Introduzione
La crisi e la formazione economico-sociale italiana
“Editoriale” da Antitesi n.00 – pag.4
I dati sull’economia e la società italiana parlano chiaro: la recessione prosegue sostanzialmente dal 2011, la disoccupazione è in continuo aumento – a marzo 2015 i disoccupati secondo l’Istat erano 3 milioni e 292 mila – un dato mai toccato dall’unità ad oggi, che arriva ad oltre il 43% per i giovani dai 15 ai 24 anni, coinvolgendo più di un milione e 130 mila famiglie prive di reddito da lavoro. Affronteremo nella prima sezione, il carattere propagandistico e le “gambe corte” dell’attuale cosiddetta ripresa, sbandierata dal governo e da altre fonti borghesi.
I dati numerici dell’incidenza della crisi nel nostro paese vanno letti rispetto alle specifiche e storiche contraddizioni della formazione economico-sociale italiana e, in particolare, sotto tre aspetti:
- l’incidenza aggravata della crisi nel Meridione, per le pregresse condizioni che lo caratterizzano da sempre all’interno del “sistema paese” (fin dall’analisi di Gramsci sulla questione meridionale). Per fare alcuni esempi, i dati reperibili ci dicono che l’occupazione, tra il 2008 e il 2013, è calata del 9% nelle regioni meridionali, contro il 2,4 del Centro-Nord, la disoccupazione è arrivata a quasi il 20%, contro il 9,1%, il Pil è sceso del 13,3 contro il 7% [1]. Gli indici degli istituti e degli organismi borghesi – se non bastasse l’esperienza viva e quotidiana dei proletari meridionali peraltro sempre più costretti ad emigrare al Nord – rappresentano una realtà economico-sociale doppiamente colpita rispetto alle restanti parti del paese;
- il falcidiare, in particolare, le piccole e medie imprese, che in Italia hanno un peso considerevole nei rapporti di produzione e distribuzione. Tra il 2008 e il 2013, il saldo tra piccole imprese nate e quelle che hanno cessato l’attività è meno 134 mila [2]. Basta fare un giro per qualsiasi città per accorgersi delle sempre più numerose serrande abbassate…;
- e, infine, nel declino industriale e finanziario nazionale, cioè, da un lato, nella difficoltà del grande capitale italiano, soprattutto quello legato ai settori produttivi, a resistere agli urti della crisi e alla maggior rapacità dei concorrenti esteri, cioè a sopravvivere come capitale nazionale e a non esser ripartito tra quello di altri paesi imperialisti più forti e solidi [3] e, dall’altro, nella perdita di investimenti produttivi nel nostro paese [4].
Esemplare, da questo ultimo punto di vista, il caso della Fiat: lo storico e principale monopolio industriale italiano tende a deitalianizzarsi, non nel senso che il capitale della società non sia più quello della dinastia capitalistica italiana degli Agnelli, bensì rivedendo i propri assetti di divisione internazionale del lavoro tra gli stabilimenti nei diversi paesi e la propria collocazione finanziaria-borsistica, il tutto sullo sfondo della fusione con la statunitense Chrysler.
Le ricadute della crisi riguardano dunque, come epifenomeni intesi in termini generali e incorporanti le contraddizioni del presente della società italiana: i processi di ristrutturazione-concentrazione del capitale, l’aggravamento della condizione proletaria e la proletarizzazione della piccola e media borghesia. Si tratta di tre tendenze indissolubilmente legate una all’altra: possiamo dire che il primo è fondamentale perché determina gli altri due; il secondo è principale essendo il prioritario effetto del primo sul piano sociale ed essendo quello attorno al quale ruotano le maggiori implicazioni nello sviluppo della lotta di classe; infine il terzo è secondario, essendo in realtà in senso lato compreso, nei suoi prodromi fattuali, dal primo (i piccoli capitalisti soccombono nella ristrutturazione-concentrazione) e confluendo nei suoi effetti nel secondo (i piccoli capitalisti si immiseriscono, in alcuni casi anche entrando nella schiera dei disoccupati e comunque le difficoltà e le chiusure delle piccole e medie imprese producono effetti diretti sul proletariato stesso, con aggravamenti della condizione di lavoro e di remunerazione, se non con il licenziamento).
Lo stato ha il compito di gestire politicamente, per gli interessi della classe dominante, la situazione generale e le situazioni specifiche determinate dal procedere della crisi.
Sul piano delle politiche economiche e sociali, ciò ha significato, negli ultimi decenni, da parte dei vari governi, svolgere l’attacco alle conquiste ottenute dal proletariato e dalle masse popolari nelle lotte passate, dunque tendere ad affossarne la condizione materiale, aprire e garantire sempre più ampi spazi di profitto e di rendita per i monopoli capitalistici dovunque fosse possibile, dal debito pubblico alle grandi opere, e tagliare la spesa pubblica che non sia immediatamente produttiva di profitto e rendita o legarla a meccanismi quanto più possibile funzionali in tal senso (vedi politiche in materia di istruzione, sanità, servizi pubblici…). Ai governi e alle istituzioni politiche-statuali in termini generali è demandato anche il compito di rivedere il sistema del cosiddetto “stato sociale”, quale risultato di sintesi antitetica della lotta del proletariato e dei piani di integrazione sistemica di quest’ultimo da parte della borghesia imperialista, per adattarlo al procedere della crisi, spolpandolo fin dove è possibile, dispiegandone gli strumenti per tentare di lenire l’aggravarsi delle contraddizioni, in modo da dare continuità a quella funzione di integrazione, pur riveduta in tempi di vacche magre e ridotta ad alleggerimento della devastazione sociale prodotta dalla disoccupazione, dalla precarietà e dai bassi salari. Basti vedere che oggi i due più grandi strumenti di contenimento sociale sono da un lato le strutture famigliari, con le vecchie generazioni di proletari che contribuiscono a sostenere, grazie a salari, stipendi e pensioni che consentono un certo accantonamento, la quota enorme di giovani senza lavoro o a lavoro precario e dall’altro lato i sistemi dei cosiddetti ammortizzatori sociali (cassa integrazione ordinaria e straordinaria, mobilità e indennità di disoccupazione) che non a caso il governo Renzi ha proceduto a rivedere con il jobs act per calibrare alla situazione presente e per tagliare risorse.
Lo stesso stato, nella sua “costituzione” intesa come rapporto tra i diversi organi e istituzioni, è obbligato a procedere ad un’opera di automutamento, condotta da parte del potere esecutivo e legislativo, che punta in termini generali ad un potenziamento del momento decisionale rispetto a quello consorziale e di trattativa, in coerenza con gli interessi della classe dominante a politiche incisive, immediate e finalizzate, nel contesto della crisi. È quella che i politologi borghesi chiamano “democrazia governante” e che va a realizzarsi, in Italia, nella trasformazione progressiva della forma di stato da parlamentare a presidenziale, già anticipata peraltro nella personalizzazione dei partiti e delle coalizioni di partiti borghesi verificatasi nella fase della cosiddetta Seconda Repubblica. A fianco di tale mutamento nella struttura e nel funzionamento generale dell’ordinamento dello stato, si assiste parallelamente ad un altro cambiamento, che comporta il trasferimento di responsabilità dal centro istituzionale degli apparati statuali a quelli degli enti locali, regioni soprattutto, condotto al fine di tagliare la spesa pubblica che non è produttiva dal punto di vista capitalistico e/o di subordinarla alle condizioni che offrono i territori per la sua valorizzazione in senso capitalistico o per rastrellare capitali a livello fiscale. Il federalismo è stata l’altra grande presunta “soluzione istituzionale” sbandierata dalla borghesia imperialista nel nostro paese, beninteso applicato sino ad ora in regime comunque di accentramento del sistema tributario, per cui lo stato a livello centrale decide i tagli e le priorità di spesa e poi gli enti locali devono decidere dove applicare questi tagli e con i residui provvedere alle proprie spese.
L’altro grande compito dei governi è quello di dare corpo alla proiezione esterna della classe dominante e, quindi, nel caso dell’Italia, del grande capitale imperialista italiano, all’interno di una situazione mondiale che vede inasprirsi la lotta per la ripartizione dei mercati da parte delle diverse borghesie imperialiste, con lo sviluppo delle contraddizioni sia con i popoli oppressi e le nazioni indipendenti e sia tra di esse. L’imperialismo italiano, che è tale non per potenza militare, capacità espansionistica o autonomia politica negli scenari mondiali, ma per struttura economica connaturata dal peso, dal dominio e dalla presenza sui mercati dei monopoli finanziari e industriali, è storicamente debole sul piano di una propria linea coerente di proiezione economico-politica internazionale, ma è anche molto attivo nell’integrarsi, con un proprio spazio di potere ed influenza, nelle strategie delle potenze più rapaci, aggressive o comunque più rafforzatesi in una determinata fase. Lo si è visto nella sua parabola storica, da Giolitti, passando per Mussolini e per le ambivalenze del regime democristiano, fino all’attuale adesione e partecipazione alle diverse campagne di guerra capeggiate dall’imperialismo Usa e condotte perlopiù nell’ambito della Nato. Tanto che l’Italia è il paese con militari presenti in più fronti di guerra.
Ma quando guardiamo alla politica estera italiana, dobbiamo innanzitutto riferirci alla dimensione di relazioni sostanziali che l’imperialismo nostrano ha assunto nell’ambito dell’aggregato dell’Unione Europea, a livello monetario e finanziario, attraverso la moneta unica e la direzione della Banca Centrale Europea e nella sovrastruttura politica delle istituzioni comuni dell’Unione, con tutto ciò che ne consegue in termini di compenetrazione tra questa sfera estera “comunitaria” con quella economico-sociale interna e a come ciò vada strettamente a connettersi alla proiezione internazionale del grande capitale italiano di cui sopra. A dover definire sinteticamente la posizione dell’imperialismo italiano all’interno dell’Unione Europea si può dire che esso “primo tra gli ultimi”, nel senso che è quello che ha il peso economico e dunque politico maggiore fra i cosiddetti pigs della fascia costiera mediterranea. All’interno dell’aggregato tra diverse borghesie imperialiste e capitaliste che costituisce l’Ue, l’Italia ha dunque un ruolo sicuramente di secondo piano rispetto a quello occupato dalla Germania, che sostanzialmente tende a guidare l’Unione, dirigendo il fronte dei paesi del Nord che condivide la sua linea rigorista, e anche rispetto alla Francia, che ha giocoforza perso le velleità di condividere con Berlino la guida dell’Europa, viste le profonde difficoltà economiche nelle quali è precipitata dall’inizio dell’attuale fase di aggravamento della crisi, prima con il crollo degli Usa nel 2007 e poi con il suo massiccio riverbero nel vecchio continente con il bubbone dei “debiti sovrani”.
L’Italia è, assieme alla Spagna – rispetto alla quale però ha un peso industriale maggiore – l’imperialismo economicamente più debole aderente all’Unione, ma pur sempre un paese imperialista. Nel senso che è sovrastante oggettivamente i paesi della periferia dell’Ue, cioè dell’Est Europa – nei quali convivono dinamiche di capitalismo autonomo assieme a tendenze alla compradorizzazione delle locali classi dominanti a favore di Usa e potenze dell’Ovest europeo – e ovviamente rispetto a quel “grande malato” che è la Grecia, ma anche i paesi capitalisti del Nord che, pur evidentemente collocati in uno sviluppo di tipo monopolistico-imperialista, non hanno il peso globale che l’Italia detiene. Va specificato, infatti, che quando parliamo di imperialismo italiano lo facciamo secondo dati oggettivi economici, che, partendo da concentrazioni capitalistiche della borghesia italiana (private) e dello stato italiano (pubbliche), corrispondono poi ad un ruolo politico-militare globale: il sistema economico italiano è al nono posto per esportazione mondiale di merci, al quattordicesimo per investimenti a livello mondiale ed esportazioni di servizi commerciali e al nono per misura del Pil [5]. Questi dati, riferiti al 2013 e pubblicati sull’annuale rapporto Istat [6], pur confermando la devastante crisi del capitalismo nostrano, che negli anni precedenti occupava comunque posizioni più avanzate, rendono la dimensione della sua proiezione internazionale, che all’interno dell’Ue tende ad essere stabilmente superata da Germania, Francia e Regno Unito, ma non da altri paesi se non su singoli indicatori. È da questa posizione che Roma ha premuto rispetto alla linea tenuta dall’Unione Europea nella dicotomia finanziaria tra “crescita” (immissione di capitali dalla Bce) e “rigore” (tagli da parte dei singoli stati), visto che l’attuale governo Renzi si è fatto promotore, certamente in parte anche in termini propagandistici, proprio del tentativo di imporre nuovi rapporti di forza all’interno dell’Ue, che potessero dare respiro alla classe capitalista italiana, soprattutto a quella industriale, permettendole, con alleggerimenti dei vincoli di stabilità e con adozione di politiche di “crescita” da parte della Bce, di gonfiare la disponibilità dei capitali offerti dalle banche e dallo stato stesso (il famoso quantitative easing varato poi effettivamente dalla Bce a marzo).
In ogni caso, l’Unione Europea e la Nato sono i due ambiti nei quali l’imperialismo italiano agisce, dunque in alleanza con gli imperialismi europei e con quello Usa, sul piano internazionale e rispetto ai quali piega anche i propri interessi, consapevole che i rapporti di forza non gli consentono di giocare da solo sull’arena mondiale o comunque di imporsi come dominante in questi due ambiti e che i suoi specifici interessi non possono inficiare la necessità strategica della guerra e il procedere dei relativi passaggi, oggettivamente determinata dal procedere delle contraddizioni del sistema imperialista globale e per la quale l’unica struttura di riferimento per le borghesia imperialista italiana e per le altre del vecchio continente rimane l’Alleanza Atlantica a guida Usa [7]. Di esempi in tal senso ve ne sono molti, tra i quali spiccano, negli ultimi anni, il “tradimento” della Libia di Gheddafi nel 2011 – nell’anno di maggiore interscambio con l’Italia – e l’allineamento all’aggressione voluta principalmente da Francia e Inghilterra per riposizionarsi a livello di investimenti energetici e, dopo l’esplodere della questione ucraina, nel 2013, il progressivo volta faccia della diplomazia italiana alla Russia, con la quale precedentemente i rapporti sul piano economico erano stati molto stretti, toccando il loro apice con la compartecipazione italiana al progetto del South Stream, poi mandato a monte dallo stesso Putin per gli ostacoli posti dall’Ue e il disinvestimento dei capitali europei.
Se in tal senso possiamo delineare nei termini più generali possibile la situazione della formazione economico-sociale imperialista italiana e la classe dominante dei cui interessi è espressione e riproduzione, dall’altra parte, nel nostro campo, dobbiamo guardare al proletariato italiano, o meglio al proletariato d’Italia, senza dare connotazioni etnico-nazionali alla classe da sempre limitate e fuorvianti e oggi del tutto inadatte anche a mero scopo descrittivo, visto l’incidere del fenomeno migratorio. Ovviamente, dal punto di vista materiale, tale proletariato subisce – assieme alle altre classi o sottoclassi che compongono le masse popolari, cioè sottoproletariato, piccola borghesia e media borghesia, ma in misura più diretta ad esse per il suo ruolo nel processo produttivo – il peso del processo della crisi e della sua gestione da parte della borghesia imperialista italiana (e internazionale) e del suo stato. Basti vedere che, concretamente, i dati che esprimono la crisi riguardano la condizione proletaria, con la disoccupazione e la precarietà in aumento, le ore di cassa integrazione, i salari che precipitano, e, più generale, la toccano tutte le più rilevanti questioni sociali, dall’emergenza abitativa a quella delle carceri, dall’avvelenamento ambientale all’immigrazione. Altrettanto ovviamente, dal punto di vista soggettivo, il proletariato subisce l’egemonia della classe dominante, che si radica e rafforza con l’azione dei suoi apparati ideologici, culturali e politici (mass media, produzione culturale, sindacati e partiti borghesi…): all’interno della classe sfruttata trovano dunque naturalmente casa i veleni della classe dominante (nazionalismo, razzismo, contrapposizioni tra settori di proletari ad esempio dipendenti privati contro pubblici), i suoi offuscamenti e intorpidimenti (il riformismo, la socialdemocrazia, il pacifismo…) e i suoi meccanismi ideologici di recupero preventivo del movimento delle masse (si pensi alla “rivoluzione passiva” dell’antipolitica). Ciò nonostante è altrettanto innegabile che i lavoratori e le masse popolari, nelle loro parti più avanzate o laddove essi sono obbligati a farlo per condizioni oggettive (ad esempio nel caso di perdita del posto di lavoro), comunque tendono a mobilitarsi, a reagire, con la coscienza e con i mezzi che hanno disposizione, difronte al persistente attacco della classe dominante. Lotte sul posto di lavoro o per difenderlo, per la casa, contro la devastazione ambientale, perfino all’interno di strutture detentive come carceri e C.i.e., rappresentano una costante innegabile e oggettiva della realtà della formazione economico-sociale italiana, nonostante è da due decenni in qua che la borghesia imperialista del blocco a guida Usa abbia proclamato la fine della “lotta di classe” e la “morte delle ideologie”, ovviamente a beneficio del proprio potere di classe e della propria ideologia, nelle sue diverse varianti di cui sopra. La mobilitazione dei lavoratori e delle masse popolari avviene aldilà della percezione e del giudizio che di essa hanno i comunisti e le forze di classe, tende a svilupparsi come elemento quantitativo, spontaneo, è l’oggettività in movimento aldilà della soggettività rivoluzionaria, che noi auspicheremmo esservi a capo, e delle soggettività che si pongono alla sua testa, siano esse pure in sé reazionarie (ad esempio le burocrazie confederali) o comunque parziali e potenzialmente negative nei termini generali della lotta di classe (ad esempio il ceto dirigente del sindacalismo di base). O ci si relaziona, come comunisti, a questo piano oggettivo, principalmente valutandolo per quello che è, senza giudicarlo per quello che non è, oppure si è fuori dai giochi. Ciò comporta due cose: primo che per relazionarvisi bisogna starci con la pratica, secondo che starci significa esservi all’interno come comunisti, cioè non rinunciando alla propria prospettiva politica per piegarsi a qualcosa che, magari, sul momento o apparentemente “rende di più”. Applicare cioè la linea di massa in senso comunista. Bisogna entrare nell’ottica che la prospettiva politica serve alle lotte e più in generale alla classe come il carbone serve al fuoco. Poiché solo a lottare, se non si cresce verso un obbiettivo politico, alla fine ci si consegna alla politica del nemico che riempie i vuoti del movimento, per quanto si abbia investito energie e sacrifici anche estremi, alla lotta.
Ciò che ha dato forza alle lotte di ieri è stato l’emergere della prospettiva del superamento del capitalismo, una prospettiva eminentemente politica, anche se le lotte in sé riguardavano spesso obbiettivi economici e rivendicativi. Se non si lavora al rafforzamento di questa prospettiva non si contribuisce nemmeno al rafforzamento concreto delle lotte, al loro allargamento, al loro collegamento, al loro innalzamento. Poiché se non c’è nulla aldilà di questo sistema – così è stato imposto alla masse da decenni di egemonia borghese – allora tanto vale accettarne la logica e sperare di sopravvivere portandola alle estreme conseguenze, dicono i reazionari, oppure chiedere un po’ di briciole, senza osare mettere in discussione i posti a tavola, come dicono i riformisti, pur nella fase in cui non si strappano nemmeno le briciole.
Prospettiva rivoluzionaria e linea di massa sono come la testa e il corpo, senza la prima non si riesce a capire dove andare, senza il secondo non si riesce ad andarci. Ed oggi linea di massa vuol dire tendere alla fusione, senza rinunciare alla “testa”, con la classe, con le masse popolari, soprattutto con la parte di esse che lotta. Perdipiù in un momento in cui il vuoto politico tra i lavoratori è ampio, morto e defunto il Pci ridotti all’osso i suoi vari, ridicoli ed infami epigoni; un vuoto che oggi parte degli apparati della Cgil, ovvero la Fiom di Landini in particolare, puntano a recuperare, rimasti orfani dell’asse privilegiato con il Pd, troncato dal thatcerismo di Renzi.
Una riflessione sulla realtà sociale italiana di oggi non può che avere il fine pratico, pur in una rivista di approfondimento, di dare degli strumenti di analisi e di proposta politica che siano utili ai compagni per il loro lavoro in questa realtà, soprattutto fra le masse e in particolare alle masse che si mobilitano, per conoscere il reale per agirvi e per capire come agirvi, quale posizione prendere e come dare corpo a queste posizioni. E ancora dovrebbe avere il fine di riuscire a rivolgersi ai proletari coscienti, specie quelli che sono interni alle mobilitazioni, per indicare loro il perché la prospettiva politica dei comunisti costituisce il patrimonio necessario per lo sviluppo della capacità della nostra classe di incidere in questo presente, anzi di farsi promotore, come impone la posizione oggettiva che essa occupa nel sistema capitalista, della sua trasformazione rivoluzionaria.
Note:
[1] Vedi: http://www.svimez.info/index.php?lang=it.
[3] Su La Repubblica – Affari Finanza del 24/11/2014, nell’artico di F. Fubini “Poca fiducia e capitali il paese nella palude” si afferma che su 28 maggiori operazioni di acquisizioni a livello industriale in Italia, in 18 casi il compratore era straniero. Nei restanti 10 casi, la metà riguardavano acquisizioni operate dalla Cassa Depositi e Prestiti, cioè indirettamente dal governo, con capitali pubblici.
[4] La tendenza non è univoca, nel senso che a fianco ai processi di delocalizzazione che molti monopoli, soprattutto esteri, hanno portato e portano avanti rispetto agli investimenti in Italia, vi è una tendenza al rientro di capitali industriali soprattutto da parte di aziende italiane. Sul punto vedi, ad esempio: http://espresso.repubblica.it/affari/2014/12/10/news/torna-a-casa-azienda-1.191322.
[5] L’oggettività di questi dati dovrebbero mostrare tutta la fallacia di interpretazioni della formazione economico-sociale italiana come semplicemente capitalistica, non connaturata cioè da una sviluppo in senso monopolista – imperialista, nel senso conferitogli, in primis, dall’analisi definitoria de “L’imperialismo” di Lenin (1917). La questione di fondo che soggiace alle tesi errate è anteporre, quando si guarda all’Italia, valutazioni empiriche – condotte sul piano economico, politico, militare – all’analisi e sintesi fondamentale sulla sfera economica interna e la sua proiezione mondiale, in sé per sé, che si rivela coincidente con: “1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche” (V. Lenin, “L’imperialismo“, p. 128, Editori Riuniti, 1970, Roma).
[6] Vedi: http://www.istat.it/it/files/2013/07/Rapporto_2013.pdf.
[7] Cfr. http://www.resistenze.org/sito/os/dg/osdgfc16-015994.htm.