Tanto rumore per nulla?
“Editoriale” da Antitesi n.00 – pag.10
2015: l’anno della svolta economica?
Per la borghesia italiana il 2015 sarà l’anno della svolta. Per Marchionne il 2015 sarà: “l’anno della svolta … Il governo Renzi ha già fatto moltissimo … le cose si vedono”. Anche per il Ministro dell’economia Padoan il 2015 sarà: “l’anno in cui tutti i Paesi avranno una crescita positiva. Sarà un anno di svolta”. Ancora più euforico l’amministratore delegato di Intesa San Paolo, Carlo Messina: “Il dollaro che sale e il petrolio che scende, il Qe in arrivo. E poi l’Expo: il 2015 sarà l’anno della ripresa.”[1]
Più di recente anche alcuni piuttosto oscuri indicatori di fiducia economica sembrano puntare sul 2015 come l’anno di svolta. Il Think Thank’s leading indicator per la zona euro, un indicatore che dovrebbe registrare i momenti di svolta economici, è cresciuto di 0,1 punti su base mensile prefigurando un’imminente ripresa economica. Crescite nell’ordine dello 0,2-0,3 si sono registrate per le principali economie europee. In particolare, l’Italia fa registrare una crescita di 0,3 punti.[2] L’indicatore della fiducia economica della Commissione europea è cresciuto di 1.6 punti a 103.9. Il morale tra gli operatori economici è cresciuto da 0.14 a 0.23. L’Italia ha registrato il balzo in avanti di fiducia più marcato, aumentando di 2.4 punti il proprio indicatore, seguita da Germania, Spagna e Olanda.[3]
L’Istat conferma questa crescita di confidenza economica. L’indice di confidenza del settore manifatturiero è cresciuto dai 100.5 punti di febbraio ai 103.7 di marzo. Questo è il livello più alto dal giugno 2011. Secondo l’ente statistico nazionale, anche la confidenza dei consumatori è aumentata, passando a 110.9 punti dai 107.7 di febbraio, raggiungendo il livello più alto dal maggio 2012.[4]
A fare da contraltare a queste più che rosee previsioni, è stata una serie di commenti sullo stato di salute dell’economia globale ed europea rilasciati da importanti istituti finanziari internazionali. “Finora i sondaggi sulla fiducia e la confidenza economica sono stati corrisposti da indicatori economici reali insoddisfacenti”, ha dichiarato Riccardo Barbieri Hermitte, chief European economist alla Mizuho International Plc di Londra. Ad aggravare l’incerto scenario è stata l’agenzia internazionale dell’energia avvertendo che l’impatto netto del basso prezzo del petrolio “sarà più modesto di quanto finora prospettato” a causa di un persistente “mal di testa da ubriacatura” (hangover) frutto della crisi finanziaria del 2008 e di un basso livello di investimenti.
A compromettere ulteriormente le ottimistiche prospettive di crescita sbandierate dalla borghesia italiana è stata Moody’s, la nota agenzia di rating, affermando in uno dei suoi esclusivissimi report per i soci (il costo di ogni report si aggira intorno ai 550 dollari!) sulle prospettive di investimento che: “nella zona euro … la caduta del prezzo del petrolio avviene in un ambiente economico sfavorevole” determinato da livelli molto alti di disoccupazione, uno scenario politico incerto, e perduranti politiche economiche e fiscali deflattive. “In questo contesto – conclude il report – una larga parte del reddito che verrà accumulato grazie al basso prezzo del petrolio verrà risparmiato anziché speso.”[5]
È il caso quindi di interrogarsi sui facili entusiasmi che hanno caratterizzato il contesto economico italiano in questi primi mesi dell’anno e comprendere se e fino a che punto sono giustificati, o se invece non ci troviamo di fronte all’ennesimo tentativo della borghesia italiana di auto adempiere ad una propria profezia.
Il tesoretto: “arma di distrazione di massa”
La sensazione è quella di trovarci di fronte al secondo dei due scenari ipotizzati. Il governo Renzi sembra, in altre parole, impegnato in una massiccia campagna mediatica di “distrazione di massa” che coinvolge gran parte dei media mainstream e che ha l’obiettivo di convincere mercati e consumatori (leggi, lavoratori) sulla bontà delle condizioni economiche del nostro paese. Un paese non più retto sull’economia reale fatta di stabilimenti industriali, magazzini, rivenditori, merci, lavoratori e lavoratrici che diventano a loro volta consumatori. Bensì un paese fondato su un’economia della promessa, verrebbe da dire.
E se nell’impianto del Jobs Act e della gestione del lavoro in Expo – il primo utilizzo massificato dei principi del Jobs Act – la promessa si declina in promessa di un futuro posto di lavoro un po’ meno precario; nel Def e nelle rosee prospettive di crescita economica di questa prima parte dell’anno, la promessa assume la forma di una crescita economica imminente e prolungata.
Un esempio eclatante che svela questo meccanismo, è il recente caso del cosiddetto “tesoretto” nelle disposizioni del governo. Di che cosa si tratta? A seguito della pubblicazione del Def, il governo, grazie alla crescita dello 0.1 % del Pil nel primo trimestre del 2015, annunciava di essere in possesso di 3 miliardi di euro, il famoso “tesoretto”, di circa lo 0,1 % del Pil, qualcosa in più rispetto a quanto precedentemente previsto e che si intende investire in “misure per la crescita”.[6]
In realtà quei 3 miliardi di euro non ci sono: sono debiti che l’Italia sta ripagando ai suoi creditori. Sono il differenziale, indicato nel Def, tra l’obiettivo programmatico di un rapporto deficit/Pil a 2,6% e un tendenziale di 2,5%. Da qui quello 0,1% di Pil che si potrebbe spendere. Ma è tutta roba di carta, numeri astratti e potenziali. Promesse, appunto.
Ed è bene ricordare che nell’ultimo decennio tutte le stime sul Pil effettuate dai governi nel Def/Dpef – sempre prudenziali – sono state inesorabilmente riviste al ribasso al momento del consuntivo di fine anno.[7] Più nel dettaglio, si è calcolato che se dal 2008 le annuali previsioni governative sul Pil italiano fossero state corrette, nel 2014 avremmo avuto un Pil superiore del 14,2% a quello poi effettivamente registratosi. 14,2% vuol dire circa 227 miliardi, giusto per avere un’idea della portata degli errori non solo dei governanti, ma anche e prima ancora dei cosiddetti “tecnici”.[8]
Andiamo però per ordine e osserviamo più da vicino gli elementi che hanno fatto gridare la borghesia alla bramata svolta. Sono sei: 1) la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, 2) il basso prezzo del petrolio, 3) l’inizio del Quantitative easing da parte della Bce, 4) l’approvazione delle “riforme strutturali” del governo Renzi, in particolare il Jobs Act, 5) le opportunità offerte dall’Expo di Milano, e 6) uno scenario economico generale ritenuto positivo.
Partiamo dalla corsa al ribasso dell’oro nero (vedi grafico sopra). I prezzi del petrolio sono scesi di 3.8 punti percentuali in marzo, scambiato ad una media di 52.8 dollari al barile. L’offerta di greggio rimane abbondantemente sopra il livello della domanda con grandi riserve di petrolio rimaste invendute, soprattutto negli Stati Uniti. In generale il greggio rimane ai suoi livelli minimi dell’ultimo quinquennio.[9]
In condizioni normali il calo del greggio è una notizia positiva per la crescita economica di un paese esportatore di prodotti finiti e semilavorati come l’Italia: la flessione aumenta i redditi reali dei consumatori e i profitti delle imprese nei paesi importatori, come l’Italia e le altre economie euro; la spinta sulle loro domande interne più che compensa il regresso dell’export verso i paesi fornitori di energia e traina la crescita del Pil.
Di fatto però l’economia europea, e quella italiana in particolare, da alcuni anni non opera più in condizioni normali, si trova nell’eccezione. L’inflazione è a zero, negativa in diversi paesi; i tassi di interesse della Bce sono anch’essi a zero, il limite minimo possibile. Inoltre in Italia e in gran parte dei paesi euro è in corso un processo di riduzione del debito da parte dello stato e del settore privato. In queste condizioni, l’ulteriore impulso al ribasso sulla dinamica dei prezzi, fornito dal petrolio, rischia di abbattere ancor più le aspettative di inflazione, facendo aumentare i tassi di interesse reali e causando, così, effetti depressivi.
Accanto a ciò, il nuovo calo dell’inflazione accresce il valore reale dei debiti e il peso (reale) degli interessi (lì dove non sono indicizzati), spingendo stato e privati a intensificare l’azione di deleveraging (riduzione del debito), anche in questo caso con impatti depressivi per l’economia.
A corollario di queste considerazioni resta poi un interrogativo di fondo che riguarda il lato positivo del calo petrolifero. Occorre domandarsi quanto del maggiore potere d’acquisto, consentito dal greggio meno caro, verrà effettivamente speso dai beneficiari, date l’incertezza e la propensione ad accantonare risorse in impieghi sicuri che contraddistinguono la fase attuale.
Il rialzo del tasso di risparmio, in atto dal 2012 e ora tornato ai livelli del 2004, rivela un atteggiamento delle famiglie volto alla salvaguardia delle proprie disponibilità e alla ricostituzione dei livelli di risparmio e ricchezza erosi negli anni precedenti; il dato del terzo trimestre 2014 di consumi praticamente fermi, a fronte di un incremento dei redditi reali delle famiglie, non fa che confermare questa tendenza.[10]
Il Quantitative easing
Guardiamo ora alla seconda “manna dal cielo” per la borghesia italiana, l’ormai noto Quantitative easing della BCE. Il Qe, già perseguito con decisione dalle altre principali banche centrali è stato contemplato, infine, anche dalla Bce: acquisti significativi e prolungati nel tempo di titoli pubblici e privati nel mercato secondario. Il Qe dovrebbe conseguire quel che non si è riusciti a fare con lo strumento di politica monetaria convenzionale: abbassare i tassi di interesse reali, creando inflazione e soprattutto aspettative di inflazione. In altre parole, facilitare la trasmissione di denaro dalle banche alle imprese.
La logica della manovra monetaria è chiara: comprano titoli di stato (lo “strumento più liquido del mercato”) per far salire i prezzi relativi e comprimere drasticamente i rendimenti e quindi incentivare le banche o gli investitori a vendere questi titoli e far girare la liquidità. La speranza, l’ennesima promessa, è che questa circolazione aumentata venga utilizzata dalle imprese per riprendere gli investimenti e le famiglie a spendere per consumi.
Un’iniezione di 1.000 miliardi (pari a circa 80 al mese) fino a settembre 2016. I nuovi acquisti di titoli verranno garantiti dai bilanci delle Banche centrali nazionali per l’80 %, e dalla Bce per il rimanente 20. Poiché, secondo le regole vigenti, la Bce già garantisce direttamente l’8 % di tutte le operazioni effettuate dall’Eurosistema, e le Banche centrali il rimanente 92, l’innovazione introdotta con il Qe è che la Bce integra la sua garanzia solo del 12 %, non del 20.
Questo si traduce in un’iniezione di base monetaria attraverso il canale dell’acquisto di titoli di stato che vedrà la Banca d’Italia impegnata per acquisti pari a 130 miliardi. Ciò ha due conseguenze. In primis mina il bilancio di Palazzo Koch impegnando – in maniera obbligatoria, pare – le riserve ufficiali anche auree. E impedisce in futuro allo stato italiano ogni genere di rinegoziazione o di dichiarazione di default del proprio debito senza determinare gravi conseguenze anche per la sua Banca centrale.
Come sintetizzato in termini estremi dall’economista Paolo Savono, ex Ministero dell’economia, ex Banca d’Italia, non certo affine al movimento comunista: “Il Qe funziona come un’ulteriore bardatura che impedirà al paese scelte diverse da quelle di stare in Europa, obbedendo a Berlino-Bruxelles a rischio di trasformarci in colonia politica”.[11]
Inoltre il Qe corre il rischio di diventare anche un’ottima occasione per banche e investitori istituzionali per una grossa operazione di whitewashing, di pulizia dagli junk asset in portafoglio, titoli e prodotti finanziari considerati spazzatura, che potrebbero rientrare all’interno delle operazioni di acquisto delle banche centrali. Queste infatti ogni mese acquisteranno titoli di stato dei paesi dell’eurozona per 40 miliardi e per i restanti poco più di 20 miliardi acquisteranno “prodotti derivati”: asset backed securities, titoli speculativi impacchettati da banche di investimento private.[12]
A questi risvolti di cui poco o nulla si è dibattuto nei media mainstream, è necessario anche considerare la reale efficacia economica di tale iniezione di liquidità. Come è noto la definizione dei criteri del Qe sono stati al centro di una battaglia diplomatica che ha visto in particolare Germania e Olanda impegnate a limitare la portata dell’operazione finanziaria. La resistenza tedesca, giustificata come preoccupazione che il Qe allenti la pressione a risanare sui paesi periferici, ha in realtà l’intenzione di bloccare o rendere sostanzialmente inefficace l’operazione.
Secondo valutazioni basate sull’esperienza di Qe statunitense e inglese, i poco più di 60 miliardi di acquisti al mese sarebbero un intervento adeguato per l’area euro, con un‘inflazione intorno al 2%. Un simile programma risulterebbe, invece, insufficiente nella situazione di inflazione negativa nella quale ci troviamo. In questo caso occorrerebbero interventi ben più consistenti, nell’ordine dei 100 miliardi e più di euro al mese. Per la recessione italiana un simile programma sarebbe un fattore importante anche se non decisivo, essendo una misura studiata per la situazione media dell’area euro da cui l’Italia si discosta in negativo. Dubbi sull’efficacia del Qe accomunano giornali “prestigiosi” come il New York Times, come altrettanto “prestigiosi” centri di ricerca come Norisma.[13]
A preoccupare è anche l’effetto distorsivo del “Qe”, che abbassando tassi e rendimenti, costringe gli investitori ad alzare l’asticella del rischio per ottenere un rendimento finanziario. Quindi, così come per i fondi pensioni, anche i piccoli risparmiatori rischiano di avere un portafoglio sbilanciato in asset class più rischiose, come le azioni o titoli di paesi ritenuti rischiosi, che sono i due prodotti finanziari che stanno beneficiando di più dal Qe.[14]
Così il fondo sovrano dell’assistenza sanitaria norvegese, con una disponibilità di 870 miliardi di dollari, questo mese ha inserito in portafoglio titoli nigeriani e ha aumentato le quote di compagnie con una situazione finanziaria considerata rischiosa, a livelli rimasti ineguagliati dal 2006. Allianz SE, la compagnia assicurativa più grande d’Europa, sta riorganizzando il proprio portafoglio vendendo bund tedeschi e acquistando azioni di compagnie di credito immobiliare, in altre parole compagnie specializzate nei mutui. Infine, l’asset managment di JP Morgan sta comprando il debito di compagnie con un rating molto basso, solitamente prodotti su cui gli speculatori si concentrano, nel dichiarato sforzo di aumentare i rendimenti.[15]
“Riconosciamo che investire in mercati di frontiera ci costringe ad affrontare un rischio più alto” ammette Gruber, un operatore che supervisiona un fondo di 615 miliardi di dollari, ma: “comprare titoli a lunga scadenza con rendimento negativo, significa avere solo effetti negativi per i propri rendimenti senza vedere mai degli aspetti positivi.”.
E che le principali borse mondiali siano ormai da qualche anno tornate ai livelli pre-crisi continuando la loro irrefrenabile crescita, non è certo una novità. Il Nasdaq a Wall Street è avanzato di 3.5 punti percentuali negli ultimi tre mesi, raggiungendo i 5000 punti per la prima volta dal marzo 2000, a culmine del nono quadrimestre di crescita consecutivo, il periodo di crescita più lungo dalla creazione del listino nel 1971.
Soffermiamoci per un attimo su questo grafico. La linea blu segue l’andamento del Dax, che è l’indice borsistico di Francoforte. Indice che è uno dei principali termometri di salute del mercato borsistico globale. La linea rossa segue, invece, l’andamento del Baltic Dry Index che è l’indice dell’andamento dei costi del trasporto marittimo e dei moli delle principali categorie delle navi dry bulk cargo. Il Baltic Dry Index è reputato un indicatore fondamentale della salute dell’economia mondiale. In un’economia globalizzata infatti i traffici marittimi sono essenziali anche solo per permettere di assemblare merci che divengono tali a volte solo se riuniscono componenti di 80 paesi diversi.
Nel 2015 l’indice Dax è ai massimi, il Baltic Dry Index ai minimi. Cosa significa?
Il significato è che la liquidità messa in circolazione dalle banche centrali, che promuovono l’acquisto di debito pubblico, sta gonfiando gli indici borsistici come il Dax che, in assenza di dati sull’economia reale che giustifichino quella crescita, dati che del resto se presenti aumenterebbero anche il valore del Baltic Dry Index, può avere solo un significato: bolla finanziaria.[16]
E i rischi di uno scoppio dell’ennesima bolla speculativa sono riconosciuti da più parti. Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale, ha ammesso che “il pericolo è che le vulnerabilità che si sono venute a creare durante un periodo di politiche monetarie molto accomodanti [leggi tassi negativi e Qe, NdA]possano improvvisamente liberarsi quando tali politiche vengono ritirate creando una volatilità significativa [leggi scoppio di una bolla finanziaria, NdA]”.[17] Ma non sono solo impressioni.
L’indice della Bank of America che misura la vulnerabilità del mercato mondiale dei bond, ha raggiunto i suoi picchi storici.[18] Merryll Lynch ha recentemente comunicato i risultati del sondaggio che periodicamente conduce tra gli investitori dal quale è emerso che il 25% degli intervistati si è detto convinto che il mercato azionario globale è sopravvalutato. L’ultima volta che uno su quattro aveva lanciato l’allarme bolla sul mercato azionario risale al 2000, l’anno dello scoppio della bolla delle società internet a Wall Street.[19] A confermare impressioni e dati è giunto infine Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, che nel suo ultimo report ai soci ha ammesso candidamente che: “una nuova crisi sta per abbattersi sui mercati finanziari.”[20]
Guardiamo ora, più nel dettaglio, cosa si cela dietro il crollo del Baltic Dry Index, la linea rossa del precedente grafico, o in altre parole, l’andamento dell’economia globale.
In uno dei suoi ultimi report sullo stato di salute del capitalismo mondiale nel 2015, il Fmi è giunto a due importanti conclusioni. Primo, riconosce il fatto che il capitalismo globale rimarrà in depressione. Una larga parte del potenziale produttivo perso durante la crisi può essere considerato definitivamente perduto ed è improbabile che politiche convenzionali siano in grado di ristabilire il livello di investimenti a trend pre-crisi. La crescita del Pil nei paesi avanzati si assesterà intorno al 1,6% di media nei prossimi cinque anni, un valore che rappresenta la metà della crescita media nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale.
La seconda conclusione a cui giunge il Fmi è che la ragione della crescita lenta e asfittica è stata il crollo degli investimenti in particolare degli investimenti in settori produttivi. Questi investimenti nelle economie avanzate sono stati nel periodo 2008-2014, il 13% più bassi di quelli previsti nel 2007, prima dell’inizio della crisi. Queste sono le conclusioni a cui giunge anche un recente report della Bank of International Settlements (Bis) aggiungendo che: “l’incertezza degli andamenti economici e le prospettive di profitti futuri giocano un ruolo chiave nel guidare gli investimenti, mentre gli effetti delle condizioni finanziarie sono apparentemente limitati.” La Bis, per intenderci, smentisce l’idea comune del pensiero economico dominante, che la causa dell’assenza di crescita economica e investimenti sia la difficoltà di accedere al credito a buon mercato: sia quindi un problema di politiche monetarie.
Le imprese, scrive la Bis, hanno realizzato che il profitto derivante dai propri investimenti nell’economia reale – ovvero investimenti in hi-tech e ricerca e sviluppo – “non eccede il costo derivante dal rischio associato a quel tipo di investimento o il ritorno che garantirebbe investire nel mercato finanziario.”. Per questo motivo, le imprese non stanno concentrando le loro aspettative di profitto, e di conseguenza i loro investimenti, nell’economia reale, e non lo farebbero “anche se fossero relativamente ottimisti sui trend positivi della domanda”.[21]
La conseguenza è che imprese e istituti finanziari preferiscono investire in prodotti finanziari, come i titoli di stato, piuttosto che investire in settori produttivi. Così oggi ci troviamo nella situazione paradossale in cui i titoli di stato sono acquistati nel mercato azionario a tassi negativi, ossia comprati a prezzi così alti che l’interesse maturato dal titolo non ripagherà i suoi costi. E questo non accade solo con titoli relativamente sicuri come i bund tedeschi, ma anche per titoli spagnoli, irlandesi e italiani. Nel caso italiano, poi, il fatto assume tratti ancora più paradossali. In dicembre, Standard&Poor’s, la più importante agenzia di rating del mondo, ha abbassato il giudizio sui titoli italiani di lungo termine a BBB-, un livello prima del livello “spazzatura”.[22] Osservando i dati sull’economia reale italiana è difficile poter darvi torto.
L’economia italiana ha da qualche mese concluso il suo terzo anno di recessione consecutivo e di stagnazione anche nell’ultimo trimestre del 2014, il quattordicesimo trimestre consecutivo senza crescita, frutto di una crescita delle esportazioni controbilanciata da una debole domanda interna. Su base annuale il Pil si è contratto del 0,4%, il terzo anno consecutivo di recessione dopo il -1,9% del 2013 e il -2,3 del 2012.[23]
Nel primo trimestre 2015 si è registrato un rimbalzo dello 0,1%, ma la disoccupazione è rimasta molto alta: al 12,7% totale e al 42,6% di disoccupazione giovanile.[24] Soprattutto l’Istat dice, pubblicando i dati della produzione industriale nel mese di febbraio, che rispetto a gennaio c’è stato un calo dello 0,2% (tenendo conto dei giorni effettivi lavorati), e addirittura dell’1,1% nei primi due mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2014. In termini tendenziali, c’è piena conferma dell’andamento recessivo non appena si guarda ai diversi comparti: gli aumenti si registrano nell’energia (+3,5%) e nei beni strumentali (+2,0%); diminuiscono invece i beni intermedi (-2,8%) e, in misura più lieve, i beni di consumo (-1,4%).
E dire che, per motivi legati alla ripresa del mercato europeo dell’auto, i dati relativi alla fabbricazione di mezzi di trasporto sono volati addirittura del +16,3%. Una cifra (anche considerando l’importanza che ancora ricopre il settore auto sul totale della produzione italiana) che tiene quasi a galla tutta la produzione industriale. Altrimenti sarebbe un disastro. Le diminuzioni maggiori si registrano infatti nei settori dell’attività estrattiva (-13,4%), delle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-7,7% in quello che dovrebbe essere uno dei settori di punta del Made in Italy) e della metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-4,9%).[25]
Questo non è un dato congiunturale, bensì strutturale e tendenziale del capitalismo italiano. L’industria ha subito un ridimensionamento di base produttiva senza precedenti nella storia italiana, se si fa eccezione per le distruzioni della Seconda guerra mondiale. Il nostro paese ha perso, dall’inizio della crisi, poco meno del 10% del Prodotto interno lordo, il 25% della produzione industriale, il 30% degli investimenti.[26] Ci troviamo nella peggiore crisi dopo l’unità d’Italia: peggiore di quella del 1866, e peggiore di quella del 1929.[27] La perdita di capacità produttiva tra il 2007 e il 2014, è stimata in circa il 18%, tre quarti derivante dalla seconda fase di aggravamento della crisi, quella dei debiti sovrani. Insomma, nel periodo di cosiddetta austerità in Italia si sono prodotti più danni della gravissima crisi finanziaria post Lehman Brothers del 2008.
Dato ancora più preoccupante è che tra il 2008 e il 2012 le imprese manifatturiere esportatrici sono diminuite di circa 4.000 unità (da 91.600 a 87.600, -4,4%). Il grosso di questa erosione si è verificata nel 2009, ovvero nel corso della prima recessione provocata dal collasso del commercio internazionale. Questo processo però non si è interrotto quando la domanda mondiale è ripartita. Piuttosto si è avuto un nuovo ridimensionamento delle imprese esportatrici in occasione della seconda recessione (-1.400 unità tra il 2010 e il 2012), cioè in un periodo di drastica contrazione del mercato interno che non avrebbe dovuto dare luogo a perdite nella popolazione degli esportatori.
La caduta del potenziale manifatturiero ha avuto una valenza tanto estensiva, con la diminuzione del numero di imprese operative, quanto intensiva, con il ridimensionamento in media della capacità produttiva di quelle che hanno continuato a operare. La riduzione di potenziale è andata, dunque, oltre il processo di pulizia dei segmenti inefficienti (insito in ogni recessione), finendo col coinvolgere un numero eccessivo di produttori e col colpire la capacità di produzione anche delle imprese potenzialmente in grado di rimanere operative.[28]
La produzione potrà crescere solo se ritorneranno gli investimenti, ammonisce la Bis nel report di cui si diceva sopra, ma il tasso italiano di accumulazione degli investimenti nel biennio 2012- 2013 è crollato del 13%. Non si è arrestato, il tasso, semplicemente è crollato a livelli mai visti dalla storia dell’unità d’Italia. Inoltre gli investimenti potrebbero ulteriormente decelerare a causa della persistente sovracapacità produttiva. Insomma si è perso il 25% della produzione industriale, ma potrebbe non bastare: un nuovo ciclo di investimenti si avrebbe, a questo punto, con la perdita di almeno il 40% della capacità produttiva.[29]
I modi per accrescere la competitività, in fondo, sono essenzialmente tre. Svalutazione della moneta, svalutazione dei salari (la cosiddetta svalutazione interna) e miglioramento della produttività del lavoro per mezzo di investimenti. La moneta unica ha introdotto un vincolo che impedisce di adoperare il primo modo, la crisi e la caduta del saggio di profitto hanno inibito gli investimenti privati e le politiche di austerity hanno introdotto un ulteriore vincolo che impedisce che siano effettuati investimenti pubblici, e quindi anche il terzo modo è precluso. Il risultato è che per competere alla borghesia italiana non resta che il secondo modo: la svalutazione dei salari, ossia la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto – e per recuperare il differenziale competitivo con la Germania attraverso la svalutazione interna, i salari dovrebbero diminuire a seconda delle stime del 20-30%.[30]
Il Jobs Act, la riforma del lavoro del governo Renzi,[31] è di fatto una misura di svalutazione interna, una manovra di deflazione salariale. E sempre più dati empirici ci confermano quanto, facendo ricorso ad alcuni semplici assunti della teoria di Marx, era stato possibile prevedere ampiamente.[32]
Guardiamo cosa è accaduto dall’approvazione del Jobs Act e i famosi contratti “a tutele crescenti”. Qualche settimana fa l’azienda di call center Call&Call di Cinisello Balsamo annuncia la chiusura dello stabilimento e il licenziamento di 186 lavoratori. L’idea è semplice e descrive l’essenza della riforma del lavoro di Renzi. Chiudere lo stabilimento alle porte di Milano, mandare a casa 186 persone e nel frattempo assumerne altre fra Roma e la Calabria, approfittando delle agevolazioni previste dalle nuove norme inserite nel Jobs Act. Ottenendo così un doppio risultato: prendere giovani con contratti meno costosi e più precari e ottenere gli sgravi fiscali del governo.[33]
Intanto, i lavoratori del turismo (settore ritenuto di punta dal governo Renzi) protestano contro l’introduzione della Naspi, la nuova assicurazione sociale per l’impiego, che dal 1° maggio prossimo che dal 1 maggio dimezza la durata e il valore del sussidio di circa 250 mila lavoratori stagionali del turismo. Con il Jobs Act, i lavoratori degli appalti sono trattati come se non fossero di nessuno, senza il diritto al reintegro a ogni subentro, indipendentemente dall’anzianità maturata. Gli effetti del Jobs Act saranno “devastanti soprattutto nelle realtà del Sud, dove i lavoratori del turismo vivono principalmente di stagionalità”, denunciano i sindacati.[34]
Negli stessi giorni veniva resa pubblica un’indagine secondo cui il mutuo per i lavoratori con contratti a tutele crescenti, costerà un ottavo – il 12 % – in più rispetto a chi ha un contratto a tempo indeterminato vecchia maniera. Finché, infatti, le banche non potranno stimare il fattore di rischio del nuovo contratto – e cioè la percentuale di licenziamenti – faranno pagare quest’incertezza direttamente ai lavoratori a tutele crescenti.[35]
Nulla di nuovo. È da decenni che il movimento di classe denuncia come l’introduzione di politiche di liberalizzazione dei licenziamenti (perché di questo infine si tratta, il contratto “a tutele crescenti”) abbia il solo fine di aumentare il saggio di sfruttamento sui lavoratori, precarizzandone ulteriormente le condizioni di vita e favorendo così la crescita di disuguaglianze economiche e povertà.
A riconoscerlo ormai sono anche ricerche condotte nelle roccaforti del capitalismo. In un recente saggio della Banca d’Italia si è riscontrato come la rapida espansione della precarietà contrattuale tra gli anni novanta e i duemila ha “aumentato le difficoltà al passaggio ad una migliore condizione lavorativa” aumentando la dipendenza economica nei confronti delle famiglie di origine e incrementando la disuguaglianza economica e sociale.[36] Il Fmi ha constatato empiricamente che la deregolamentazione del mercato del lavoro non ha effetti positivi sulla produttività e ha invece effetti negativi riducendo i salari e aumentando le disuguaglianze con effetti depressivi sulla domanda interna.[37] Ma il piano oggettivo di contingenza della crisi, così come quello di prospettiva, rispetto alla sua portata generale, strutturale e sistemica, obbliga i padroni a fare come l’uomo che annaspa in acqua, che ad ogni tentativo di emergere sprofonda più sotto.
Guardiamo, infatti, agli unici dati per il momento disponibili sul mercato del lavoro nei mesi in cui il Jobs Act entrava in funzione. I 79 mila occupati in più nei primi mesi 2015 spacciati dal governo erano in realtà 64.637 attivazioni nette che, se sottratte alle cessazioni – cioè le interruzioni del lavoro per licenziamento, dimissioni o altro nello stesso periodo (75.535) – danno un saldo negativo di 10 mila posti di lavoro circa. Altro che ripresa, ha confermato anche l’Istat. Come menzionato in precedenza la disoccupazione è aumentata a febbraio (+12,7%): i giovani tra i 15 e i 24 anni senza lavoro sono aumentati di 34 mila unità. Ci sono più posti fissi nei primi due mesi dell’anno (+20,7%), ma sull’occupazione il saldo è zero. I rapporti di lavoro attivati nei primi due mesi del 2015 sono stati 968.883, appena 13 in più rispetto ai 968.870 dei primi due mesi del 2014 (0,0% la variazione).[38]
Il governo Renzi non sembra per nulla intenzionato a rivedere le sue politiche sul lavoro e anzi in Expo 2015, con la collaborazione del Comune di Milano, della Regione Lombardia e dei sindacati confederali, non solo sta applicando i principi del Jobs Act per la prima volta su larga scala, ma con gli accordi del luglio 2013 e successivi, ha anche introdotto per la prima volta nella legislazione italiana la figura del lavoratore non pagato.[39]
Si tratta di decine di migliaia di volontari che lavoreranno durante i mesi di Expo, divisi in tre gruppi. Il primo gruppo sarà formato da circa 10 mila volontari (erano 18.500 nell’accordo con i sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL del luglio 2013), che saranno rimborsati con un buono pasto al giorno e che dovranno alternarsi in piccoli gruppi, impiegati per due settimane, cinque ore al giorno, in “attività ausiliarie”; in altre parole dovranno ricevere e guidare nella città il flusso di 20 milioni di visitatori attesi, o almeno auspicati.
Il secondo gruppo sarà composto dai “volontari per un giorno” del Comune di Milano che dovranno offrire la disponibilità del proprio tempo per un lunedì a scelta durante i sei mesi dell’evento e lavorare con una delle aziende partner dell’esposizione universale e a quelle aderenti alla Fondazione Sodalitas. In questo stesso gruppo saranno inseriti i mille volontari reclutati dal Touring Club attraverso il progetto “aperti al mondo”. L’obiettivo è quello di coinvolgere mille persone per la “valorizzazione del patrimonio culturale” il cui contributo gratuito servirà a rafforzare l’“offerta culturale” di Milano durante l’Expo.
L’ultimo gruppo è composto dai 140 ragazzi selezionati da Expo nell’ambito del servizio civile. Assisteranno full time le associazioni e le delegazioni dei paesi che parteciperanno all’esposizione universale. Essendo reclutati dal servizio civile riceveranno 433 euro mensili ciascuno per 12 mesi.
Questo è stato il più grande “contributo” finora offerto da Expo in termini occupazionali. Sul fronte del lavoro pagato, i dati infatti sono assolutamente deludenti. Al netto delle cifre roboanti e sempre più ridimensionate man mano che si è avvicinato l’inizio di Expo, ad oggi gli unici numeri reali di cui disponiamo, sono quelli registrati dalla provincia di Milano, che superano di poco i 4.500 posti di lavoro per circa 1.700 aziende. Nel 45% dei casi si tratta di contratti a tempo determinato, mentre i contratti a tempo indeterminato coprono una fetta del 25%. Il maggior numero di assunzioni è avvenuto nel settore delle costruzioni (1.143), mentre il numero più alto di imprese coinvolte riguarda il turismo e il settore della ristorazione.[40]
I movimenti e i collettivi della rete No Expo 2015 hanno sempre denunciato come fantasiose e irrealistiche tanto le iniziali quanto le successive previsioni occupazionali paventate. Invece che una “grande opportunità per il Paese”, descrivono Expo con tre parole, “Debito, precarietà, cemento”. E ora sembra che gli inizino a dare ragione anche alcuni osservatori della borghesia “illuminata” del blog La Voce, che concludendo il loro giudizio sul grande evento, scrivono: “… si ravvisano alcuni effetti positivi sul mercato del lavoro locale, anche se di entità inferiore alle aspettative. Appaiono ancora indefinibili gli effetti che Expo potrà produrre sui settori più innovativi, siano essi dei servizi o dell’industria.”[41]
In conclusione, come ribadiremo meglio più in avanti (vedi sezione terza), aldilà di tutta la propaganda che ci propinano ogni giorno, non c’è ripresa reale, nel sistema capitalista in crisi, che non passi dalla massima distruzione di capitali, creando così le condizioni per un nuovo ciclo di accumulazione. Questa massima distruzione di capitali è la guerra imperialista, che vediamo man mano procedere come fattore principale dell’economia e della politica mondiale.
La “luce in fondo al tunnel” che la borghesia ci indica è il bagliore che esce dai suoi cannoni.
Note:
[1] Il Sole24ore, 11 febbraio 2015.
[2] “OECD Says Euro Zone Economy Accelerating, Wider Picture Stable.” The New York Times, April 9, 2015. http://www.nytimes.com/reuters/2015/04/09/business/09reuters-economy-oecd.html.
[3] “Confidence in Euro Zone Economy Near a Four-Year High.” The New York Times, March 30, 2015. http://www.nytimes.com/reuters/2015/03/30/business/30reuters-eurozone-economy-sentiment.html
[4] “Italy Business and Consumer Morale Both Rise Sharply in March.” The New York Times, March 30, 2015.
http://www.nytimes.com/reuters/2015/03/30/business/30reuters-italy-economy-morale.html.
[5] Le previsioni di Moody’s sono costruite sulla base di un prezzo medio del Brent di 55 dollari al barile nel 2015. “Low Oil Prices Won’t Spur World Growth: Moody’s.” The Financial Express, February 12, 2015. http://www.financialexpress.com/article/economy/low-oil-prices-wont-spur-world-growth-moodys/41882/.
[6] “Italy Sees Extra Leeway for Growth Measures in 2015 Budget-Sources.” The New York Times, April 1, 2015. http://www.nytimes.com/reuters/2015/04/01/business/01reuters-italy-budget.html
[7] Forquet, Fabrizio. “Se il Tesoretto è solo un’arma di distrazione di massa.” Il Sole 24 Ore, April 14, 2015. http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-04-14/se-tesoretto-e-solo-un-arma-distrazione-massa-073305.shtml?uuid=ABp5R5OD
[8] Mazzei, Leonardo. “Il Demagogo.” Antimperialista.it, April 16, 2015. http://www.antimperialista.it/index.phpoption=com_content&view=article&id=3191%3Ail-demagogo&catid=78%3Aitalia
[9] “Commodity Market Monthly.” International Monetary Fund, April 2015. http://www.imf.org/external/np/res/commod/pdf/monthly/040115.pdf
[10] De Nardis, Sergio. “Insidie Petrolifere.” Nomisma.it, January 2015. http://www.nomisma.it/index.php/it/newsletter/scenario/item/745-16-gennaio-2015-insidie-petrolifere
[11] Lo Prete, Marco Valerio. “Atene non conta. Il Trucchetto di Draghi per incatenare l’Italia all’euro.” Il Foglio, February 12, 2015.
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/125523/rubriche/quel-trucchetto-di-draghi-per-incatenare-litalia-alleuro.htm
[12] Conti, Claudio. “Dacci oggi il nostro Qe quotidiano!” contropiano.org, March 6, 2015. http://contropiano.org/economia/item/29519-dacci-oggi-il-nostro-qe-quotidiano
[13] De Nardis, Sergio. “Insidie Petrolifere.” Nomisma.it, January 2015. http://www.nomisma.it/index.php/it/newsletter/scenario/item/745-16-gennaio-2015-insidie-petrolifere
“Analysis-For First Time in Years, Euro Economy Starts Surprising on Upside.” The New York Times, March 4, 2015.
http://www.nytimes.com/reuters/2015/03/04/business/04reuters-europe-economy-poll.html
[14] Lops, Vito. “Effetti del Qe.” Il Sole 24 Ore, April 15, 2015.
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2015-04-14/effetti-qe-cosa-cambia-i-pensionati-122241.shtml?uuid=ABzCKCPD
[15] Worrachate, Anchalee. “No Risk too big as Traders Plot Escape from negative yields.” Bloomberg.com, March 23, 2015.
http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-03-22/no-risk-too-big-as-bond-traders-plot-escape-from-negative-yields.
[16] “Le notizie sulla ripresa economica: caso di abuso di credulità popolare – Senza Soste,” February 28, 2015. http://www.senzasoste.it/nazionale/le-notizie-su-ripresa-economica-caso-di-abuso-credulita-popolare
[17] Conti, Claudio. “La Fed apre le porte allo tsunami finanziario.” contropiano.org, March 19, 2015. http://contropiano.org/economia/item/29757-la-fed-apre-le-porte-allo-tsunami-finanziario
[18] Worrachate, Anchalee. “No Risk Too Big as Traders Plot Escape From, Negative Yields.” Bloomberg.com, March 23, 2015.
http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-03-22/no-risk-too-big-as-bond-traders-plot-escape-from-negative-yields
[19] Franceschi, Andrea. “Per un investitore su quattro c’è una bolla sulle azioni. Ecco perché.” Il Sole 24 ORE, April 15, 2015.
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2015-04-14/per-investitore-quattro-c-e-bolla-azioni-ecco-perche-205141.shtml?uuid=ABvrnKPD
[20] Conti, Claudio. “La Crisi È Finita? No, Sta per Esplodere…” Contropiano.org. Accessed April 11, 2015. http://contropiano.org/economia/item/30163-la-crisi-e-finita-no-sta-per-esplodere
[21] Roberts, Michael. “Low Investment is the cause of Low Growth – Surprise!” The Next Recession, April 8, 2015.
https://thenextrecession.wordpress.com/2015/04/08/low-investment-is-the-cause-of-low-growth-surprise/
[22] Goodman, David. “Italian Bond’s Rating Ignored as Yields Drop to Record.” Bloomberg.com, December 8, 2014.
http://www.bloomberg.com/news/articles/2014-12-08/italian-government-bonds-drop-with-spain-s-after-s-p-downgrade
[23] “Euro Zone Economy Accelerates Thanks to German ‘Thunderbolt.’” The New York Times, February 13, 2015.
http://www.nytimes.com/reuters/2015/02/13/business/13reuters-eurozone-economy.html
[24] http://www.istat.it/it/archivio/154260
[25] Contropiano. “Tutto bene! La produzione industriale continua a calare.” contropiano.org, April 13, 2015. http://contropiano.org/economia/item/30196-tutto-bene-la-produzione-industriale-continua-a-calare
[26] Giacché, Vladimiro. “Euro e Austerity: la tenaglia che ci stritola.” Sinistrainrete. Accessed April 11, 2015. http://www.sinistrainrete.info/europa/3802-vladimiro-giacche-euro-e-austerity-la-tenaglia-che-ci-stritola.html
[27] CER n. 2/2013
[28] De Nardis, Sergio. “Insidie Petrolifere.” Nomisma.it, January 2015. http://www.nomisma.it/index.php/it/newsletter/scenario/item/745-16-gennaio-2015-insidie-petrolifere
[29] Cicalese, Pasquale. “Le larghe intese provocano il crollo dell’economia italiana.” Marx XXI, July 23, 2014. http://www.marx21.it/italia/economia/24351-le-larghe-intese-provocano-il-crollo-delleconomia-italiana.html
[30] Seminario PRC: Crisi, Euro, Europa, Italia – Vladimiro Giacché, 2015.
https://www.youtube.com/watch?v=h9685tX45aY&feature=youtube_gdata_player
[31] Per una trattazione più dettagliata del Jobs Act si rimanda ai contributi specifici presenti in questo numero della rivista.
[32] Giacché, Vladimiro, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Roma, Aliberti, 2012
[34] Sciotto, Antonio. “Italia, Turismo fermo per il contratto. E nel mondo la lotta è #FightFor15.” Il Manifesto, April 15, 2015.
http://ilmanifesto.info/italia-turismo-fermo-per-il-contratto-e-nel-mondo-la-lotta-e-fightfor15/
[35] http://ilmanifesto.info/hai-le-tutele-crescenti-il-tuo-mutuo-costa-di-piu/
[36] Berloffa, Gabriella, Francesca Modena, and Paola Villa. “Changing Labour Market Opportunities for Young People in Italy and the Role of the Family of Origin.” Banca d’Italia, January 2015. http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/temi-discussione/2015/2015-0998/en_tema_998.pdf?language_id=1
[37] Sandbu, Martin. “Free Lunch: The Good, the Bad and the Ugly in Structural Reform.” Financial Times, April 15, 2015.
http://www.ft.com/intl/cms/s/0/e9c6e16e-e349-11e4-9a82-00144feab7de.html#axzz3XNP9F0U7
[38] http://ilmanifesto.info/storia/in-un-anno-di-governo-renzi-loccupazione-e-aumentata-di-13-contratti/
[39] http://www.clashcityworkers.org/documenti/analisi/1947-lavorare-expo-jobs-Act.html#P3
[40] http://www.clashcityworkers.org/documenti/analisi/1947-lavorare-expo-jobs-Act.html#P3
[41] Perrotti, Roberto. “Perché l’Expo è un grande errore | Roberto Perotti.” Lavoce.info. Accessed March 18, 2015.
http://www.lavoce.info/archives/19567/perche-expo-e-un-grande-errore/