La necessità dell’antitesi
“Editoriale” da Antitesi n.00 – pag.1
“Se il problema di identificare teoria e pratica si pone, si pone in questo senso: di costruire su una determinata pratica una teoria che, coincidendo e identificandosi con gli elementi decisivi della pratica stessa, acceleri il processo storico in atto, rendendo la pratica più omogenea, coerente, efficiente in tutti i suoi elementi, cioè potenziandola al massimo, oppure, data una certa posizione teorica, di organizzare l’elemento pratico indispensabile per la sua messa in opera. L’identificazione di teoria e pratica è un atto critico, per cui la pratica viene dimostrata razionale e necessaria o la teoria realistica e razionale. Ecco perché il problema della identità di teoria e pratica si pone specialmente in certi momenti storici così detti di transizione, cioè di più rapido movimento trasformativo, quando realmente le forze pratiche scatenate domandano di essere giustificate per essere più efficienti ed espansive, o si moltiplicano i programmi teorici che domandano di essere anch’essi giustificati realisticamente in quanto dimostrano di essere assimilabili dai movimenti pratici che solo così diventano più pratici e reali”[1].
Gramsci sintetizza e descrive in questa maniera, straordinariamente completa fino a divenire apparentemente complessa, il rapporto tra pratica e teoria secondo la visione generale del movimento comunista.
Proviamo a riferire queste parole al presente e cioè alle condizioni nelle quali ci troviamo ad agire politicamente, come comunisti o, diciamo, aspiranti tali [2].
Potremmo in proposito fare quattro affermazioni.
La prima: l’aggravarsi della crisi del capitalismo è oggettivamente un momento di transizione sia proceda nel senso da noi auspicato sia in quello al quale vogliamo opporci.
Andando ai fondamenti: o il capitale riuscirà a riprodursi come rapporto dominante chiudendo la fase di crisi e ponendo le condizioni per un nuovo ciclo espansivo di lungo periodo – chiaramente a spese del lavoro e dell’intera società e ipotecando il futuro dell’umanità attraverso la guerra imperialista – o il lavoro, o meglio la classe lavoratrice, riuscirà a rovesciarne il dominio e imporre una nuova società. Tutto il movimento che va nella prima direzione, quella reazionaria, e tutto il movimento che va nella seconda, quella rivoluzionaria, con il loro scontro, segnano questa transizione.
La seconda: vediamo svilupparsi nella realtà sociale e politica continue forze pratiche che rispondono, a loro modo, ad una situazione percepita come in movimento oggettivo, cioè in cambiamento. Beninteso, questo cambiamento in una società regolata dalle leggi del capitale significa, nella presente fase di crisi, progressiva e costante erosione delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato. E le suddette “forze pratiche” non sono nient’altro che la resistenza spontanea opposta dal proletariato, nelle forme perlopiù di lotte di difesa di cui troviamo notizia sfogliando qualsiasi giornale locale e, talvolta, quelli nazionali quando esse riguardano settori produttivi importati o una vasta massa di lavoratori oppure si arrivi ad un forte livello di conflittualità.
Tanto per fare un esempio, secondo i dati forniti dalla famigerata Commissione di Garanzia sugli scioperi, nell’anno 2013 – pur percepito come contrassegnato da una certa pacificazione sociale a livello di massa – sono stati proclamati 2338 scioperi nei diversi settori lavorativi sia in ambito nazionale sia locale; una cifra che, peraltro, andrebbe considerata sottostimata perché potrebbe non considerare astensioni improvvisate.
Qui nessuno ha l’intenzione di piegare la realtà per farla aderire alle citazioni: Gramsci parla di forze pratiche “scatenate” e, purtroppo, siamo lontani dal poter utilizzare questo termine per il complesso delle agitazioni e delle mobilitazioni della classe lavoratrice nel nostro paese. Soprattutto se le paragonassimo al livello di lotta espresso in altri anni e in altre fasi, ma anche se le valutassimo rispetto alla portata dell’attacco che essa si trova a subire oggi.
Ma sarebbe cecità politica negare che, negli ultimi anni, milioni di lavoratrici e lavoratori si sono comunque mossi, anche se principalmente in forme compatibili con una pace sociale di fondo e, spesso, perdendo numerose battaglie. Essi hanno dunque costituito delle “forze pratiche”, costrette gioco forza dal procedere della crisi a tentare di arginarla.
Faremmo, però, un torto al senso reale di quanto detto da Gramsci se non considerassimo la conclusione del suo ragionamento sul rapporto tra pratica e teoria quando giunge alla sintesi tra questi due poli, sintesi con la quale la pratica supera i propri limiti che ne impediscono lo sviluppo concreto e la teoria supera la propria astrattezza misurandosi con il concreto. È fondendosi con la “teoria”, intesa in senso più largo come aspetto e rielaborazione soggettiva dell’oggettivo, che le forze pratiche si “giustificano”, divenendo così più “espansive ed efficienti”, cioè in una parola si rafforzano.
Alla luce di questo e riprendendo quanto scritto sopra possiamo intuire il motivo del mancato sviluppo e dei limiti di quelle “forze pratiche” che abbiamo contrassegnato fondamentalmente con il movimento dei lavoratori: la mancanza della “giustificazione” teorica, dell’elemento ideologico-politico incide negativamente nel loro rendersi effettive, nel loro radicarsi, diffondersi e nel loro elevarsi nello scontro con il nemico di classe.
La terza riflessione che possiamo fare è che, se è vero che “la teoria diventa una forza materiale non appena s’impadronisce delle masse” [3], allora oggi, il rafforzamento e lo sviluppo della risposta di massa all’offensiva dei padroni, del loro stato e dei loro governi, deve passare inevitabilmente e principalmente per lo sforzo di analisi e di sintesi politica che i comunisti possono svolgere. L’alternativa immediata, che per larga parte delle masse lavoratrici è già una realtà, è la rassegnazione generalizzata e, al procedere dello scontro di classe, si possono aprire le porte alla mobilitazione reazionaria.
La questione è che le “forze pratiche” oggi si muovono in larga parte nel complesso degli apparati egemonici della classe dominante. Apparati egemonici intesi come fondamenti ideologici, influenza politica diretta e indiretta, strutture organizzate, radicate modalità di gestione democratica e istituzionale del conflitto e così via. Il classico esempio è quello del ruolo della burocrazia sindacale nelle vertenze rivendicative dei lavoratori, ma anche dell’influenza che il ceto politico revisionista e riformista riesce ad esercitare, per conto della classe dominante, su tutto il movimento antagonista, ad esempio su questioni come l’analisi della società, la guerra imperialista, la questione della violenza e così via…
La borghesia imperialista, compresa quella italiana, ha appreso che la controrivoluzione preventiva si rafforza non con l’impedimento totale dello sviluppo delle tendenze di opposizione e antagonismo nella società, ma gestendolo, deviandolo, corrompendolo e dividendolo dall’interno. Si tratta di un’operazione volta a “snervare l’antitesi, a spezzettarla in una lunga serie di momenti, cioè a ridurre la dialettica a un processo di evoluzione riformistica ‘rivoluzione-restaurazione’, in cui solo il secondo termine è valido, poiché si tratta di rabberciare continuamente dall’esterno un organismo che non possiede internamente la propria ragion di salute” [4]. Viceversa, lo scopo della rivista che proponiamo è quello secondo cui “ogni antitesi deve necessariamente porsi come radicale antagonista della tesi, fino a proporsi di distruggerla completamente e completamente sostituirla” [5].
E’ l’antitesi, da materialisti e da compagni e compagne militanti come siamo, non possiamo limitarla alla teoria avulsa dalla pratica reale del movimento di classe, sia nel suo complesso sia nelle varie componenti e singoli fronti, movimento del quale noi stessi siamo parte attiva.
La quarta riflessione, sempre parafrasando Gramsci, è che dovremmo essere capaci di domandarci se quanto abbiamo elaborato teoricamente può essere “giustificato realisticamente”, per capirne la fondatezza, la necessità o l’utilità alla lotta di classe e, se non lo è, dove abbiamo valutato male, cosa ci insegna invece il procedere dei fatti.
Detto in poche parole, vogliamo realizzare una rivista che contribuisca all’antitesi rivoluzionaria del proletariato contro la tesi dominante della borghesia e del suo potere, nella direzione della sintesi del comunismo. Inteso oggi principalmente non come formazione economico sociale che sorgerà inevitabilmente con la soppressione delle classi, ma nel suo senso più immediato ma più profondamente dialettico, come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” [6]. Un movimento reale che deve essere costituito e nutrito da nuovi compagni e compagne, da una nuova leva di comunisti capaci di far politica nel movimento di classe e fra le masse sottraendosi all’egemonia della classe dominante, posizionandosi sulla via della prospettiva rivoluzionaria.
È in tal senso che proponiamo la rivista Antitesi.
La rivista è strutturata in cinque sezioni: Sfruttamento e crisi; Proletariato, classi sociali e lotte; Imperialismo e guerra; Controrivoluzione, repressione e solidarietà di classe; Teoria del proletariato e ideologia borghese.
Si tratta di cinque binomi concettuali che inquadrano in maniera complessiva il procedere dialettico di quanto ci sta attorno. L’ordine non è casuale perché partiamo dalla materia in sé, cioè, a livello sociale, dall’analisi economica, per arrivare alla materia in sé per sé, cioè al movimento delle classi in lotta, per giungere poi al processo di trasformazione della materia, che in politica corrisponde alla guerra, e concludiamo con la sintesi del patrimonio che il movimento della materia politico-sociale, e in particolare del proletariato, ha storicamente prodotto.
Invitiamo i nostri lettori alla critica per aiutarci a progredire e auspichiamo la collaborazione di coloro che condividono un progetto di rivista chiaramente aperto ai compagni e alle compagne intenzionati a “costruire l’antitesi” alla classe dominante, pur affermando, fin d’ora, che il nostro è un lavoro collettivo e di posizionamento politico: vogliamo combattere, innanzitutto nel nostro seno, tendenze liberali, individualiste e settarie.
Sia chiaro, in conclusione, che per costruire l’antitesi bisogna liberarsi dalla tesi e lavorare alla prospettiva della sintesi, quindi bisogna rompere con l’egemonia pratica e teorica della borghesia e costruire le condizioni pratiche e teoriche per l’avanzamento del proletariato; un compito al quale certamente non può adempiere una rivista, ma al quale può contribuire.
“La nostra teoria non è un dogma ma una guida per l’azione” [7]: la teoria del movimento comunista nasce dall’elaborazione dell’esperienza pratica della lotta di classe fin qui condotta e proporla in forma di metodo d’analisi applicato alla realtà odierna significa contribuire a sviluppare la definizione di una guida per l’azione nel presente.
Note:
[1] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, q. 15, § 22, p. 1780, Volume III, Einaudi, 1977, Torino. [2] Nel senso che il comunista non è colui che si professa tale, ma chi punta a sviluppare la capacità di essere “dirigente pratico delle masse nella rivoluzione” (V. Lenin, L’estremismo in Opere Scelte, p. 1445 Editori Riuniti, 1965, Roma). [3] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/criticahegel.htm [4] Gramsci, op. cit., q. 10, § 41, volume II, p. 1328. [5] Ibidem, § 6, p. 1221. [6] Ibidem, § 6, p. 1221. [7] Lenin, Lettere sulla tattica, https://www.marxists.org/italiano/lenin/1917/4/26-tattica.htm#2.