, da un lato gli shock finanziari stanno in parte contribuendo alla distruzione di capitale, dall’altro la natura fittizia di questo capitale ne permette l’avvio di una nuova riproducibilità fuori da ogni meccanismo di crescita e accumulazione reale. Attualmente si stima che il capitale fittizio mondiale oscilli ancora intorno a una cifra 10 volte superiore il Pil mondiale, e questo nonostante la crisi del 2007 e le recenti turbolenze finanziarie che hanno bruciato miliardi di dollari.
Risulta così sempre più evidente, anche dall’esperienza analitica e storica del movimento comunista, che l’uscita dalla crisi non può che determinarsi se non con lo sviluppo della tendenza alla guerra imperialista e in particolare con un nuovo conflitto mondiale, che massimizzi la distruzione di capitali e di posizioni monopolistiche su scala globale, attraverso lo scontro tra le grandi potenze. Per questo motivo, conflitti che iniziano su scala regionale, come è accaduto per la Siria e l’Ucraina, tendono poi a divenire fronti di guerra mondiale regionalizzata, con l’intervento diretto delle principali potenze imperialiste (Usa, Russia, Francia, Inghilterra, Germania…).
Il corollario della tendenza alla guerra imperialista sono tutta una serie di fenomeni, sul piano economico, non da ultimo il fiorire del mercato militare (le presidenze Obama sono quelle in cui gli Usa hanno venduto più armi dal secondo dopoguerra in avanti), o sul piano politico-sociale globale, come gli innarrestabili flussi migratori dalle zone investite dai processi bellici. La stessa dimensione della guerra tende poi a tradursi a livello macroeconomico, ad esempio con le reciproche sanzioni tra potenze imperialiste, con l’ulteriore spinta ad una rimodulazione produttiva che sia funzionale alla ripartizione dei mercati (vedi, ad esempio, lo sviluppo dello shale gas a produzione statunitense), con il fiorire di posizioni protezionistiche nei mercati globali o all’oramai endemica guerra valutaria globale, che investe sopratutto i rapporti tra Cina e Stati Uniti. Tutti questi fattori, valutati anche alla luce del drastico rallentamento del commercio mondiale, hanno costretto settori di borghesia a porsi l’interrogativo in merito alla fine della strombazzata “globalizzazione”. [20]
L’Ue, in questo scenario, viene ad assumere il ruolo di un vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro, in quanto priva di unitarietà reale di interessi tra le borghesie che l’hanno costituita e alle quali si è estesa e, inoltre, destabilizzata da continue spinte centrifughe le quali, nei rapporti tra gli Stati che la compongono o addirittura all’interno dei singoli Stati (da ultimo l’indipendentismo catalano), ne indeboliscono il disegno strategico centrale. Sul piano internazionale, essa risulta in allineamento obbligato ai disegni della potenza statunitense, sotto permanente ricatto russo sul piano energetico e incapace di tenere testa alla Cina sul piano dell’espansione commerciale, nonostante, come si diceva poc’anzi, l’aggravamento delle contraddizioni del gigante asiatico21. Del resto, l’Ue sorge per affrontare rapporti di forza globali sfavorevoli e non può che puntare a resistervi rilanciando un unitarietà tanto più difficile quanto più necessaria. Al contrario, tocca agli sfruttati d’Europa resistere ad un processo unitario che essi pagano con le loro condizioni di vita, sulla base di una prospettiva proletaria e internazionalista e non borghese e sovranista. Perché il potere degli oligarchi di Bruxelles non è causa della crisi, come dice la destra sovranista o i neokeynesiani, ma è il suo effetto e non si esce positivamente dal disastro sociale e politico che esso produce se non con la lotta di classe, costruendo la linea politica rivoluzionaria della nostra classe.
A otto anni dall’inizio della crisi finanziaria e a sei anni dall’inizio della recessione economica, gli attuali sviluppi del capitale rendono la tendenza alla guerra imperialista una realtà sempre più concreta con cui confrontarsi. La carcassa moribonda del capitale sta camminando sull’orlo di un precipizio fatto di recessione economica e povertà, da un lato, e dall’altro di guerra e distruzione.
Spetta all’azione organizzata degli sfruttati abbandonare questa carcassa moribonda e costruire un sistema sociale dove ai limiti della massimizzazione dei profitti si sostituiscano gli obbiettivi della soddisfazione dei bisogni e dei desideri dell’uomo.
Note:
[1] «China plunges 8.5% triggering global rout», Financial Times, agosto 24, 2015, https://next.ft.com/855d2014-4a30-11e5-b558-8a9722977189.
[2] «World trade suffers biggest fall in 6 years», Financial Times, agosto 25, 2015. https://next.ft.com/fe1df514-4b43-11e5-b558-8a9722977189.
[3] Chao, Loretta, Laura Stevens, «Logistics Stocks Hit Hard in Market Swoon», Wall Street Journal, agosto 24, 2015, par. Business. http://www.wsj.com/articles/logistics-firms-hit-hard-in-stock-market-swoon-1440441400.
[4] «China weakens renminbi amid global reserve currency push», Financial Times, agosto 11, 2015, https://next.ft.com/444c5bc8-3fca-11e5-9abe-5b335da3a90e.
[5] «Bearish bets multiply as China slows», Financial Times, agosto 11, 2015. https://next.ft.com/17c31836-3f6a-11e5-b98b-87c7270955cf.
[6] «China export woes mirrored across Asia», Financial Times, agosto 20, 2015. https://next.ft.com/bf81fa66-456d-11e5-af2f-4d6e0e5eda22.
[7] Roberts, Michael, «Getting out of the Jackson Hole», Michael Roberts Blog, agosto 31, 2015. https://thenextrecession.wordpress.com/2015/08/31/getting-out-of-the-jackson-hole/.
[8] «The emerging market crisis returns», Michael Roberts Blog, agosto 1, 2015. https://thenextrecession.wordpress.com/2015/08/01/the-emerging-market-crisis-returns/.
[9] «Deutsche Bank Sums It Up “The Fragility Of This Artificially Manipulated Financial System Was Finally Exposed”», Zero Hedge, agosto 24, 2015. http://www.zerohedge.com/news/2015-08-24/deutsche-bank-sums-it-fragility-artificially-manipulated-financial-system-was-finall.
[10] «La droga dei buyback», Il Sole 24 ORE, maggio 5, 2015. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-05-05/la-droga-buyback-ingegneria-finanziaria-apple-181153.shtml?uuid=AB2KgyaD.
[11] «Looting Made Easy: the $2 Trillion Buyback Binge», Counterpunch, agosto 26, 2015. http://www.counterpunch.org/2015/08/28/looting-made-easy-the-2-trillion-buyback-binge/.
[12] Blodget, Henry, «Now it’s time to think about what will happen when companies stop buying back so much stock…», Business Insider, agosto 5, 2015. http://www.businessinsider.com/stock-buybacks-and-stock-prices-2014-8.
[13] «Record $253bn in long-dated debt issued this year», Financial Times, agosto 9, 2015, https://next.ft.com/3e7a32a8-3d2a-11e5-bbd1-b37bc06f590c.
[14] Ivi
[15] «Debt and (not much) deleveraging», McKinsey Global Institute, 2015. http://www.mckinsey.com/insights/economic_studies/debt_and_not_much_deleveraging.
[16] Fmi, «Italy. IMF country report No. 15/166», 2015. http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2015/cr15167.pdf.
[17] http://www.tazebao.org/2015-anno-svolta-economica/.
[18] «Italy: Back on its feet», Financial Times, maggio 28, 2015, https://next.ft.com/7815f214-0453-11e5-95ad-00144feabdc0.
[19] «Contratti, Ministero corregge dati: dimezzati quelli stabili in più nei primi 7mesi», Il Sole 24 ORE, agosto 26, 2015,
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-08-26/lavoro-ministero-corregge-dati-328mila-posti-fissi-7mesi
[20] Cfr. «What if we’ve reached peak globalisation?», The Guardian, settembre 28, 2015, http://www.theguardian.com/sustainable-business/2015/sep/28/peak-globalisation-have-we-reached-it-uk