Antitesi n.00Classi sociali, proletariato e lotte

Il caso Electrolux

Crisi, ristrutturazione e lotta in uno dei maggiori monopoli industriali in Italia

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.00 pag.27


La storia di Electrolux in Italia è iniziata oltre 30 anni fa quando, con la crisi della Zanussi nei primi anni ‘80, il gruppo svedese Electrolux acquistò tutti gli stabilimenti del gruppo.

La Zanussi era nata a Pordenone agli inizi del secolo scorso, ma negli anni 50 cominciò una reimpostazione produttiva che permise la creazione di linee di montaggio per la produzione di massa degli elettrodomestici.

Nella fase ascendente del capitalismo italiano del dopoguerra, la Zanussi copriva il quasi 30% del mercato dell’elettrodomestico in Italia. L’aumento esponenziale di richiesta di elettrodomestici la portò all’acquisizione di altri marchi italiani concorrenti e alla creazione di nuovi stabilimenti. La produzione, iniziata con le cucine a gas, ben presto si differenziò con la realizzazione prima di frigoriferi e di lavatrici, poi di lavastoviglie. Le innovazioni prodotte in quegli anni ben presto cominciarono ad essere apprezzate anche all’estero, conquistando anche il mercato europeo. Con gli anni, il numero dei dipendenti nelle fabbriche arrivò ad oltre 35 mila unità e la Zanussi diventò il secondo gruppo in Italia, dopo la Fiat.

Tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 continuò la fase di espansione con l’acquisizione di altri marchi all’estero, specialmente in Spagna, arrivando a coprire il 14% del mercato europeo.

La fase di crisi capitalistica però iniziò ben presto a pesare e nel 1984 si ebbe la svendita di Zanussi ad Electrolux per evitare il fallimento. L’azienda di proprietà dei Wallenberg era già una forte realtà consolidata con stabilimenti presenti in tutta Europa.

I primi anni ’80 nel nostro paese erano già, infatti, gli anni di ristrutturazione, fusione e concentrazione dei grandi gruppi monopolistici industriali, su tutte la Fiat; un periodo nel quale lo stato, per “salvare” le fabbriche, regalava soldi ai padroni. Così fu fatto anche per la vendita della Zanussi ad Electrolux, una pioggia di miliardi di lire tramite cassa integrazione, defiscalizzazione, riduzione delle tasse per le nuove assunzioni, ma ciò significò soprattutto la fuoruscita dalle fabbriche del gruppo di oltre 6 mila dipendenti. Forte degli ampi benefici ricevuti Electrolux si stabilì in Italia, ma alla fine degli anni ’80 presentò un piano di riduzione del personale pur garantendo il mantenimento dei 5 stabilimenti principali. Inoltre investì in nuove linee di montaggio e modificò il sistema industriale precedente che diventò modello anche per le altre aziende italiane. La principale modifica fu la “reindustrializzazione” di ogni singolo stabilimento. Ciò significò che mentre prima, nell’era Zanussi, in ogni sito si producevano tutti gli elettrodomestici ora, si doveva produrre un solo elettrodomestico, veniva così specializzata la produzione e innalzata sia la capacità produttiva sia l’innovazione.

Questa modifica di Electrolux non era finalizzata solo alla miglior gestione del settore industriale in Italia, ma creava anche condizioni favorevoli all’azienda per tenere sotto ricatto i lavoratori. Si realizzavano così due vantaggi per Electrolux: la divisione tra gli operai della stessa nazione e la competizione tra stabilimenti di nazioni diverse che producevano il medesimo prodotto. Questo poiché ogni elettrodomestico ha caratteristiche, problematiche e fasi di lavoro peculiari: le linee di montaggio, i carichi di lavoro, la produzione oraria e quella annuale dipendono dal singolo prodotto. In questo modo venivano isolati gli stabilimenti tra loro, ma soprattutto ogni Rsu di fabbrica doveva affrontare le proprie difficoltà da sola perché non esistevano altre realtà a livello nazionale con le medesime dinamiche.

A livello europeo, invece, veniva spinta la concorrenza tra operai per chi costava meno e rendeva di più. Ciò fu reso possibile da diversi fattori, sia da una forte disuguaglianza tra gli stati europei nelle normative sul lavoro, nel costo della manodopera, nella gestione degli aspetti fiscali, nei costi dovuti all’approvvigionamento delle materie prime e nei costi di gestione, sia ai diversi piani industriali che ogni singola nazione attuava per mantenere gli stabilimenti del gruppo attivi nel proprio territorio con differenti aiuti tramite defiscalizzazione e tagli di tasse. Di fronte a tutto ciò a livello sindacale è mancato un coordinamento su scala europea e il sindacato ha pensato più a difendere gli interessi nazionali che quelli dei lavoratori, promuovendo la loro unità tra i vari paesi. Questa politica provocò alla fine degli anni ‘90 la chiusura di 25 fabbriche e oltre 50 magazzini solo in Europa. Uno dei parametri per il mantenimento dello stabilimento era il raggiungimento del suo target di profitto impostato dal gruppo che prevedeva un aumento dell’utile del 3% annuo per ogni stabilimento. Come arrivare al raggiungimento dell’obiettivo era deciso dal responsabile di stabilimento: aumento di produzione, tagli di personale, innovazione nelle fasi di produzione…, l’importante era il raggiungimento dell’obiettivo.

Focalizziamo l’attenzione sullo stabilimento di Porcia per capire nel concreto com’è avvenuto tutto questo. Quest’insediamento è situato in un’area geografica dove si contano il maggior numero di fabbriche Electrolux in Italia: il “ricco” e lavorativo nord est.

Il nord est è stato forse l’ultima area geografica ad entrare in crisi in Italia, ma è anche quello che oggi ha il più alto numero di suicidi legati alla crisi. In quest’area il concetto di lavoro, della proprietà e dei soldi è ben radicato per condizioni oggettive che hanno precise radici storiche. È una zona con un alto tasso di piccole imprese, ma anche un alto tasso di abbandono scolastico.

Fino al 2007 il benessere economico era legato principalmente ad un monte ore ben oltre le 200 mensili di media per dipendente. Questo dato riguardava sia le grandi industrie sia le piccole, l’unica differenza era il pagamento, dove si poteva, era “fuori busta”. Il numero di fabbriche, più o meno grandi, che lavorava con i turni è sempre stato alto, non solo per la richiesta aziendale, ma anche per la grande disponibilità dei lavoratori alla turnazione. Inoltre, in quest’area molti operai provenienti da famiglie contadine, oltre che in fabbrica, lavorano in campagna. Si è sviluppato così il “miracolo del nord-est” con una miriade di piccole aziende, dove non esistevano i giorni festivi e limiti d’orario. E anche nelle grandi aziende, nonostante ci fossero i controlli, c’erano alcuni settori, dove gli operai potevano lavorare settimane intere, 7 giorni su 7. Bastava la buona volontà dell’operaio purché la produzione andasse avanti. Da queste parti per decenni si è lavorato, prodotto, assemblato di tutto e di più a ritmi da far concorrenza alla Cina. Là dove non si potevano aggirare le leggi sono state inventate nuove tipologie di contratto.

Il gruppo Electrolux qui ha sperimentato modelli di contratti che, anni dopo, sono stati inseriti nei contratti nazionali. La tipologia di contratto è legata alla produzione della singola merce e ogni stabilimento, producendo un elettrodomestico diverso (lavatrici, frigoriferi, forni), aveva esigenze diverse. Il gruppo, quindi, si è dotato di un’infinità di possibili orari e spesso su questo ha fatto scuola con una tipologia di turnazione che seguiva l’andamento stagionale del prodotto: linee di produzione a ciclo continuo, 7 giorni su 7, suddivisi in tre turni con 5 squadre in alternanza; turnazioni basate sulle 6 ore con il sabato compreso e 2 sabati pomeriggio obbligatori al mese; contratti part-time ciclico (9 mesi per l’Electrolux e gli altri 3 mesi ti cerchi un altro lavoro). Quest’ultima tipologia di contratto era ben accettata dagli immigrati, perché permetteva di far rientro nei loro paesi per 1-2 mesi l’anno e poi tornare in Italia a lavorare per altri 9 mesi. Fino al 2005 in fabbrica, tra agosto e settembre, venivano assunte 400/500 persone a tempo determinato, lasciate a casa dopo 9 mesi. Questa ricerca di lavoratori “stagionali” provocava un forte incremento d’immigrati nella provincia e si formavano comunità d’immigrati provenienti dallo stesso paese, spesso africano, come ad esempio la comunità ghanese che contava in fabbrica oltre 200 lavoratori. Molti venivano riassunti anche l’anno successivo, ma naturalmente, in prossimità del raggiungimento dei 36 mesi lavorativi e dell’assunzione definitiva in fabbrica, non venivano più richiamati, visto che di richieste di lavoro ce n’erano sempre tante. Nei primi anni 2000 il solo stabilimento di Pordenone produceva quasi 2 milioni e 700 mila apparecchiature tra lavatrici ed essiccatori. Tutti i sabati c’era qualche linea che lavorava mentre sugli essiccatori, oltre al sabato mattina, si poteva lavorare, da settembre a febbraio, anche il sabato pomeriggio. Il lavoro del sabato era su base volontaria, di solito vi aderiva chi aveva lavorato al mattino quella settimana, ma se c’era qualcuno che smontava di turno il venerdì sera alle 21.30 e si presentava in fabbrica alle 5.30 del sabato, veniva accettato senza problemi. Il tutto con il consenso dei responsabili di fabbrica e con il pieno avvallo dei sindacati, visto che l’obiettivo era il raggiungimento dei volumi produttivi. Intanto cominciavano le voci della volontà di Electrolux di costruire fabbriche nell’Est Europa. S’intuiva che la costruzione di fabbriche in nazioni in fase di relativa espansione di mercato e soprattutto nei termini dell’enorme potenziale di lavoro a basso costo, avrebbe avuto ricadute pesanti sulle fabbriche di tutta l’Europa occidentale. Un esempio evidente era la fabbrica tedesca di Norimberga che era stata messa in osservazione (prima fase verso la chiusura) assieme a quella di Porcia. Le due fabbriche erano simili per prodotti (lavatrici ed essiccatori), per numero di operai (oltre 2000) e per volumi prodotti. Tra il 2004 e il 2006 il gruppo Electrolux decise di chiudere lo stabilimento in Germania a favore di quello italiano, nonostante un forte intervento da parte del governo tedesco. Gli operai tedeschi bloccarono la produzione per 50 giorni per opporsi alla chiusura, ma ottennero solo un considerevole aumento di “buona uscita”.

Quest’episodio fece capire quali erano i veri interessi della multinazionale che non guardava in faccia nessun governo, nemmeno quello tedesco, e proseguiva la sua linea di ristrutturazione perenne per garantirsi i profitti e far fronte a ogni crisi.

L’effetto della chiusura di Norimberga fu dirompente sia per gli operai di quello stabilimento sia per gli stati nel cui territorio c’erano stabilimenti del gruppo. Tutti capirono che Electrolux, chiudendo lo stabilimento tedesco, superava un nuovo limite e nessun altro stato sarebbe stato in grado di competere con Electrolux per mantenere gli stabilimenti nel proprio territorio. Beffa delle beffe per i tedeschi fu la scoperta che Electrolux aveva deciso di spostare la produzione sì in Polonia, ma a meno di 200 km dal confine continuando così a sfruttare le infrastrutture tedesche per spostare le merci.

Negli anni successivi continuò la chiusura di altri stabilimenti europei, in Spagna, in Svezia e in Francia. Alcuni governi, come ad esempio quello francese, imposero ad Electrolux di individuare altre aziende in grado di subentrare per mantenere i volumi occupazionali precedenti. Electrolux individuò un suo fornitore con cui stipulò un accordo di partnership garantendo così di restarne cliente per un periodo. In questo modo a circa 80% degli operai francesi ex-Electrolux venne garantito il posto di lavoro

In Italia, invece, i primi contraccolpi si ebbero tra il 2005 e il 2008. Per prima cosa Electrolux trasferì in Polonia la produzione di essiccatori, mantenendo comunque a Porcia tutta la progettazione.

La chiusura della produzione di essiccatori determinò anche la fine delle assunzioni a tempo determinato, la mancanza di volumi degli essiccatori venne compensata dall’aumento della produzione di lavatrici. Anzi, per quasi un anno, alcune linee passarono a tre turni pur di garantire i volumi annuali. L’aumento di volumi produttivi non venne compensato da nuove assunzioni, ma dall’arrivo di operai precari assunti tramite agenzie interinali. Così si creò una nuova situazione lavorativa: operai che svolgevano le stesse mansioni in linea con tipologia di contratto totalmente differenti. Da una parte operai inquadrati con il contratto nazionale dei metalmeccanici, il contratto aziendale, i premi di produttività, i diritti riconosciuti dallo statuto dei lavoratori, i diritti tutelati dai sindacati, dall’altra lavoratori, per la maggior parte giovani e giovanissimi, senza tutele, senza prospettive e che guadagnavano un terzo in meno. Anche qui il sindacato ha avallato gli interessi dell’azienda, affermando che gli operai interinali non erano nemmeno del settore metalmeccanico ma appartenevano ad altre categorie, altri contratti, quindi erano diversi e non tutelabili.

Tra il 2007 e il 2008 fu raggiunto il massimo dei volumi produttivi dello stabilimento, oltre 12 mila lavatrici al giorno, quasi 2 milioni e 500 mila lavatrici l’anno.

Mentre a Porcia come in altri stabilimenti si raggiungevano volumi prodotti da record, Electrolux cominciava a chiudere il primo stabilimento in Italia, quello di Scandicci vicino a Firenze che dal 2005 era già in forte ridimensionamento con la produzione di frigoriferi trasferita nell’Est Europa. La scelta di chiudere lo stabilimento di Scandicci è avvenuta dopo un’analisi del sito produttivo in competizione con quello di Susegana, in provincia di Treviso, anch’esso produttore di frigoriferi. A Scandicci, tra il 2005 e il 2008, gli operai passano da 850 a 400. Nel 2008 cominciano le trattative tra Electrolux, governo, sindacati, regione toscana, per individuare una cordata di padroni che investa nello stabilimento e reindustrializzi il sito garantendo l’assunzione degli ex lavoratori Electrolux. Le cordate erano tre e prevedevano la quasi totalità delle riassunzioni dei lavoratori. Alla fine fu scelta quella per la produzione di panelli solari. Ma questi nuovi imprenditori, oltre allo stabilimento già avviato e al personale già assunto, volevano anche soldi, sgravi e contributi per avviare l’attività. Il tutto fu garantito dal governo che permise gli sgravi e autorizzò il credito alla cordata. I problemi cominciarono da subito in quanto, dopo aver ottenuto tutti i soldi, la cordata sparì con il bottino, lasciando gli operai a casa senza lavoro. All’inizio di quest’anno sono arrivati i primi verdetti processuali che condannano i padroni, ma per gli ex operai Electrolux non c’è nessun tipo di risarcimento.

Il tutto avvenne nonostante i controlli del Ministero, lo sguardo attento dei sindacati e l’arroganza di Electrolux nel ribadire che all’epoca era stata fatta la scelta migliore.

Quest’esempio va tenuto bene a mente per i restanti stabilimenti.

Il declino degli altri stabilimenti è iniziato dopo il 2009: la multinazionale svedese allora dichiarò oltre 1500 esuberi in Italia, la maggior parte tra Friuli e Veneto. Annunciò la cassa integrazione e la costruzione di nuove linee produttive per aumentare i pezzi/ora e contemporaneamente abbassare i volumi produttivi. Così da 9 linee produttive si passò a 5 aumentando il numero di pezzi/ora da 80 a quasi 100. Seguirono mesi di trattative, con scioperi e proteste e alla fine Electrolux ottenne quello che voleva: mobilità per quelli prossimi alla pensione (i famosi esodati), aumento della produttività, auto licenziamento con contributo dell’azienda.

Nel 2013, alla fine dei 4 anni di cassa integrazione, ci fu un ulteriore giro di vite con il passaggio ai contrattati di solidarietà. Questo nuovo contratto prevedeva anche un cambiamento epocale per i lavoratori i quali non avrebbero più lavorato 8 ore al giorno ma solo 6 con il contributo dello stato e delle istituzioni regionali che copriva il costo delle altre 2 ore. Il tutto a vantaggio dell’azienda che ha ulteriormente abbattuto i costi, attenendosi ai volumi produttivi delle richieste commerciali: si producono solo lavatrici già vendute ai clienti. Inoltre l’utilizzo della fabbrica (riscaldamento, elettricità, funzionamento in genere) costa un quarto in meno al giorno, la mensa lavora solo a pranzo mentre è chiusa alla sera, tanto il secondo turno termina alle ore 18. Se ci sono aumenti di produzione c’è sempre la possibilità di tornare ai due turni di 8 ore. Come ad esempio nei mesi da luglio ad ottobre del 2013, oppure nei mesi di agosto e settembre 2014. Questo è dovuto alle statistiche che prevedono un aumento delle vendite in autunno, quindi nei mesi più caldi si lavorerà 8 ore al giorno. L’azienda ha anche la possibilità di sfruttare i sabati con la flessibilità e non pagarli in straordinario. In pratica, lascia a casa gli operai durante un periodo di bassa richiesta di lavatrici mentre, se ci sono picchi produttivi, fa lavorare al sabato recuperando le giornate in cui gli operai erano rimasti a casa. A rimetterci sono sempre gli operai i quali, non solo si vedono decurtare mensilmente la busta paga dalla cassa integrazione, ma perdono l’incremento salariale pari al 19% di quanto percepito nelle ultime 4 ore del turno pomeridiano che l’azienda, come stabilito dal contratto nazionale, dovrebbe erogare dopo il superamento delle 12 ore giornaliere di produzione. Ma non è solo l’aspetto economico che viene stravolto, il cambiamento d’orario ha comportato lo stravolgimento della vita degli operai, orari famigliari diversi, cambiamento delle abitudini nella vita quotidiana.

In altri stabilimenti, come ad esempio in quello di Susegana, nei mesi estivi del 2014, ci sono stati anche sabati di straordinario per far fronte a nuove richieste produttive.

Con queste premesse nell’ottobre del 2013 il gruppo Electrolux presentò un nuovo piano industriale per gli stabilimenti in Italia, che prevedeva l’aumento produttivo per gli stabilimenti di Susegana, Forlì e Solaro (Mi) dove si producono rispettivamente frigoriferi, forni e piani di cottura e lavastoviglie. Porcia non veniva nemmeno preso in considerazione. Inoltre la multinazionale dichiarava quasi 3000 esuberi tra operai e impiegati.

Davanti a questo ulteriore piano di dismissione si è finalmente alzata la voce degli operai di tutti gli stabilimenti del gruppo che da novembre 2013 a maggio del 2014 hanno adottato forme di lotta in tutti gli stabilimenti per difendere il proprio posto di lavoro con scioperi, presidi permanenti davanti alle fabbriche, blocco dell’uscita del prodotto, manifestazioni imponenti nelle varie città con l’appoggio di tutta la cittadinanza. In quei mesi i politici riscoprirono l’esistenza delle fabbriche, i governatori delle regioni che avevano gli stabilimenti nei loro territori dovettero rimboccarsi le maniche e partecipare attivamente alle fasi di trattativa con il governo e l’azienda, le televisioni e i mass media furono costretti ad occuparsi delle proteste. Addirittura i sindacati organizzarono la loro kermesse principale, quella del Primo Maggio, a Pordenone. Ma fu solo grazie alla determinazione degli operai con mesi di lotte e sacrifici che Electrolux fu costretta a presentare un nuovo piano industriale che prevedeva il mantenimento di Porcia, ma che nascondeva una trappola.

Il nuovo piano industriale è però concepito per creare un ulteriore solco tra gli altri stabilimenti e quello di Porcia. In pratica impone nuovi aumenti produttivi nei tre stabilimenti garantendo, con l’aumento dei volumi, un prolungamento di vita fino a circa il 2020 mentre, per lo stabilimento di Porcia, c’è un calo di volumi produttivi fin sotto il milione di lavatrici annue e uno spettro di vita che arriva al 2017. Nonostante una buona fetta dei lavoratori di Porcia si dichiari contraria all’accordo, al punto di non andare a votare, l’accordo passa a livello nazionale.

La multinazionale Electrolux ottiene quello cui era interessata con il piano industriale dell’ottobre del 2013: defiscalizzazione di stipendi e salari, dei contratti di solidarietà, taglio delle tasse sia a livello nazionale che regionale; nelle fabbriche intensificazione produttiva (diminuzione delle pause di lavoro, aumento della produzione oraria, diminuzione dei premi produttivi, maggiore controllo sull’assenteismo, ferie flessibili, riduzione del 60% dei permessi sindacali). L’obiettivo è quello di far scendere il numero di operai all’interno delle fabbriche con forti incentivi a licenziarsi, con oltre 40 mila euro all’operaio che decide di andarsene. Cifre importanti per una multinazionale che dichiara di essere in crisi.[1] Ma l’azienda in realtà perde volumi esclusivamente nel mercato europeo mentre nelle altre parti del mondo, vedi Sud America e Asia, si rafforza: essa continua a produrre oltre 2 milioni di lavatrici tra gli stabilimenti italiani e quelli polacchi, decidendo di comprare la General Electric, GE Appliances, il principale produttore di elettrodomestici per la cucina e di lavatrici negli Stati Uniti, per la cifra ragguardevole di 3.3 miliardi di euro. Solo con quest’acquisizione Electrolux torna ad essere leader mondiale negli elettrodomestici e, in Italia, ha aperto la strada, come fatto in passato, a cambiamenti importanti negli accordi aziendali: lo stesso Marchionne ha fatto dichiarazioni di apprezzamento sull’abbattimento delle ore di permessi sindacali, sull’eliminazione delle pause, sulla gestione degli esuberi tramite contratti di solidarietà. Tutto ciò che Electrolux ha ottenuto può essere richiesto anche da altre aziende, inoltre, può proseguire con il suo piano di spostare le fabbriche prima verso l’Est Europa, ma puntando fin da subito verso l’Asia meridionale dove, entro un decennio, avrà il suo cuore produttivo. Infatti, lo spostamento nell’Europa dell’Est è solo un passaggio.

La situazione in Ucraina, dove Electrolux aveva costruito uno stabilimento, oppure in Russia, dove ha avviato la produzione di lavatrici vicino a San Pietroburgo, non garantisce quella stabilità che serve ad una multinazionale per produrre con una certa tranquillità. Tutto questo sta portando i vertici del gruppo svedese ad anticipare lo sbarco in Asia. Anche l’acquisizione della General Elettric negli Usa va in questa direzione, visto che a breve difficilmente la guerra coinvolgerà il territorio statunitense.

Il governo italiano esce dalla vertenza Electrolux con un contributo in prima persona di Renzi che, appena insediato a capo del governo, nel febbraio 2014, manda i ministri alle trattative, non i sottosegretari come aveva fatto il suo predecessore Letta. La stessa Seracchiani, governatrice della regione Friuli Venezia Giulia e renziana da sempre, scala le posizioni di vertice del partito democratico diventandone vice-segretaria. E i ministri Guidi e Poletti misero in atto quelle riforme, presenti nell’accordo con Electrolux, facendole entrare anche nel Jobs act.

I sindacati nel corso di tutta la vicenda hanno svolto il loro compito istituzionale, quello di mantenerli alla briglia durante le fasi più calde della trattativa. Quando la conflittualità si alzava facevano i pompieri per evitare derive impreviste, infatti, durante tutte le manifestazioni e i presidi non ci fu nessun atto “sconsiderato”, il controllo poliziesco imposto dalla triplice sugli operai era totale.

Ad uscirne con le ossa rotte sono stati gli operai, per alcuni di essi c’è la certezza del licenziamento entro qualche anno, per altri ci sono incrementi produttivi che si traducono in più lavoro e meno pause. Per tutti la consapevolezza che la battaglia non è finita. L’errore è stato quello di farsi intrappolare nella rete dai sindacati, quello di aver ancora una volta delegato ai vertici sindacali le battaglie che invece gli operai devono tenere ben salde nelle loro mani. La necessità principale degli operai ora è quella di riappropriarsi di una coscienza di classe che permetta di conquistare una propria autonomia pratica. Quando questo stava iniziando a formarsi tra gli operai dentro alla lotta, iniziavano i tentativi di contatto tra lavoratori al di fuori delle realtà sindacali e ciò ha provocato, nel marzo del 2014, un’accelerazione delle trattative tra sindacato, azienda e governo. Lo stallo verificatosi nei mesi precedenti di gennaio e febbraio aveva aperto gli occhi ad alcuni operai facendogli intuire che la strada da percorrere era quella di ritornare protagonisti delle proprie scelte e superare i limiti imposti dal sindacato.

Con questo spirito dobbiamo proseguire e rafforzarlo in vista delle battaglie future che torneranno a vedere gli operai dell’Electrolux nuovamente in lotta.


Note:

[1] Ovviamente anche i padroni capitalizzano la nozione di crisi, puntando a utilizzarla in termini ricattatori. Ciò a volte fa dire ad alcuni compagni e realtà politiche di movimento che in realtà la crisi non c’è, ma rappresenta una sorta di invenzione dei padroni per utilizzarla contro di noi proletari.

Questo ragionamento, che affonda le sue radici ideologiche nel deviazionismo dell’operaismo, nega da un lato l’oggettività della crisi confermata da tutti i dati macroeconomici e di vita del proletariato e delle masse popolari e dall’altro lato parte da una non comprensione della nozione di crisi, intesa non più in termini materiali-reali, ma in termini di ipotesi astratta assoluta o di evidenza empirica immediata. I fautori di queste tesi, nelle loro diverse varianti, arrivano alla conclusione che se i padroni hanno “ancora i soldi” significa che la crisi non c’è. La realtà e l’analisi del movimento comunista ci dicono ben altro: la crisi è determinata da una serie di condizioni generali (in primis la sovrapproduzione e la caduta del saggio del profitto) che investono il modo di produrre capitalistico e la valorizzazione del capitale, le quali non determinano la sparizione dei capitali dalle mani dei capitalisti come per magia, ma aumentano le contraddizioni necessarie per preservarli e aumentali. Ad esempio, nella concorrenza tra monopoli a livello internazionale, ciò comporta processi di fusione e concentrazione, di ristrutturazione industriali o di abbandono dell’investimento industriale a favore di altri investimenti più redditizi (finanziario ad esempio, ma anche immobiliare).


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